Repubblica 8.1.19
L’Unione e il paradosso di Bucarest
di Massimo Riva
La
guida dell’Unione in questo primo semestre 2019 spetta, in forza delle
regole consolidate, all’attuale e controverso governo di Bucarest. Una
formazione politica fortemente contestata in patria per vicende di
corruzione e di clientelismo diffusi. Ma assai sospetta anche agli occhi
del resto d’Europa per riforme del codice penale e del sistema
giudiziario mirate ad aggirare quel principio della separazione dei
poteri che è elemento costitutivo dello Stato di diritto.
L’agenda
Ue dei prossimi sei mesi prevede scadenze di grande rilievo: entro
marzo, nel bene o nel male, la conclusione del dossier Brexit, a fine
maggio il voto per il rinnovo del Parlamento di Strasburgo, nel
frattempo l’avanzamento delle procedure contro Polonia e Ungheria per
violazione proprio dello Stato di diritto. Accade così che il
coordinamento delle attività comunitarie sarà affidato alle mani di chi,
sotto più di un aspetto, si sta rivelando insofferente verso le regole
dell’Unione e non perde occasione per polemizzare contro le "ingerenze"
di Bruxelles nei propri affari interni.
Perfino in un Circolo
della vela o Golf Club qualche socio avrebbe qualcosa da ridire sul
fatto che la presidenza, seppur temporanea, venga assunta da chi se ne
infischia dello statuto e spara sul quartier generale. Nel caso di
specie, nessun membro dell’Unione ha fiatato. Solo Jean-Claude Juncker,
il presidente della Commissione, ha alzato un sopracciglio esprimendo il
dubbio «che il governo di Bucarest non abbia ancora compreso appieno
cosa significhi assumere la presidenza dei Paesi della Ue». Un modo un
po’ ipocrita per dire e non dire, lasciando di fatto le cose come stanno
ma precostituendosi l’alibi di aver segnalato l’esistenza del problema.
Una
simile reticenza, al limite dell’omertà, non è però politicamente
innocua. Essa certifica il pessimo stato di salute del progetto europeo
in una fase nella quale le pulsioni sovraniste stanno diffondendosi
anche in Paesi e in elettorati finora più refrattari ai richiami
nazionalisti. Piaccia o no, infatti, la benevola negligenza attorno al
problema della presidenza romena della Ue significa non voler vedere — e
meno che mai affrontare — la minacciosa metamorfosi involutiva che
l’Unione sta ormai subendo da qualche anno. In particolare, dopo il suo
allargamento all’Est, sotto la pressione di forze politiche e sociali
troppo a lungo (quando non da sempre) digiune di esperienza di vita
democratica secondo i canoni dello Stato di diritto.
Significa,
insomma, non avvertire che dietro la formula della "democrazia
illiberale" si contrabbanda una sorta di diritto asiatico nel quale la
gestione del potere si afferma e si perpetua in termini di dittatura
della maggioranza.
Una prospettiva politica che sta già
minacciosamente cominciando a raccogliere adepti fra i movimenti
populisti anche nella parte occidentale del continente, Italia per
prima.
Che la questione sia diplomaticamente spinosa e
politicamente impegnativa è un fatto perché rimette in discussione
l’impianto stesso dell’Unione attuale e riapre la ferita di un
allargamento all’Est condotto con qualche eccesso di precipitazione. Ma è
altrettanto un fatto certo che la costruzione unitaria può soltanto
regredire ad area commerciale se non si scioglie ogni ambiguità sul nodo
cruciale della democrazia interna di ogni singolo Paese membro. Perché
l’Europa o sarà sovranazionale o non sarà.