Repubblica 8.1.19
Cari compagni il capitalismo è fatto di byte
di Maurizio Ferraris
Più
che nelle merci, più che nei soldi o nella finanza il vero valore sta
oggi nei documenti che girano in rete. E questo perché ogni nostro
movimento lascia tracce sul web che arricchiscono chi saprà sfruttarle
Quando
ero bambino, il ritornello era l’annuncio del prossimo crollo del
Capitalismo sotto il peso delle sue contraddizioni, e dell’imminente
avvento del Comunismo. Era messianico e un po’ noioso, e oltretutto
autorizzava governi di destra che ci avrebbero salvati dai bolscevichi.
Dopo
il 1989 il ritornello è cambiato: il Capitalismo ha vinto e inanella un
successo dopo l’altro (posizione frustrante, perché suppone un Capitale
intelligentissimo e un Comunismo stupidissimo).
La situazione era
resa possibile, per paradossale che possa sembrare, da un errore
filosofico: per deferenza rispetto a Hegel, Marx aveva visto nella
contraddizione il motore della storia, dunque si aspettava che il
Capitale sarebbe crollato sotto il peso delle sue contraddizioni
lasciando spazio al Comunismo.
Gli amici del Capitale hanno avuto
buon gioco a obiettare che quelle contraddizioni non ci sono state, ma
non vedevano che il nuovo capitale realizzava il Comunismo (li si può
scusare, visto che nemmeno gli amici del Comunismo sembrano aver notato
questa circostanza).
Nel mondo sociale sta invece sorgendo un
nuovo macro-oggetto, quasi un nuovo mondo, che potenzialmente conterrà
tutti gli altri. Si tratta del capitale documediale, un nuovo capitale
più ricco di quello finanziario, e che avrà un impatto senza precedenti
sulla creazione del valore, sui rapporti sociali e sull’organizzazione
della vita delle persone. Sebbene ancora oggi più di un essere umano su
due non possieda un cellulare, è significativo osservare che il numero
di dispositivi connessi è pari a 23 miliardi: più di tre volte la
popolazione mondiale. Questa connessione, ogni giorno, produce un numero
di oggetti socialmente rilevanti maggiore di quanto non ne producano
tutte le fabbriche del mondo: una mole immane di atti, contatti,
transazioni e tracce codificati in 2.5 quintilioni (2.5 x 1030) di byte.
Questi documenti possono essere deboli, ossia registrazioni di fatti
(il tale si trovava nel luogo tale all’ora tale: lo dice il suo
telefonino), e forti, ossia registrazioni di atti: Tizio ha postato un
commento su un social network, Caio ha comprato un biglietto, Sempronio
ha navigato servendosi di un motore di ricerca. Documenti deboli e
documenti forti costituiscono il vero capitale del XXI secolo, molto più
potente del capitale industriale, che si limita a produrre merci, ora
in gran parte fabbricate da macchine, o del capitale finanziario, che ci
dà conto solo di ciò che il denaro ci può dare, ossia non molto e
comunque non tutto. Nel caso del capitale documediale si ha accesso a
informazioni ampie, sicure, e in molti casi capaci di spingersi sino al
dettaglio dell’individuo, che non riguardano solo la ricchezza (che ci
dice l’essenza delle cose con la stessa approssimazione con cui il
prezzo ci informa della qualità del prodotto) ma i comportamenti, gli
interessi, le credenze e le speranze degli esseri umani.
Non stupisce allora che nel capitale documediale si assista a una transizione carica di conseguenze dalle merci ai documenti.
Questa
trasformazione va in due direzioni. Da una parte, le merci vengono
prodotte come documenti, ossia con modalità che, come nella stampa 3D,
fanno vacillare la distinzione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale
giacché l’interfaccia di cui si serve il lavoratore è la macchina
universale, il computer. Ora, vale la pena di osservare che una delle
caratteristiche infallibili della società comunista è per Marx il fatto
che non ci sia più differenza tra lavoro intellettuale e lavoro manuale.
E se era molto facile sostenere che chi lavorava a una catena di
montaggio stava svolgendo un lavoro manuale, è molto più difficile
sostenere che quello di chi produce con una stampante 3D è un lavoro
manuale, a meno che non si consideri manuale anche il lavoro che sto
facendo in questo preciso momento, ossia picchiare sui tasti.
Vien
meno dunque (e verrà meno sempre più) una delle caratteristiche
distinzioni del mondo borghese, quella tra colletti blu e colletti
bianchi. Ma questa è una circostanza sociologicamente non troppo
rilevante, visto che il numero di chi lavora con stampanti 3D sarà
comunque irrisorio rispetto ai lavoratori alla catena di montaggio.
Molto più interessante è invece un altro aspetto, ossia la circostanza
per cui non solo le merci vengono prodotte con gli strumenti che
tradizionalmente si adoperavano per produrre i documenti, ma – questo il
punto fondamentale – le merci più pregiate diventano i documenti, che
sono ben più importanti di quella merce tradizionalmente pregiatissima
che è il denaro.
Come risultato: le merci tradizionali spesso sono
offerte gratis o a prezzi bassissimi, purché in cambio chi compra
(svolgendo in effetti il lavoro fondamentale, quello del consumo, che
non può essere sostituito da agenti meccanici) lasci i suoi dati. Dati
che valgono molto più del denaro perché ci parlano non di ciò che ha ma
di ciò che è, delle sue credenze, delle sue debolezze, delle sue
speranze.
Questa circostanza, più che una contraddizione
all’interno del Capitale, che rinuncia all’accumulo di denaro per dar
valore alla conoscenza delle persone, è in effetti la rivelazione sia
della natura del denaro (che è essenzialmente uno strumento di
informazione, nella fattispecie circa la nostra solvibilità) sia – cosa
importantissima per il comunismo realizzato – la rivelazione delle
merci. In che senso? Semplicemente, quello che per Marx costituiva
l’arcano delle merci, il fatto che fossero un rapporto tra persone che
si solidifica e nasconde in un oggetto, è ora svelato, visto che il
documento è un rapporto tra persone. E oggi ogni nostro movimento,
poiché ha luogo sul web, lascia tracce e produce documenti (dunque
valore e ricchezza, per chi li sa usare).
Perciò, non c’è più
alcun arcano: oggi è chiaro come il sole che l’archivio che
familiarmente chiamiamo Web vale perché contiene dei documenti che sono
infinitamente più ricchi della moneta perché tengono traccia di ogni
atto dell’umanità, una Biblioteca di Babele che gli algoritmi
trasformano in una fonte di predizione e di conoscenza del mondo
sociale.
Di qui una conseguenza meritevole di riflessione.
Il
neoliberismo ha sbagliato, ma il suo errore non è consistito nel
considerare il capitale come imprescindibile (in effetti, lo è).
Ma
nel pensare che il capitale sia il capitale finanziario, finalizzato al
profitto, quando è molto più di questo, proprio come aveva sbagliato il
marxismo a pensare che il capitale fosse produzione di merci e lavoro,
quando è molto più di questo.
Il capitale è la forma essenziale
della cultura umana, dunque della natura umana (non esiste una natura
umana fuori della cultura), perché è la condizione di possibilità della
tecnica e degli oggetti sociali: senza archivio, cioè senza capitale,
non saremmo liberi dalla schiavitù del denaro, ma piuttosto (come
nell’immagine della disgrazia secondo Omero) saremmo «senza famiglia,
senza legge, senza focolare».
La rivoluzione documediale ha dunque
reso potenzialmente marginale quel documento informativamente povero
che è il denaro: il denaro, che rappresentava in modo incompleto
l’archivio, è stato sostituito dall’archivio in quanto tale.
Il
capitale documediale, così, si può rappresentare nella forma di una
lavagna universale, in cui siano annotati tutti gli atti sociali in
forma indelebile e accessibile alla intera umanità.
– 2. Continua
Si
può avere accesso a informazioni ampie, sicure, e in molti casi capaci
di spingersi sino al dettaglio dell’individuo, ai suoi interessi, alle
sue credenze e speranze Le connessioni, ogni giorno, producono un numero
di oggetti socialmente rilevanti maggiore di quanto non ne producano
tutte le fabbriche del mondo