mercoledì 9 gennaio 2019

Corriere 9.1.19
Istituzioni a confronto
Democrazia e Disobbedienza, una sfida su cui riflettere
di Donatella Di Cesare


La disobbedienza civile non vale solo nei regimi dispotici. È, anzi, il sale della democrazia. A provocarla è, come ha scritto Hannah Arendt nel 1970, «l’incapacità del governo di funzionare adeguatamente». I cittadini sono assaliti dal dubbio sulla legittimità di una legge. Non sanno, però, come esprimerlo, perché l’opposizione è affievolita o tace del tutto. Il timore è di restare inascoltati, mentre il governo insiste in quelle iniziative «la cui legalità e costituzionalità suscitano molti interrogativi».
Parlare di «ribellismo» è pretestuoso. Sarebbe comodo «ridurre le minoranze dissidenti a un’accozzaglia di ribelli e traditori». Ma chi disobbedisce si muove nel quadro dell’autorità costituita. Non viola la legge — la sfida. E la sfida in nome di una legge più alta, di una Costituzione tradita, di una giustizia mancata. Articola il disaccordo pubblicamente e opera per il bene comune, assumendosi la propria responsabilità. Certo che la legge non può giustificare la violazione della legge! Perciò i disobbedienti si muovono ai margini, dove il diritto è chiamato in causa dalla giustizia.
Chi avrebbe mai detto che la disobbedienza civile sarebbe salita alla ribalta della cronaca italiana? È avvenuto per iniziativa dei primi cittadini, Orlando a Palermo, de Magistris a Napoli, e altri sindaci che si propongono di sospendere il decreto Salvini. Il che è comprensibile già solo al buon senso: smantellando la rete di accoglienza degli Sprar, e gettando sulla strada migliaia di immigrati, il decreto promette sicurezza, ma produce insicurezza. Un paradossale rovesciamento! Si sono quindi aggiunte alcune Regioni che del decreto chiedono la costituzionalità.
È questo passaggio, però, che lascia l’amaro in bocca a chi crede nella politica. Possibile che tutto debba essere ridotto ad un interrogativo giuridico? Dov’è in questo paese un’opposizione capace finalmente di reggere lo scontro?
Perché qui la questione è eminentemente politica. La disobbedienza può dare voce a quei tanti cittadini preoccupati per l’introduzione di norme che pregiudicano la convivenza. Si tratta di norme apertamente razziste che discriminano chi non è italiano, che istituzionalizzano il sospetto verso i rifugiati (i «falsi profughi»), legalizzano la fobia per gli stranieri, ufficializzano l’odio per i migranti. A chi è nato altrove viene negata la residenza, e con ciò anche tutti quei diritti che dovrebbero essere intangibili, dalle cure sanitarie all’istruzione. Come se fosse normale lasciare fuori dalla scuola i bambini che avrebbero l’unico torto di essere figli di immigrati; come se fosse normale non prestare cure sanitarie a chi ne ha urgente bisogno, per via della pelle di un altro colore.
Ci sono limiti. I cittadini non sono sudditi e non possono accettare supinamente una legge che, prima dei limiti di costituzionalità, ha superato quelli di umanità. Assurdo sarebbe, semmai, obbedire, avallando quella selezione tra cittadini e immigrati che assurge ormai a criterio di governo. Inquietanti sono le parole del vicepremier Di Maio che assicura il reddito di cittadinanza solo per gli italiani — non per gli stranieri, anche qualora rispondessero a tutti i criteri (ad eccezione di qualche «meritevole»). Ma con questi gesti discriminatori si mette a repentaglio la democrazia che vuol dire uguaglianza.
Dove la difesa dei diritti umani è considerata eversione, la democrazia rischia il tracollo. Di questo dovremmo preoccuparci, piuttosto che incolpare altri, dalla piccola Malta (437.00 abitanti), all’Europa, capro espiatorio di questo governo. Quale immagine dell’Italia viene fuori dal dominante racconto vittimistico? E ci riconosciamo in quell’immagine? Un paese di grandi navigatori, gente del mare, che per due settimane lascia in balia delle onde 49 naufraghi? Non è mai accaduto. Ben venga allora la disobbedienza per denunciare la bancarotta etica di questa Italia. E chissà quanto profondi saranno i danni, e quanto duraturi!
Arendt puntava l’indice contro la meschinità spensierata, la grettezza senza pensieri, diffuse anche nella democrazia, che vorrebbero imporre a ognuno l’incapacità di «pensare mettendosi al posto degli altri». Proprio in questa facoltà Kant riconosceva la base della convivenza civile. Vista così la disobbedienza è una risposta responsabile.

Repubblica 9.1.19
Se l’inconscio decide di non essere più inconscio
Le sfide della psicoanalisi nel saggio "Dislocazioni" curato da Lorena Preta
di Moreno Montanari


Avreste mai detto che il secondo paese con il più alto numero di operazioni chirurgiche per il cambiamento di sesso, dopo la Thailandia, fosse l’Iran? Che fu addirittura l’Ayatollah Khomeini a decretare che «la riattribuzione di genere, se prescritta da un medico affidabile, non va contro la Sharia» e che tali operazioni, in un paese nel quale la condizione della donna non sembra brillare per particolare libertà, sono più gli uomini che chiedono di cambiare la loro sessualità biologica che le donne?
Dovremmo dedurre che stereotipi e pregiudizi sono duri a morire e che l’Iran ultraconservatore rivela invece un lato iperliberale su questioni così delicate, con tanto di sostegno psicologico ed economico a chi vuole cambiare sesso? Solo in apparenza, perché come ha mostrato la psicoanalista iraniana Gohar Homayounpour, molte di queste persone non si opererebbero se nel loro Stato l’omosessualità non fosse considerato un reato punibile con la pena di morte, per cui il loro transgenderismo in molti casi appare come l’unica soluzione per continuare a vivere in società che li costringe ad omologarsi ai canoni della presunta sessualità "naturale". Ma il fatto è che una sessualità naturale non esiste e che per quanto siamo indotti a pensarla come una questione privata e istintuale, essa è in realtà intrinsecamente culturale e politica, come ha spiegato bene Michel Foucault. Basta considerare il diverso modo in cui ciascuno di noi la vive nel corso degli anni, nelle diverse relazioni a cui ha dato vita, per osservare come la propria personale concezione delle identità sessuali altre cambi. Lo spiega bene Vittorio Lingiardi: «La nostra sessualità e i nostri generi sono costruzioni evolutive e relazionali: contemporaneamente biologiche e sociali, creative e difensive; sono il risultato di predisposizioni genetiche e ormonali ma anche di aspettative familiari e pressioni sociali». Al punto che «il genere è qualche cosa che facciamo piuttosto che qualcosa che siamo» esattamente come la nostra identità che, come mostrava già nel XIX secolo il filosofo Kierkegaard, non è alcunché di dato, fisso, sostanziale, ma costituisce l’esito, sempre in divenire, del modo in cui ci rapportiamo a noi stessi. Il tema della transessualità diviene così il paradigma di un atteggiamento che crede di poter ridurre lo psichico al corporeo trasferendo su di esso questioni che andrebbero invece elaborate psichicamente e offre lo spunto al titolo di questo prezioso libro collettaneo a cura di Lorena Preta: Dislocazioni. Nuove forme del disagio psichico e sociale (Mimesis, per la collana Geografie della psicoanalisi). Analizzando diversi scenari di misconoscimento del corpo, avvertito sempre più come estraneo e oggetto di una frammentazione disgregante che sembra legata alla pulsione di morte, gli autori provano a tracciare una nuova cartografia del soggetto indagandone il ruolo in un mondo dominato da nuove forme di comunicazione, spazi virtuali, biotecnologie che sovvertono la percezione usuale del nostro corpo, ridefiniscono la sessualità e danno forma a inedite organizzazioni della famiglia. In questo nuovo scenario in cui gli individui, osserva Preta, «sembrano caratterizzati da una tendenza ad agire l’inconscio, come se questo fosse rivoltato fuori e si fosse persa la necessaria distinzione tra mondo interno e realtà esterna», la funzione della psicoanalisi sembra essere quella di insegnare a smontare l’erronea idea di un’identità monolitica, adialettica e definita per sottrazione da un’alterità che invece ci abita e ci arricchisce. Per apprendere che divenire ciò che si è significa in fondo disporsi a essere ciò che possiamo diventare.
Dislocazioni.
Nuove forme del disagio psichico e sociale a cura di Lorena Preta ( Mimesis, pagg. 108, 15 euro)

Repubblica 9.1.19
Alle origini del populismo
Individuo contro cittadino
di Mark Lilla


Molti giovani d’oggi, e non solo negli Stati Uniti, guardano alla democrazia sotto la luce delle identità.
Non si considerano cittadini democratici, ma individui, ciascuno con una propria identità che li rende diversi dagli altri. Oggi molti giovani negli Stati Uniti circoscrivono il proprio impegno politico ai problemi sociali che ritengono facciano riferimento alla loro identità.
Per una persona come me, cresciuta durante le battaglie ideologiche della Guerra fredda, è sconcertante vedere tanti giovani così concentrati sulle questioni personali di genere e poco attenti a questioni di giustizia economica o di politica estera. Le grandi ideologie e le narrative che tentavano di spiegare tutto avevano dei problemi, ma almeno facevano capire come le cose fossero legate tra loro.
Il risultato di tutto questo è che negli Stati Uniti la sinistra radicale si oppone al neoliberalismo economico e promuove ciò che si potrebbe definire un neoliberalismo sociale. Costruire la solidarietà non è il suo obiettivo primario. Rafforza soltanto l’individualismo radicale dei nostri tempi.
Gli effetti della globalizzazione economica hanno destabilizzato i governi in ogni parte del mondo e si è allargato il divario tra un’élite ricca e istruita e una sottoclasse crescente e insoddisfatta, priva di speranza. L’immigrazione incontrollata l’ha solo resa più rancorosa. Il neoliberalismo sociale ha inoltre prodotto un effetto psicologico ed ha indebolito i vincoli sociali. I giovani rimandano il matrimonio oppure scelgono di vivere da soli.
Continuano ad aumentare i casi di depressione e suicidio. Questo non accade perché mancano denaro e opportunità ma perché stiamo diventando ciò che Michel Houellebecq ha chiamato nei suoi spaventosi romanzi le "particelle elementari".
Le società democratiche si stanno sfaldando. Governi incapaci di controllare gli effetti dell’economia globale o l’immigrazione illegale appaiono deboli e inadeguati. Questo porta gli elettori a cambiare in continuazione leader e partiti che promettono di riuscire a controllare queste forze, ma non ne sono capaci.
Come dimostrano le elezioni negli Stati Uniti, il mio Paese è diviso tra due tribù che provano una profonda diffidenza l’una verso l’altra. Da un lato esiste un’élite cosmopolita, liberale e istruita che mette l’enfasi sulle questioni di identità personale, disprezza la religione e vuole accogliere gli immigrati, legali o illegali che siano, in una società più multiculturale. Questa élite domina le nostre istituzioni culturali: le università, i media e Hollywood. La tribù di destra, invece, unisce i meno istruiti, più religiosi, bianchi e maschi.
Provando disprezzo per le élite culturali, questa tribù afferma la propria politica dell’identità per competere con gli altri gruppi. I populisti hanno saputo convincerli che erano loro il vero "popolo" americano, non le élite, e che il loro Paese gli era stato rubato. Questa destra americana attualmente controlla ogni livello di governo. E alla guida c’è un indemoniato e abile demagogo che accumula potere mettendo gli americani gli uni contro gli altri.
Cosa si può fare? Nel lungo termine dovremo riscoprire le virtù della cittadinanza. Le nostre società sono molto diverse oggi.
Conduciamo una vita privata più individualistica rispetto al passato. Tuttavia i nostri destini sono uniti: esiste un bene comune che deve essere tutelato nell’interesse di tutti. E se vogliamo chiedere alle persone di tutelarlo, dobbiamo fare affidamento non su un desiderio, ma piuttosto su un dato sociale: qualunque siano le nostre differenze o la nostra tribù, ciò che condividiamo è la cittadinanza.
Siamo tutti nati o naturalizzati cittadini e meritiamo di essere trattati equamente, tenendo a mente che essere cittadino non significa solo avere dei diritti, ma anche dei doveri, l’uno nei confronti dell’altro e nei confronti delle nostre repubbliche.
Mantenere un senso civico è molto difficile. È per questo che, fin dal mondo antico, le democrazie hanno sofferto di entropia: l’unica cosa che davvero le mantiene unite la cittadinanza. Se quel vincolo ha basi imperfette o si è indebolito la struttura si sfalda.
Una situazione simile è visibile nell’Europa dell’est. In seguito alla caduta del muro nel 1989, furono create istituzioni democratiche, ma quello che i fondatori di quelle istituzioni non potevano creare era un senso di cittadinanza che richiede l’avvicendarsi di diverse generazioni.
Oggi vediamo invece la Polonia e l’Ungheria che abbracciano e celebrano quella che il presidente ungherese Viktor Orbán definisce "democrazia illiberale". In quei Paesi e in Italia, Austria e Francia ci sono forze politiche che stanno stabilendo ciò che sembra essere un nuovo Fronte Popolare, questa volta sotto forma di destra radicale.
È difficile non avere l’impressione che questo sia un film già visto.
Le democrazie senza democratici non durano. Si decompongono, trasformandosi in oligarchie, teocrazie, nazionalismi etnici, sistemi autoritari oppure in un miscuglio di tutti questi elementi.
Non esagero quando dico che i segnali di ognuna di queste patologie sono visibili nell’attuale vita democratica americana. E mi rattrista pensare che l’Italia potrebbe ben presto soffrire della nostra stessa malattia.

il manifesto 9.1.19
L’attacco dei medici al governo: “La manovra è un golpe contro il contratto nazionale, sciopero il 25 gennaio”
Legge di bilancio. Rinviato il rinnovo di un contratto scaduto da 10 anni. Tutti i sindacati in piazza
di Giansandro Merli


Sono toni durissimi quelli utilizzati dai principali sindacati di medici, veterinari e dirigenti sanitari contro il governo gialloverde. «Tra i numerosi foglietti volanti cui è stata ridotta la legge più importante della legislatura – hanno scritto ieri – una ‘manina’ ha trovato il modo di agganciare il vagoncino dei propri interessi al treno della legge di bilancio». E ancora: «Il comma 687 rappresenta un golpe contro le organizzazioni sindacali e le loro prerogative, un favore elargito a una minilobby alla faccia della trasparenza, un nuovo attacco a medici, veterinari e dirigenti sanitari». Il comma incriminato azzera i passaggi della lunga e difficile trattativa per il rinnovo del contratto collettivo nazionale. Un nuovo rinvio sine die per il Ccnl scaduto ben 10 anni fa. Troppo.
IL 3 GENNAIO il Coordinamento italiano medici ospedalieri (Cimo) ha presentato un ricorso alla Corte europea dei diritti umani contro governo, regioni e Aran (Agenzia rappresentanza negoziale pubbliche amministrazioni) per il mancato rinnovo del contratto dei medici dipendenti entro il 31 dicembre scorso. Secondo il sindacato si tratta di una violazione dell’accordo confederale del 30 novembre 2016 e della sentenza della Corte costituzionale del 2015 che stabilisce l’illegittimità costituzionale del blocco della contrattazione collettiva nel pubblico impiego. Il Cimo ha anche avviato l’iter per una class action contro regioni e Aran.
LE RIVENDICAZIONI contrattuali sono state al centro dello sciopero del 23 novembre scorso. Insieme alla richiesta di un rifinanziamento complessivo del sistema sanitario nazionale. In quell’occasione la ministra della Salute Giulia Grillo aveva detto: «Sono con voi». Quando si è iniziata a delineare la legge di bilancio, però, medici, veterinari e dirigenti sanitari sono tornati sul piede di guerra e hanno indetto un nuovo sciopero per il prossimo 25 gennaio. Il comma 687 è un motivo in più per mobilitarsi, in una situazione comunque «inaccettabile» tra «blocco contrattuale, carenza di specialisti e privatizzazioni tese alla creazione di una sanità povera per i poveri».

il manifesto 9.1.19
Antirazzismo in campo, il Napoli contro Salvini
La linea «ultrà» del ministro, contraria a fermare gli incontri, bocciata anche da Aic e Uefa
di Adriana Pollice


NAPOLI Il Calcio Napoli boccia la linea del ministro dell’Interno, Matteo Salvini, e sui cori razzisti non arretra: in caso di «buuu» dagli spalti, se l’incontro non dovesse essere sospeso, la squadra è pronta a lasciare il campo. Il club è «perplesso» per le dichiarazioni del leader leghista di lunedì alla riunione dell’Osservatorio sulle manifestazioni sportive, convocata dopo gli incidenti di Inter-Napoli, quando gli ultras nerazzurri assaltarono i supporter partenopei (quattro i feriti). Scontri terminati con la morte di Daniele Belardinelli.
Salvini, con un passato nella Curva A del Milan rivendicato ancora a metà dicembre, ha ribadito: «No alla chiusura degli stadi, alla sospensione delle partite in caso di cori offensivi e al divieto di trasferta». Il presidente partenopeo, Aurelio De Laurentiis, ieri ha confermato il suo appoggio al ct azzurro Carlo Ancelotti che, già nel dopo partita al Meazza, aveva spiegato: «Abbiamo chiesto tre volte alla Procura federale la sospensione per gli ululati contro Kalidou Koulibaly. Ci sono stati tre annunci ma hanno continuato. La prossima volta ci fermiamo noi, magari ci danno partita persa a tavolino».
Con Ancelotti si sono poi schierati molti allenatori di Serie A come Luciano Spalletti, Rino Gattuso, Eusebio Di Francesco, Filippo Inzaghi e Stefano Pioli. Ieri il presidente dell’Associazione italiana calciatori, Damiano Tommasi, ha confermato: «Siamo tutti sulla stessa posizione, non vogliamo vivere in un clima simile». Ma Salvini non ne vuole sapere: «Il 99% dei 12 milioni di tifosi è sano e va tutelato», ha insistito lunedì. Niente da fare neppure per gli striscioni offensivi: «Lo stadio deve essere colorato e colorito». E sullo stop alle partite: «È difficile trovare criteri oggettivi. Chi sbaglia paghi ma no a sanzioni collettive». E ieri via social: «Chiudere le curve e sospendere le partite è la sconfitta del calcio. Dedicherò tutto me stesso per sradicare la violenza dentro e fuori gli stadi».
Lunedì il presidente della Figc, Gabriele Gravina, aveva invece ribadito la necessità di semplificare la procedura per sospendere le partite causa cori: un primo richiamo a gioco fermo a centrocampo, il successivo negli spogliatoi; la decisione dovrà spettare al delegato della sicurezza e non agli arbitri, risolvendo così un’ambiguità che ha reso intermittente l’utilizzo della sanzione. Per la linea ferma, del resto, si era già espresso il capo della procura Figc, Giuseppe Pecoraro: «La partita andava sospesa».
Si è schierata con il Napoli anche l’Uefa: «La Federazione internazionale dei calciatori professionisti e la Uefa sono molto preoccupate per questo inaccettabile incidente razzista e da ciò che sembra come un mancato rispetto del protocollo antirazzismo ampiamente condiviso». Ieri la Uefa è tornata a ribadire: «La posizione espressa sul caso di Koulibaly riflette il pensiero della nostra organizzazione contro il razzismo e la discriminazione nel calcio», prendendo quindi le distanze dal leader leghista.
L’ostinazione di Salvini, per un veterano della politica come Fabrizio Cicchitto, ha una spiegazione semplice: «Vuole i voti degli ultras». Dalle curve sono arrivati i complimenti al Viminale. Il capo dei Boys dell’Inter, Franco Caravita, ha commentato: «Sono d’accordo con Salvini che ha parlato di un maggiore coinvolgimento dei tifosi. La repressione ha fallito. Nelle curve non c’è razzismo ma solo campanilismo». E il laziale Fabrizio Piscitelli, al secolo Diabolik: «Se non si cambia questo metodo repressivo le cose peggioreranno. Ci vuole un’amnistia per chi ha avuto il daspo».
L’Inter, intanto, ha deciso di non fare ricorso contro la chiusura per due turni dello stadio (più un terzo senza curva Nord). Il club ha chiesto alla Figc e alla Lega Serie A di poter aprire il primo anello ai bambini delle scuole calcio e a ragazzi del Centro sportivo italiano «per dare un segnale contro discriminazione e violenza».

il manifesto 9.1.19
Eutanasia, Conte riceve Cappato. «Condivide l’urgenza di una legge»
Associazione Luca Coscioni . Il presidente del Consiglio promette agli esponenti radicali «a breve» le misure attuative del biotestamento
di Eleonora Martini


Sarebbero «in arrivo a breve» le misure attuative della legge sulle disposizioni anticipate di trattamento (Dat) in vigore da poco meno di un anno. Almeno stando a quanto annunciato dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte durante l’incontro avuto ieri con l’avvocata Filomena Gallo, segretaria dell’Associazione Luca Coscioni, e con Marco Cappato che ne è tesoriere. «Condivisa l’urgenza su temi come eutanasia e libertà di scienza», assicurano i due attivisti radicali.
L’incontro era stato richiesto dall’Associazione Coscioni «al fine di dare seguito all’ordinanza della Corte costituzionale n.207/2018», del 25 ottobre scorso, che ha concesso al Parlamento un anno di tempo per legiferare su eutanasia e aiuto al suicidio, rinviando al 24 settembre 2019 il verdetto di incostituzionalità – di fatto già maturato – sull’articolo 580 c.p. che punisce il supporto al suidicio, ed è stato introdotto nel nostro ordinamento in epoca fascista.
Un’ordinanza che, ricordano Cappato e Gallo, sollecita il legislatore «affinché le tutele costituzionali in materia di scelte della persona malata – capace di intendere e con gravi sofferenze dovute a patologia irreversibile – siano rispettate. Così come sia rispettato il contratto di governo – aggiungono – laddove si indica la necessità di dare trattazione alle leggi d’iniziativa popolare, visto che la proposta di legge per l’eutanasia legale è in attesa da 5 anni e mezzo».
Una ricostruzione, quella riferita ai media dall’Associazione Coscioni, della quale ha subito chiesto conto al governo giallo-bruno il leader di Idea, Gaetano Quagliariello, che già a suo tempo si era detto sconcertato dalla ordinanza della Consulta «che sostanzialmente dà un ultimatum al legislatore affinché sia consentito in Italia sopprimere attivamente un altro essere umano, ancorché consenziente».
Così ieri il senatore centrista, che in gioventù è stato iscritto al Partito Radicale di Pannella, ha lanciato la sua provocazione, alla quale hanno fatto eco le associazioni Pro Vita e Generazione Famiglia: «Sarebbe stata “condivisa l’urgenza su temi come eutanasia e libertà di scienza”. Su tali argomenti non valgono i silenzi di cortesia – ha ribattuto il leader pro-life -, in assenza di smentite, dobbiamo ritenere che a Palazzo Chigi su questa ricostruzione non abbiano nulla da eccepire». Effettivamente, nessuna reazione dalle stanze occupate da Conte, ma non è detto che sia un buon segnale per i diritti del fine vita.

Il Fatto 9.1.19
D’Alema: “Il Pd doveva dare l’appoggio esterno ai 5Stelle”
Il Líder Massimo torna sulle trattative post elezioni e critica la classe dirigente dei dem: “Ha consegnato il Paese alla destra, l’ascesa della Lega è colpa sua”
di Lorenzo Giarelli


Il Partito democratico doveva dare l’appoggio esterno a un governo del Movimento 5 Stelle. Sette mesi dopo la fumata nera tra dem e grillini, sancita in diretta tv da Matteo Renzi in barba all’imminente assemblea Pd, Massimo D’Alema torna sulle trattative post 4 marzo, puntando il dito contro la classe dirigente: “È stato un errore grave di analisi e di condotta politica aver considerato i 5Stelle come l’altra faccia della Lega e aver spinto il Paese nelle mani della destra”.
Il Líder Massimo parla dalla poltrona di C’ero una volta… la sinistra, il programma condotto da Antonio Padellaro e Silvia Truzzi – realizzato dalla piattaforma tv Loft (www.iloft.it e app Loft) e in onda per gli abbonati dal 17 gennaio, con Achille Occhetto, Fausto Bertinotti e D’Alema ospiti delle prime tre puntate –, spiegando come fosse possibile, allora, far emergere gli aspetti più “di sinistra” del Movimento, adesso in gran parte sacrificati dall’alleanza con Salvini: “Di certo il M5S non è l’erede della tradizione dei partiti di sinistra, ma bisognava capire che un movimento che si era presentato alle elezioni avendo come parole d’ordine la lotta alla povertà e ai privilegi ha raccolto un qualcosa che storicamente apparteneva a quell’area”.
C’erano dunque i presupposti, secondo D’Alema, per mettere all’angolo la Lega, che pure alle urne era arrivata dietro al Pd: “Non so se un accordo coi 5 Stelle fosse possibile, ma andare a vedere le carte era obbligatorio. Un leader serio avrebbe detto a loro di fare il governo e avrebbe dato l’appoggio esterno su quattro o cinque obiettivi chiari”.
Progetti stroncati sul nascere dal mancato ricambio nella classe dirigente del Partito democratico, rimasta la stessa, durante la gestione delle trattative, che aveva guidato il Pd al crollo elettorale: “È stata una responsabilità politica del gruppo dirigente renziano. È con la sua complicità che Salvini adesso è al 30 per cento nei sondaggi”. E raccoglie consensi, insieme al Movimento 5 Stelle, nell’Italia che dovrebbe essere rappresentata dalla sinistra: “Oggi ho incontrato una persona per strada che mi ha fatto un quadro perfetto della nostra situazione. Mi ha detto: ‘Ho sempre votato per voi, stavolta non potevo perché c’era Renzi e allora ho votato Movimento 5 Stelle. Mi sa che ho fatto una cazzata’. Da questo sentimento diffuso dobbiamo ripartire”.
Al fallimento della stagione del Giglio magico e di Liberi e Uguali, però, D’Alema esclude possa seguire un suo ritorno nel centrosinistra che sarà. Non con un incarico politico, almeno: “Io ci sono e ci sarò per dare un contributo. Studio, scrivo, propongo idee, ma non voglio più avere responsabilità politiche, non ho intenzione di candidarmi”.
E a proposito di elezioni, nel corso del programma D’Alema ha anche escluso di avere rimpianti per aver mancato il Quirinale, sfiorato sia nel 2006 che nel 2013. Tredici anni fa, è la versione di D’Alema, fu lui a tirarsi indietro dopo una telefonata in cui Berlusconi gli spiegava l’impossibilità, per la coalizione di centrodestra, di sostenere il suo nome: “Allora andammo su Napolitano, anche se poi Berlusconi non votò neanche lui”. Diverso, invece, il caso del 2013: Fabrizio d’Esposito, intervenuto in trasmissione, ha ricordato i retroscena dell’epoca, secondo cui Anna Finocchiaro, che presiedeva l’assemblea Pd, mise ai voti soltanto la candidatura di Romano Prodi, scartando quella dell’ex Pci. Episodio su cui D’Alema preferisce glissare. A modo suo: “Nessun rimpianto per allora. Tutto sommato quello non era un ruolo adatto a me. Disciamo”.

La Stampa 9.1.19
Tito Boeri
“L’Inps non va commissariata
E sulle pensioni anticipate i soldi previsti non basteranno”
intervista di Alessandro Barbera


«L’Inps non si merita il commissariamento. Non c’è nessuna ragione per farlo: non ci sono né problemi di funzionamento, né fatti gravi. Se accadesse, sarebbe un modo di esautorare il Parlamento che ha un ruolo importante nella procedura di nomina». Lo stipendio che il presidente dell’Inps Tito Boeri lascerà a febbraio non è fra i più alti a disposizione nei ranghi statali - centotremila euro lordi - ma si tratta della poltrona di gran lunga più ambita dai partiti. Lo dimostrano le voci di questi giorni a proposito di un possibile blitz del governo.
Per comprendere l’entità della posta in gioco basta una visita all’ufficio dell’Eur, più di cento metri quadrati con enorme vetrata sull’Esedra, il capolavoro architettonico circolare che avrebbe dovuto fare da ingresso all’Esposizione Universale del 1942. Oppure ci si può affidare ad un numero: fra pensioni, sussidi e affini l’Istituto nazionale di previdenza sociale gestisce più di un terzo del bilancio pubblico. Il mandato di Tito Boeri è in scadenza in un momento delicatissimo: fra reddito di cittadinanza e controriforma delle pensioni «c’è da gestire una mole di lavoro impressionante».
Lega e Cinque Stelle le hanno dato il benservito. Non è così?
«Ormai ci sono abituato. Un giorno mi attaccano, l’altro pure. Per questo dovrebbero avere da tempo individuato un sostituto. Anzi, faccio un appello al governo perché faccia in fretta: prima lo nominano, più tempo avrò per un serio passaggio di consegne».
Matteo Salvini dice che lei fa politica. La invita a candidarsi. Cosa risponde?
«Credo sia mio dovere istituzionale parlare dei temi che interessano l’Ente. Ma quando c’è una legge da applicare, io do il massimo, anche quando si tratta di norme che non condivido».
Lo ammetta, ogni tanto anche lei è andato sopra le righe. Ogni tanto anche lei si sarà detto “avrei dovuto mordermi la lingua”. O no?
«Errori nella vita ne abbiamo fatti tutti. È vero, ho un linguaggio diretto. Non mi piace parlare per mezze frasi, non è nel mio stile. Ma dopo il liceo non ho mai fatto politica. Mai. In realtà sono un impolitico: sono stato attaccato da tutto l’arco costituzionale, anche da chi ha scelto di nominarmi (Matteo Renzi, ndr). Parlo delle cose che conosco, e lo faccio nel rispetto della mia storia accademica e professionale».
Allora le chiedo il massimo della schiettezza anche oggi: il suo collega Alberto Brambilla dice che partire ad aprile con il reddito di cittadinanza è “una follia”. Se la sente di sottoscrivere questo giudizio?
«No. Io ero e sono favorevole ad una misura di sostegno alla povertà, e ho apprezzato il fatto che le ultime bozze si sono avvicinate ad una estensione del reddito di inclusione in vigore. Ma è vero che nel testo ci sono diverse incongruenze».
Ad esempio?
«La misura spiazza il lavoro al Sud. Un single con reddito zero può aspirare a 9.360 euro all’anno: sa quanti sono i lavoratori dipendenti al Sud che hanno redditi da lavoro inferiori a quella somma? Il 43 per cento. Ciò significa che quasi un giovane su due da quelle parti potrà essere messo di fronte a due alternative entrambe allettanti: smettere di lavorare o essere pagato in nero per ottenere comunque il sussidio».
La Lega sostiene che l’attuale testo penalizza le famiglie.
«Si, è così. Penalizza le famiglie numerose dove sono concentrati i poveri. Una famiglia con tre figli prende il doppio di un single, una famiglia con cinque figli lo stesso. Non si doveva sostenere la genitorialità?».
Cosa pensa della controriforma delle pensioni?
«Dobbiamo ancora fare le ultime valutazioni sul decreto, ma il rischio di non rispettare il tetto di spesa c’è. E le tasse sono destinate ad aumentare. La durata triennale potrà spingere ad anticipare le uscite soprattutto nel privato e il divieto di cumulo è sbagliatissimo: finirà per alimentare il lavoro nero. Ci obbligherà a mandare ispettori per controllare che non versino i contributi! Gli over sessanta andrebbero incentivati a lavorare, non il contrario: ci sono fior di studi che dimostrano quanto sia salutare mantenersi professionalmente attivi».
Qualcuno le direbbe “lo vada a spiegare a un operaio edile sulle impalcature a sessant’anni!”.
«Per quelle categorie di lavoratori esistono già strumenti per ottenere la pensione in anticipo. Gli operai del manifatturiero già oggi vanno mediamente in pensione a sessant’anni».
Qualche anno fa lei firmò con Pietro Garibaldi uno studio in cui spiegava che un effetto “staffetta” fra giovani e anziani in effetti esiste. O no?
«Studiammo il caso opposto, ovvero quanto fosse stato negativo l’effetto della riforma Fornero, che alzò l’età pensionabile in maniera drammatica. Stimammo che nei primi anni per ogni tre persone costrette ad allungare l’età del ritiro c’è stata un’assunzione in meno per i giovani. Mi pare che il governo abbia stimato tre assunti per ogni uscita...»
Quando scatterà il blocco delle indicizzazioni e il taglio delle pensioni più alte?
«E’ uno dei problemi che stiamo affrontando in queste ore. Se tutto va bene il taglio delle pensioni d’oro sarà a marzo, il blocco delle indicizzazioni ad aprile. Ciò significa che la prima decurtazione accorperà tre mesi».
Una pessima Pasqua per chi ha pensioni sopra i millecinquecento euro lordi. Non c’erano alternative?
«Purtroppo no. Dietro a ogni norma c’è un lavoro enorme. Spesso non se ne comprende la portata».
Non l’ha colpita il fatto che il blocco delle indicizzazioni sia passato indenne dal giudizio dell’opinione pubblica? Eppure non è dissimile a quanto imposto dal governo Monti. O forse ha ragione il premier Conte quando dice che il taglio sarà così lieve che non se ne accorgerebbe nemmeno l’Avaro di Molière?
«Una battuta infelice. Sulle nostre teste fra il 2020 e il 2021 pendono aumenti Iva per svariate decine di miliardi. Se il governo non riuscisse a bloccarli ci sarebbe di qui a due anni un’aumento dell’inflazione di due punti, ciò si tradurrebbe in un taglio di oltre 300 euro al mese per chi ha una pensione di 2.300 euro lorde. Trovo paradossale che mentre si dice di voler abolire la legge Fornero si introduca lo stesso meccanismo che inizialmente diede i maggiori risparmi».
Il Festival dell’Economia di Trento ci sarà anche quest’anno? Il nuovo presidente leghista della Provincia dice che lei fa politica e minaccia di boicottarla.
«Mi auguro si svolga regolarmente. A differenza del ministro della Salute Grillo non ho mai guardato all’orientamento politico delle persone che invito».
Questa potrebbe essere l’ultima intervista da presidente dell’Inps. C’è un episodio in questi quattro anni che ricorderà in particolare?
«(Riflette a lungo). Le impiegate dell’Inps di Scampia. In quell’area ci sono tre uffici pubblici: il nostro, la Polizia e i Carabinieri. Quando le ho incontrate ho avuto conferma che in questo ente ci sono molte persone che ci credono davvero, e vivono il loro mestiere come una missione».
Cosa farà dopo quest’esperienza?
«Tornerò al mestiere di prima, quello della ricerca».

Repubblica 9.1.19
Il foreign fighter rimasto ucciso in Siria
L’ultima lettera di Giovanni " Cercherò la morte sul campo"
L’ingegnere bergamasco con una laurea alla Bocconi e due figli adolescenti che ha lasciato tutto per combattere l’Isis: "Ma non vado a fare il terrorista"
di Paolo Berizzi


PONTERANICA ( BERGAMO) Chiamiamola, per concisione, una "fuga all’estero"». Una fuga di sola andata. «Faccio conto di non tornare mai più, e non nel senso che vivrò là il resto dei miei giorni: nel senso che cercherò attivamente la morte liberatrice sul campo». Due pagine scritte con il computer.
La lettera è datata 20 luglio 2018: tre giorni prima di partire dall’aeroporto di Malpensa per gli Emirati arabi e poi, da lì, per il Kurdistan iracheno. Eccolo il commiato di Giovanni Asperti, morto da "martire" a 53 anni con il nome di battaglia di "Hiwa Bosco", che significa "speranza". Un saluto pieno di dettagli privati e indirizzato ai suoi tre fratelli, Stefano, Carlo e Andrea, alla moglie Cristiana e ai due figli, di 13 e 14 anni.
La missiva — spedita al momento della partenza con destinazione Erbil, la città da cui poi Asperti raggiunge il "campo" di battaglia, che il 7 dicembre gli sarà fatale, di Derik, nel nordest siriano — è il racconto di una scelta estrema. «Non vado a imparare a fare il terrorista. Vado a fare la guerra per i curdi — scrive il foreign fighter bergamasco con laurea alla Bocconi per spiegare l’arruolamento nell’esercito Ypg in lotta contro l’Isis — . Ma chiariamo bene questo punto: non vado a fare il mercenario.
Quel che vado a fare non prevede corrispettivo, lo si fa gratis... Io sono fiero di quello che vado a fare».
Che cosa spinge a infilare la mimetica un tecnico petrolifero con trascorsi all’Eni, padre di due adolescenti, cresciuto in una famiglia di intellettuali e professionisti: uno che al liceo si portava avanti con le materie dell’anno successivo per potersi dedicare alla geologia, la sua vera passione?
Impossibile saperlo con certezza: per farsi un’idea può essere utile riannodare un filo.
Quello che collega Ponteranica, seimila abitanti alle porte di Bergamo, a Roma: la città dove gli Asperti hanno da sempre un piede. Il padre di Giovanni, Pietro, medico morto nel 2004, è stato con Lucio Magri e Luigi Pintor nel gruppo di intellettuali che nel ‘68 diede vita al Manifesto. E a Roma vivono ancora l’anziana madre del "guerriero per caso", ex insegnante e sorella del fu deputato del Pci Vittorio Chiarante, e uno dei suoi tre fratelli: tutti in carriera.
Il più grande è Stefano, sessant’anni, filologo e preside della facoltà di Lettere e filosofia dell’università La Sapienza. Dice: «Giovanni non era un fanatico. Credo che la sua non sia stata una scelta ideologica o di carattere religioso. Forse, in un momento particolare della sua vita, ha colmato un vuoto cercando un ideale in cui non credeva fino in fondo, ma che è bastato a portarlo in quei luoghi». Prima di diventare "Hiwa Bosco", Giovanni era stato ospite del fratello. «Non aveva fatto trasparire niente».
E invece aveva già pianificato tutto.
«Non perdete tempo a cercare di chiamarmi: no Internet, no email, no smartphones. Nulla.
Ciao». Si chiude così la lettera spedita ai familiari, tutti tranne la madre: agli altri due fratelli, Carlo e Andrea (il primo lavora per il Consorzio aerospaziale Leonardo, l’altro è docente di informatica all’Università di Bologna). E alla moglie Cristiana e ai figli.
Loro tre abitano a Ponteranica. Una situazione familiare complessa in quella casa di via Valbona da cui ultimamente Giovanni partiva sempre meno: non più come una volta, quando i viaggi in Medio Oriente erano continui.
Eppure, al tecnico specializzato nella dismissione di piattaforme petrolifere (lavorava per la Geolog di San Giuliano Milanese), le trasferte capitavano ancora: e infatti ai suoi familiari, per coprire la "fuga all’estero", aveva detto che andava in un impianto in Kuwait.
Chi sia stato il "gancio" di Asperti, chi abbia fatto da cerniera con le milizie curde Ypg non è chiaro: la Digos di Bergamo, guidata da Marco Cadeddu, in cerca di tracce ha esaminato apparati elettronici e scandagliato il "prima". Zero.
Il guerriero cinquantenne non frequentava i social network.
Ma gli investigatori non escludono che, prima di partire per il fronte anti-Isis, Asperti possa avere eliminato dei contatti.
Gli accertamenti iniziano ai primi di agosto, dopo la denuncia della moglie, con l’apertura da parte della Dda di Brescia di un fascicolo (il cosiddetto "modello 45", il registro degli atti non costituenti notizia di reato).
Nessuno allora immagina che, appena quattro mesi dopo, Asperti sarà il primo italiano caduto in Siria nella battaglia anti-Daesh.
Proprio lui, il padre che un tempo, quando tornava a casa, quassù, sulla collinetta di Ponteranica, costruiva giocattoli tecnologici per i figli. «Questi non li trovate in nessun negozio», scherzava.
Dice un altro foreign fighter bergamasco, il 30enne Claudio Locatelli, anche lui già impegnato in Siria, che Asperti «ha un profilo diverso rispetto a quello degli altri, soprattutto per l’età». Un over 50 nelle file dello Ypg è anomalo (l’età media dei diciassette italiani considerati in forze alle milizie curde è ben più bassa). Il giocattolo più pericoloso Giovanni l’ha assemblato per se stesso: «Cari fratelli, dite che sono fisso all’estero per la ditta».
Faccio conto di non tornare mai più, e non nel senso che vivrò là il resto dei miei giorni: nel senso che cercherò attivamente la morte liberatrice sul campo Vado a fare la guerra per i curdi. Ma chiariamo: non sono un mercenario. Quel che vado a fare non prevede corrispettivo, lo si fa gratis... Io ne sono fiero
Nome in codice: Hiwa Bosco
Giovanni Francesco Asperti, morto il 7 dicembre a Derik, nel nordest siriano

Repubblica 9.1.19
Salvini in Polonia per chiudere il patto con Kaczynski e l’ultradestra
di Carmelo Lopapa,


Varsavia Le ultime resistenze sembra siano state superate. I sospetti legati al feeling di Matteo Salvini con Mosca e della Lega con la galassia putiniana di " Russia Libera" in qualche modo accantonati. Così oggi il leader polacco della destra ultravonservatrice di Diritto e Giustizia, ( Pis) Jaroslaw Kaczynski, accoglierà il vicepremier italiano per capire se esistono davvero le condizioni per suggellare un’intesa in vista delle Europee di maggio. A sentire gli uomini del Carroccio, è quasi fatta.
Sono servite varie missioni preparatorie degli sherpa salviniani per sciogliere il gelo. E soprattutto è servita una garanzia: Matteo è amico degli americani come lo è dei russi e il governo italiano a dicembre non si è opposto alla proroga delle sanzioni europee a Mosca, è stato fatto notare da queste parti. In ogni caso l’Italia resta saldamente ancorata alla Nato. E a conferma dell’ennesima svolta salviniana (due mesi fa a Mosca disse « qui mi sento a casa come non mi sento a volte in Europa»), ecco servita una missione del ministro dell’Interno negli Usa. Con la chicca del possibile incontro informale con Donald Trump, anche se non in un vertice ufficiale. Il sottosegretario agli Esteri Guglielmo Picchi - vero ufficiale di collegamento con l’Amministrazione americana in questi mesi sarà a Washington questo fine settimana per preparare la visita del capo. E uno degli obiettivi è la partecipazione di Matteo Salvini al C- pac: Conservative political action conference, gran raduno dei conservatori americani che quest’anno si terrà nel Meryland, al National Harbor, tra il 27 febbraio e il 2 marzo. Alla presenza del presidente repubblicano, appunto. Lo staff leghista punta a un incontro a margine tra i due, magari una photo opportunity da rilanciare sui social, che sancisca il cambio di passo e soprattutto che cancelli l’incidente di tre anni fa.
Perché uno scatto tra i due c’è già, risale al 25 aprile 2016, a margine di una manifestazione elettorale dell’allora candidato alla Casa Bianca, vicino Philadelphia. Per Salvini era l’avvio di un sodalizio. Per il tycoon statunitense e futuro presidente, no, dato che al The Hollywood Reporter negò perfino di conoscere il politico italiano e di averlo mai incontrato. Di acqua sotto i ponti ne è passata. The Donald è presidente, ha " benedetto" il governo gialloverde italiano, accolto alla Casa Bianca il premier Conte. Ora Salvini, divenuto nel frattempo punto di riferimento dei populisti europei, tenta un nuovo gancio con Washington.
E nella veste di leader europeo il capo leghista arriva oggi in una Varsavia coperta dalla neve. Incontro col collega degli Interni polacco Brudzinski. Con gli imprenditori italiani. Ma soprattutto col leader Kaczynski che regge le sorti della Polonia. Qui a Varsavia c’è grande attesa per il faccia a faccia di oggi ( due ore circa in agenda), anche perché l’opposizione rinfaccia al presidente del Pis di voler stringere un abbraccio mortale con un leader di governo « smaccatamente antieuropeo ». Un problema anche per Kaczynski, in un Paese in cui comunque il 75 per cento dell’elettorato è profondamente europeista. Salvini sogna con lui la chiusura del cerchio a destra, nei giorni in cui Luigi Di Maio sposa la causa dei gilet gialli sperando in una terza via movimentista in Europa. Perché se davvero Lega e Pis, i due partiti sovranisti al governo nei rispettivi Paesi, stringeranno un patto sul futuro Parlamento europeo, allora l’Internazionale populista avrà altro slancio. Intanto una federazione prima del voto. Il ministro Lorenzo Fontana è già a Bruxelles dove da giorni incontra tra gli altri esponenti dell’estrema destra cipriota e estone. L’accordo è già fatto con la Le Pen in Francia, i Democratici svedesi, i Veri finlandesi, gli spagnoli di Vox, contatti in corso con i tedeschi di Alternative fur Deutschland. Poi un gruppo unico a Bruxelles dopo il 26 maggio. Per superare la vecchia sigla dell’Enf ( in cui milita la Lega) e dell’Ecr (degli ultraconservatori polacchi). Salvini punta a un gruppone da 150 deputati con cui dettare le condizioni e governare l’Europa col Ppe.

Repubblica 9.1.19
Kaczynski, da Solidarnosc alla destra estrema
L’uomo forte di Varsavia nazionalista per vendetta
di Wlodek Goldkorn


L’uomo che Matteo Salvini incontra a Varsavia nel tentativo di creare una coalizione sovranista in Europa (ma una volta li chiamavamo semplicemente nazionalisti) non ricopre alcuna carica di governo, eppure tutto il potere in Polonia è nelle sue mani. Ufficialmente Jaroslaw Kaczynski è un semplice deputato alla Dieta, ma tutti lo chiamano "presidente".
Infatti è presidente del partito Diritto e Giustizia (Pis), creato assieme al fratello gemello Lech, capo dello Stato, morto nell’incidente aereo sopra Smolensk in Russia, nel 2010. Ed è la sede del partito, i maligni dicono come ai tempi del comunismo, in via Nowogrodzka a Varsavia, il luogo dove vengono prese le decisioni cruciali riguardanti la vita del Paese. Kaczynski ama muoversi con discrezione, demandare (ma non delegare) i compiti e le funzioni ministeriali ai suoi fedelissimi. E per quanto riguarda l’attività parlamentare è rimasta celebre la sua irruzione sul podio degli oratori (alla Dieta di Varsavia si parla da un podio posto sotto il banco della presidenza) dove disse: «intervengo senza essere iscritto» e continuò parlando dei «musi da traditori» dei deputati dell’opposizione.
Dopo aver epurato i media pubblici, dopo aver tentato di soggiogare il Tribunale costituzionale al potere politico; senza successo va detto, perché le istituzioni europee hanno ordinato il reintegro dei giudici mandati in pensione; ora Kaczynski vorrebbe perfino riscrivere la storia patria. Nella narrazione del Pis e degli intellettuali vicini al potere Lech Walesa, storico leader di Solidarnosc, è dipinto come (presunto) agente dei servizi comunisti.
Eppure, chi conosce bene e da tempo Kaczynski racconta una storia di un uomo che da giovane non era nazionalista; che tuttora nel suo intimo disprezza gli antisemiti e l’antisemitismo e non è xenofobo. I fratelli Kaczynski sono nati e cresciuti in una famiglia di intellighenzia illuminata, genitori eroi della Resistenza; casa frequentata da artisti e scrittori in un quartiere di Varsavia, Zoliborz, da sempre di sinistra. Grazie a queste frequentazioni, da bambini recitarono in un film di grande successo di critica e del pubblico. Da studenti collaboravano con l’opposizione democratica. Lo stesso Jaroslaw, ai tempi dell’Università ha avuto per maestro un giurista di origine ebraica, progressista.
E allora, cosa è successo? È successo, che nel 1989, ai tempi della transizione dal comunismo alla democrazia, i fratelli Kaczynski, che erano vicinissimi a Walesa (ma lui dice che già allora di loro non si fidava) e a quel processo parteciparono, non vennero premiati con incarichi ministeriali. Ai posti di comando arrivarono altri esponenti di Solidarnosc: intellettuali come Mazowiecki, Geremek, Kuron e lo stesso Walesa venne per un certo periodo messo al margine. Da allora cominciò la scalata verso il potere e la ricerca di una vendetta. La retorica di destra e l’alleanza con la parte fondamentalista della Chiesa era il mezzo più utile a questo scopo. E a questo scopo viene riletta la storia, mentre il negoziato del 1989, appunto, tra i comunisti e Solidarnosc che portò alla democrazia, è interpretato come il tradimento delle élite di sinistra.
Così nel 2005 Lech Kaczynski viene eletto presidente della Repubblica e quando muore nell’incidente aereo mentre andava a commemorare i 21mila ufficiali polacchi assassinati da Stalin nel 1940, il fratello Jaroslaw sostiene che di un complotto dei russi si è trattato, complici i liberali polacchi. Il resto è cronaca di questi anni: da quando nel 2005 Pis vinse le elezioni politiche, la Polonia, da Paese modello e pilastro di una nuova Europa, è diventata l’avanguardia del sovranismo.
Da Salvini divide Kaczynski il giudizio su Putin, ma è una contraddizione in seno al popolo.

La Stampa 9.1.19
“Riso e acqua razionata, come in cella”
Diario dalla nave che nessuno vuole
di Federico Scoppa


Prima dell’alba, la Sea Watch 3, la nave di soccorso battente bandiera olandese naviga lentamente, quasi a sfidare il passare del tempo, al sud delle coste di Malta. È qui per ripararsi dal vento di maestrale che da qualche giorno agita le acque del centro del Mediterraneo. Prima rimaneva più al largo, le autorità maltesi le impedivano di avvicinarsi. Il 22 dicembre ormai 19 giorni fa, questo vascello blu di cinquanta metri, ripescava in mare 32 persone. Li hanno trovati provenienti dalla Libia su di un gommone semi-affondato, la chiglia spezzata in due dalle onde, l’acqua salata iniziava a mescolarsi con la benzina bruciando la pelle di chi stava seduto sul fondo.
Questo è il carico che spaventa Malta e con lei tutta Europa. A tal punto da obbligare i membri dell’equipaggio, ventidue volontari e i loro ospiti alla distanza di sicurezza di tre miglia nautiche.
Uno spiraglio di luce entra dalla coperta di lana usata come porta nella stanza, l’aria è acre, si sente il calore di corpi ammassati e la mancanza di ossigeno. In 32, tra cui donne e bambini, riposano nonostante le onde. Siamo sul ponte della nave, entra un volontario. Le pesanti coperte di lana che avvolgono i corpi dei migranti cominciano a muoversi e la nave riprende vita. Lentamente, non si ha voglia di svegliarsi né affrontare un altro giorno uguale agli altri.
I volontari iniziano a preparare il tè, Fannie una giovane donna della Costa d’Avorio sfida il freddo del mattino, oggi anomalo anche a queste latitudini e si avvia verso le latrine, dei bagni chimici installati sul ponte dal quale esce un odore nauseabondo. Tornerà a breve, sua figlia di solo un anno si è svegliata ed il suo pianto interrompe il continuo borbottare del motore. Sono tre i bambini a bordo, altri tre i minori partiti soli.
Spazzolino e asciugamano, Dava e Ali si avviano verso uno dei rubinetti installati per loro a poppa della nave. Oggi potranno lavarsi solo i denti. Il desalinizzatore di bordo è in avaria e l’acqua dolce razionata, per loro e per i membri dell’equipaggio. Kim lo dice ogni volta che può, è il capo missione, inglese, un giovane dai modi gentili, rispettato da tutti come il capo villaggio africano.
Kim è preoccupato, le previsioni danno solo due giorni di tregua e poi un’altra burrasca colpirà la zona. Come ogni mattina aggiorna gli ospiti delle novità del mondo esterno. Un ruolo difficile, la loro situazione non varia da giorni.
«È come stare in prigione e in prigione si muore», cosi risponde Mohamed, lui è libico. Di tutti è quello che psicologicamente soffre di più, qualche giorno prima si è buttato in acqua, in maglietta e mutande. Voleva arrivare a Malta a nuoto. Preferiva tentare, anche rischiando la morte, anziché marcire qui.
Prigione, questo è l’unico paragone con il quale tutti i migranti a bordo riescono a descrivere approssimativamente la loro condizione.
I francofoni, congolesi e ivoriani, amano parlare. I loro discorsi iniziano sempre con un francese perfetto, ma a breve perdono la calma, la cadenza africana si fa forte e le espressioni anche: «Non siamo pesci e neanche pescatori, perché non ci vogliono? Abbiamo sangue nel corpo». Basta, non vogliono più parlare del loro passato vogliono parlare del futuro, ma di questo non sanno niente.
In questi giorni si aspettano i risultati delle elezioni in Congo, e loro chiedono notizie. Bob è scappato dal regime del presidente Kabila, porta ancora segni delle pallottole che la guardia presidenziale gli ha sparato nei piedi. Manifestava, voleva difendere la costituzione dice.
Arriva il pranzo, oggi è un po’ diverso. I volontari sono riusciti ad inventare una salsa piccantissima da aggiungere al riso e fagioli. Riso e fagioli è quello che si mangia a bordo praticamente ogni giorno. Dopo tanto tempo in mare un sapore forte, che ricordi la terra, aiuta gli animi.
Vuotato il piatto di latta, si torna alla noia. Splende un po’ di sole, tanto vale uscire dal rifugio e asciugare le ossa sul ponte superiore dove sono piazzati i veloci gommoni arancioni che li hanno salvati dal mare.
Intanto Frank, il dottore, si occupa del mal di mare. È più impensierito dalle menti che degli stomaci: «La situazione qui a bordo è instabile, il livello di stress sale». Il timore di qualche gesto estremo è vivo.
Ali prende un binocolo usato per avvistare i gommoni, scruta la costa maltese, una meta distate poco più sei chilometri. «Che bella Malta, è cosi grande, vedo le case, mi sembra di essere libero ma non lo sono». Non riesce a capire perché in questo mondo le persone non possano viaggiare liberamente.
Al calare del sole all’orizzonte le gialle scogliere di Malta, quasi a ricordare a migranti in quale assurda condizione si ritrovino, ad un passo dalla meta e ancora in alto mare.

il manifesto 9.1.19
López Obrador ha un piano per il Centroamerica. E se gli Usa non ci stanno c’è la Cina
«Zona di prosperità». Il nuovo presidente messicano sfida la Casa bianca e il muro anti migranti di Trump con un progetto di sviluppo economico per la regione. Che Pechino ha già inserito nella «nuova via della seta»
Panama, 3 dicembre 2018. Il presidente cinese Xi Jinping e quello panamense Juan Carlos Varela, con rispettive first lady, di fronte all'enorme nave porta container Chinese Cosco Shipping Rose
di Roberto Livi


Il presidente Andrés Manuel López Obrador ha un piano per affrontare l’intransigenza di Donald Trump, deciso a imporre la costruzione di un muro alla frontiera Usa-Messico.
Andrés Manuel López Obrador
Da una parte ha rifiutato lo schema proposto dalla Casa bianca, ovvero accettare per il Messico la condizione di «terzo paese sicuro», che lo costringerebbe a ospitare decine di migliaia di migranti centroamericani mentre le corti statunitensi decidono la loro sorte: significherebbe istituire campi di rifugiati in Messico.
DALL’ALTRA HA PROPOSTO un piano per assicurare uno sviluppo economico nel cosidetto «triangolo del Nord del Centroamerica» (Honduras, El Salvador e Guatemala) per affrontare le cause economiche e la violenza strutturale del capitalismo che spingono decine di migliaia di persone di quest’area a emigrare verso Nord. È una sorta di piano Marshall che coinvolge anche gli stati del sud del Messico si basa su quattro assi: emigrazione, commercio, sviluppo economico e sicurezza, per un costo di 30 miliardi di dollari, in modo da creare quella che il ministro degli Esteri messicano Marcelo Ebrard ha definito «una zona di prosperità».
SECONDO ALTI FUNZIONARI messicani – che si sono espressi in varie interviste – se non fosse possibile persuadere Trump a partecipare a un progetto che di fatto è il contrario di quanto minaccia di fare, López Obrador sarebbe pronto a far capire che esiste un altro poderoso attore disposto a riempire il vuoto: la Cina.
Il gigante asiatico sta guadagnando terreno e influenza nella regione centramericana, che intende includere nella «nuova via della seta». Attualmente Pechino è il secondo o terzo socio commerciale dei paesi dell’area: imprese cinesi realizzano opere di infrastruttura in Honduras, Nicaragua, Costa Rica e Panama e sono già stati formulati piani di investimento in Salvador e Guatemala per un totale che supera i 2 miliardi di dollari, senza contare il progetto del canale intraoceanico del Nicaragua – dal futuro incerto – che prevede una spesa di 50 miliardi di dollari.
La Cina già ha firmato un Trattato di libero commercio con il Costa Rica ed è in avanzate trattative con Panama. Entrambi gli stati centroamericani hanno scelto strategicamente Pechino, rompendo le relazioni con Taiwan. Nel primo, l’impresa cinese China Harbour Engineering Company (Chec), è incaricata di ampliare la principal estrada che unisce la capitale, San José, con il Golfo del Messico, mentre sono avanzati i progetti per creare una Zona Económica Especial (Zee) dove verranno fabbricati prodotti cinesi.
MA È A PANAMA che la penetrazione cinese è più massiccia. Nell’aprile dell’anno scorso è stata inaugurata una linea aerea diretta tra la capitale e Pechino. La Chec ha già iniziato la costruzione di un porto per imbarcazioni di crociera e un altro per container nella Zona franca di Colón con un investimento programmato di oltre un miliardo di dollari, mentre il gigante cinese in telecomunicazioni Huawei ha installato, sempre a Colón, il sesto centro di distribuzione mondiale dei suoi prodotti.
Imprese cinesi competono per ottenere i contratti di un un nuovo ponte sul canale di Panama e per la costruzione di una linea ferroviaria tra la capitale e la frontiera del Costa Rica. I legami tra la Cina e le «famiglie» che contano a Panama, compresa quella del presidente Juan Carlos Varela, hanno permesso alle compagnie cinesi una posizione di vantaggio rispetto ai concorrenti. Non solo, il governo panamense progetta l’emissione di buoni sul mercato cinese – già definiti «Buoni panda» – per un valore di 500 milioni di dollari.
LA CINA secondo vari analisti è interessata a una forte presenza in un’area geografica che assicura un facile accesso ai due oceani, Pacifico e Atlantico. «Questo concede un enorme potenziale di sviluppo economico», afferma Enrique Dussel Peters, coordinatore del Centro de Estudios China México dell’Universidad Nacional Autónoma de México. Ma soprattutto Pechino «dimostra al mondo, principalmente agli Usa, di essere un competitore globale. È come se dicesse a Washington: siamo qui, nel vostro giardino di casa, dunque dobbiamo trattare da pari».
È una situazione che fa vedere rosso la Casa bianca. A metà dello scorso ottobre il segretario di stato Mike Pompeo ha fatto una visita lampo a Panama per avvertire il presidente Varela, in puro stile neocoloniale, di «tenere gli occhi bene aperti nelle relazioni con la Cina» per via delle «attività economiche predatrici» attuate da Pechino.
«UN MESSAGGIO FORTE E CHIARO», secondo l’ex ministro degli Esteri panamense José Raúl Mulino, affinché Panama faccia marcia indietro. Ma è la stessa «politica isolazionista e minacciosa nei confronti dei paesi centramericani» che induce i governi della regione a cercare un contrappeso agli Usa, afferma Rafael Fernández de Castro, analista dell’Università della California.

il manifesto 9.1.19
Affollamento diplomatico in Cina: è arrivato anche Kim
Cina/Corea. Kim Jong-un incontra Xi Jinping, proprio mentre a Pechino ci sono i negoziatori Usa per i dazi. Pechino potrebbe utilizzare la Corea del Nord come strumento per trattare nell'ambito della guerra commerciale con Washington
di Simone Pieranni


Quando parte un treno verde scuro dalla Corea del Nord, ormai sappiamo che a breve Kim Jong-un comparirà a Pechino. E dire che fino a poco più di un anno fa si speculava su una presunta antipatia reciproca tra il leader coreano e Xi Jinping, il potente numero uno cinese: si diceva che Xi non avesse gradito il fatto che il presidente coreano non fosse mai andato a visitare il suo più grande protettore internazionale.
QUESTE SUPPOSIZIONI facevano perno anche su dati realistici: quando nell’aprile del 2017 Kim fece partire la sua batteria di missili intercontinentali, mandando in escandescenza gli Usa, anche la Cina fece capire a Pyongyang di non gradire. Tutto il tempo passato da allora a oggi è ben riassunto dal quotidiano nazionalista cinese Global Times: all’epoca tuonava contro la Corea del Nord, sostenendo che forse la Cina avrebbe dovuto cominciare a ragionare se ancora valeva la pena difendere i nord coreani.
IERI, ALL’ARRIVO DI KIM per il quarto incontro con Xi nel giro di un anno (le precedenti visite di Kim a Pechino si sono svolte dal 25 al 28 marzo, dal 7 all’8 maggio e dal 19 al 20 giugno del 2018), ha salutato il leader coreano con grande enfasi.
La visita di Kim Jong-un, infatti, arriva in un momento particolare e non solo per il trentacinquenne nord coreano, che proprio ieri ha festeggiato il compleanno a Pechino.
Solitamente, intanto, l’approdo pechinese di Kim è sempre stato propedeutico a qualcosa di importante: la prima volta aveva preceduto il summit, storico, con Moon Jae-in, al confine tra le due Coree, che fu il vero avvio alla distensione nella penisola coreana. Analogamente un altro incontro Xi-Kim aveva anticipato quello di Singapore, anch’esso storico, tra Kim e Trump.
Per la maggior parte degli analisti anche la recente gita pechinese di Kim sarebbe preparatoria per un nuovo incontro con Trump che sembra possa avvenire a breve (proprio ieri, con grande tempismo, il Vietnam si è offerto come location per l’eventuale summit).
MA NON C’È SOLO QUESTO: Kim è arrivato a Pechino nel bel mezzo del primo round di incontri tra Cina e Usa per quanto riguarda i dazi. Non pochi hanno notato che Kim è giunto in Cina con la moglie Ri Sol-ju e con il capo dei negoziatori nordcoreani con la controparte americana. Ci si chiede, dunque, se Kim non possa diventare una carta nelle mani di Xi per negoziare sui dazi con Trump. Di sicuro Kim e Xi si confronteranno su come condurre i negoziati per il nucleare con gli Usa; Pechino sta spingendo, insieme a Mosca, per un allentamento delle sanzioni contro Pyongyang.
Ma è innegabile che Kim possa diventare un grimaldello per la Cina nella più complessa partita con gli Stati uniti, come a dire a Washington che i due negoziati non sono per forza a compartimenti stagni (e intanto la stampa americana ha deciso di spingere sull’acceleratore contro la Cina: il Wall Street Journal con un reportage sulle intromissioni cinesi nello scandalo malesia «1Mdb», la Reuters su presunti legami, dimostrati – secondo l’agenzia – da documenti visionati, della Huawei con l’Iran).
IN QUESTI GIORNI – INOLTRE – a Pechino si è tenuto anche il meeting del comitato centrale del Pcc: sono momenti frizzanti, dunque, aiutati da un cielo blu che nella capitale cinese non è proprio una costante. Anche il summit dei più potenti politici cinesi potrebbe essere attinente a questa girandola diplomatica: Pechino si prepara all’ottobre del 2019, quando la Repubblica popolare compirà 70 anni; per quel tempo il Pcc si aspetta che il paese abbia raggiunto una «moderata prosperità».
Questo «desiderata» non deve tranne in inganno: non è soltanto un obiettivo. Significa che la Cina terrà duro nel negoziato con gli Usa per arrivare a ottobre con una crescita che non desti alcuna preoccupazione nella popolazione

il manifesto 9.1.19
Gaza, si riaccende lo scontro Fatah-Hamas
Palestina. Hamas arresta circa 200 militanti e dirigenti di Fatah. Abu Mazen ritira i suoi uomini dal valico di Rafah e innesca la chiusura del terminal da parte dell'Egitto. Nello scontro tra le due forze rivali a pagare sono solo i civili palestinesi
di Michele Giorgio


L’irresponsabilità di Hamas e Fatah spinge di nuovo Gaza verso il baratro. I circa 200 fermi, arresti e interrogatori di militanti e dirigenti di Fatah eseguiti dalla polizia del movimento islamico nei giorni scorsi in occasione dell’anniversario della fondazione del partito guidato dal presidente palestinese Abu Mazen, sono stati seguiti dalla decisione del governo dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) – composta ai suoi livelli più alti in prevalenza da dirigenti di Fatah – di ritirare i suoi agenti dal terminal di frontiera di Rafah, l’unica porta di Gaza sul mondo arabo. Un passo al quale l’Egitto ha reagito chiudendo il valico sul lato palestinese. Gli abitanti di Gaza potranno tornare a casa ma non entrare in territorio egiziano. Per migliaia di civili è un disastro, soprattutto per gli ammalati gravi che solo in Egitto o volando dal Cairo verso altri Stati possono ricevere le cure di cui hanno bisogno.
Il ritiro da Rafah delle guardie di frontiera dell’Anp ha creato un effetto domino. Hamas ha annunciato di aver ripreso il controllo del valico di Rafah – che aveva restituito al controllo dell’Anp nell’autunno del 2017 -, poi la chiusura in uscita del terminal decisa dal Cairo, quindi è entrato in scena Israele, che da 12 anni attua un rigido blocco di Gaza, con lo stop all’ingresso nella Striscia di 15 milioni di dollari offerti dal Qatar. Un colpo durissimo che significa l’interruzione del pagamento dei salari arretrati per decine di migliaia di dipendenti pubblici. Doha, con Ankara alleata del movimento islamico palestinese, due mesi fa ha garantito il versamento di una cifra mensile di 15 milioni di dollari nel contesto degli sforzi dell’Egitto e dell’Onu di ridurre il rischio di un confronto armato fra Hamas ed Israele. Fondi che, nelle intenzioni qatariote, servono anche a ridurre le tensioni lungo le linee tra Gaza e Israele, dove dallo scorso 30 marzo, ogni venerdì, si riversano migliaia di palestinesi per protestare contro il blocco israeliano. Manifestazioni che hanno visto oltre 200 palestinesi cadere uccisi sotto il fuoco dei tiratori scelti israeliani schierati lungo le barriere. Hamas in cambio di un allentamento del blocco e dei fondi messi a disposizione dal Qatar in queste ultime settimane si è mosso per contenere le proteste. Complice anche la pressione dell’Egitto che con la sua mediazione è riuscito ad evitare, almeno sino ad oggi, un’offensiva militare israeliana contro Gaza.
Il disastro interno palestinese non si ferma qui. Se gli islamisti arrestano i rivali di Fatah a Gaza, i servizi di sicurezza dell’Anp fanno altrettanto con i militanti di Hamas in Cisgiordania, spesso in collaborazione con l’intelligence di Israele. Abu Mazen da parte sua non esita a colpire, con tagli dei finanziamenti diretti a Gaza, la popolazione civile. L’ultimo esempio è proprio il ritiro delle guardie di frontiera da Rafah che non danneggia Hamas ma i tanti che aspettavano, spesso da mesi, di poter entrare in Egitto. Il presidente dell’Anp ha mandato un segnale ad Egitto e Qatar che, in apparente coordinamento con Israele, provano a trasformare Gaza in una entità separata dal resto dei territori palestinesi. Rivelazioni attribuite di recente dalla stampa araba all’ex ministro della difesa israeliano Lieberman, vorrebbero il piano Usa per il Medio oriente – non ancora presentato – finalizzato, tra le altre cose, a fare della minuscola Gaza il futuro Stato di Palestina, una prigione a cielo aperto per oltre due milioni di civili e un contenitore ben sigillato di militanti e dirigenti di Hamas.

il manifesto 9.1.19
Un capolavoro di menzogne sulla pelle dei curdi
di Alberto Negri


Duellanti e bugiardi. Turchia e Stati Uniti sono da molto tempo alleati riluttanti, sull’orlo di una crisi di nervi perenne anche quando si tratta di raccontare menzogne che farebbero comodo a entrambi.
Erdogan aveva promesso al segretario di Stato Mike Pompeo e al consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton di proteggere curdi, dopo averli per altro massacrati a puntino nel cantone siriano di Afrin. Un’intenzione «santificata» anche da un ambiguo editoriale del presidente turco sul New York Times. Ma le bugie hanno le gambe corte. Erdogan, ignorando le condizioni poste dagli Usa e dal consigliere Bolton, ieri in visita ad Ankara, ha smentito tutto e tutti tornando a minacciare un’offensiva per cacciare l’Ypg dal nord della Siria e ribadendo di essere pronto a un eventuale attacco. Non solo: ha tenuto fuori dalla porta anche Bolton trattandolo come uno zerbino.
Le bugie, anche quelle effimere, a Trump sono necessarie per uscire dal pantano mediorientale. Come era già avvenuto nei giorni scorsi con la missione di Bolton in Israele: la dilazione del ritiro Usa dalla Siria è in funzione più anti-Iran che filo-curda, con l’obiettivo di garantire a Israele l’occupazione, in corso dal 1967, di un pezzo di Siria, il Golan, e delle terre arabe in generale. Il resto viene dopo, molto dopo. Altro che America First, Israele viene prima di tutto e Trump, dopo avere trasferito l’ambasciata Usa a Gerusalemme, si avvinghia al premier Netanyahu impegnato in campagna elettorale.
I curdi in realtà di protezione ne avrebbero pure bisogno visto che continuano a morire nella battaglie contro l’Isis come alleati degli americani: oltre 30 miliziani curdi sarebbero stati uccisi in una controffensiva dei jihadisti nella zona di Abukamal. Non solo la guerra di Siria non è finita ma continua su vari fronti. Il movimento jihadista Hayat Tahrir Al Sham ha conquistato posizioni già tenute da guerriglieri filo-turchi a ovest di Aleppo fino al confine con la Turchia. La fazione, che sul piano formale si è distanziata da Al Qaida, vuole diventare un interlocutore di primo piano nel caso di trattative.
I due bugiardi, Erdogan e Trump, in realtà continuano a ricattarsi a vicenda. La Turchia, in cambio di un allentamento della pressione sul Rojava curdo, ha chiesto agli Stati Uniti di consegnare all’esercito turco 16 delle 22 basi americane in Siria per non lasciarle ai curdi. Gli Usa per il momento hanno risposto negativamente mentre Bashar Assad guarda con interesse a questo duello tra alleati della Nato che un giorno, per raggiungere i loro obiettivi, potrebbero anche rivolgersi a Damasco, alleato storico di Teheran, per recitare il ruolo di terzo incomodo (per altro a casa sua). Sarebbe una sorta di nemesi dopo che per anni hanno detto che doveva andarsene.
La Russia di Putin osserva come entrare in gioco favorendo di volta in volta i siriani, i turchi e i curdi: la guerra di Siria non solo ha riportato Mosca nel cuore del Medio Oriente ma la stessa Turchia, storico membro dell’Alleanza Atlantica è diventata ormai una sorta di Jugoslavia alla Tito, una Paese non allineato che oscilla Est e Ovest, proponendosi come potenza egemone pur essendo uscita sconfitta dalla battaglia per abbattere il regime alauita di Assad.
Lo dimostra la vicenda dei missili. La Turchia ha acquistato i sistemi russi di difesa missilistica S-400 e gli Usa hanno chiesto ad Ankara di comprare i loro Patriot, che si aggiungono a quelli della joint venture franco-italiana Eurosam.
Una situazione imbarazzante e paradossale: in pratica con i missili russi il sistema tecnico di identificazione «amico-nemico» è diretto contro Washington e la Nato, con i Patriot Usa è puntato contro Mosca. Ankara teoricamente terrebbe sotto tiro entrambi. In primavera in Turchia, che partecipa al consorzio industriale, dovrebbero essere schierati i nuovi F-35 e i russi – temono gli americani – potrebbero studiare le contromisure dirette al caccia americano della categoria Stealth.
Altro che aereo invisibile: Erdogan può rovinare gli investimenti militari americani.
Di visibile e concreto c’è che Trump ha fatto una mossa sconsiderata annunciando il ritiro dalla Siria e che ora non sa come uscire dal groviglio in cui è cacciato, costretto a negoziare non con i nemici ma con i suoi stessi alleati o presunti tali. Un capolavoro.

Il Fatto 9.1.19
L’aereo più pazzo del mondo: Mumbai andata/ritorno
In India - Tra tuk-tuk, Taj Mahal, baraccopoli e vacche ferme per strada, tutto è caos ma sempre più organizzato di un volo per l’Italia. Diffidare dalle pubblicità
di Selvaggia Lucarelli


Non avendo potuto permettermi di trascorrere il Capodanno a Moena con Di Maio e Di Battista perché non ho trovato la maglietta termica in saldo da Decathlon, ho deciso di andare in vacanza in India, a Mumbai. Il viaggio era partito coi migliori auspici:
Air Italia (ex Meridiana) aveva inaugurato la tratta diretta Malpensa-Mumbai pochi giorni prima promuovendola con uno show danzante al gate. “I passeggeri diretti in India viaggeranno sul nuovo Airbus A330-200 dedicato al lungo raggio!”, avevano annunciato.
Ho quindi preso due decisioni: non porto neppure un libro, mi sparo tre film e sono già a Mumbai. La seconda: mi vesto come se stessi andando a svuotare la cantina, tanto vado in India, mica in Costa Smeralda. Appena entro in aereo realizzo che l’aereo non è un Airbus A330 ma il Savoia Marchetti 1915 in tela cerata di fantozziana memoria, con un paio di schermi per fila e che con la mia miopia potrebbero anche essere dei microonde a incasso, tanto non vedrei comunque nulla. Mi dico che amen, dormirò, tanto sono vestita da svuota-cantine, per fortuna il mio fidanzato bada all’essenziale. È a quel punto che, nella fila accanto alla sua, noto una figura femminile: trattasi della ventenne top model internazionale Vittoria Ceretti. Ora, su 250 passeggeri diretti per Mumbai, non gli poteva capitare accanto un anziano seguace di Sai Baba? No, proprio lei. Ho desiderato che in volo un gabbiano incazzato di 106 chili prendesse a testate il finestrino accanto alla tizia, lo rompesse e che la tizia venisse risucchiata via, per poi atterrare incolume su una balla di fieno in Ucraina. Che poi, io dico, era così bello quando le top anni 90 alla Naomi viaggiavano in prima classe sorseggiando champagne e tiravano i capelli alla servitù, ora queste dee milionarie-democratiche ce le dobbiamo ritrovare in economy accanto al nostro fidanzato. Morale: sono arrivata in India che tifavo per il ripristino delle caste. E comunque, siccome l’India è parte di un grande universo in cui le forze del bene e quelle del male si riequilibrano, alla top-model hanno smarrito la valigia.
Mumbai è una città enorme, con indescrivibili problemi di traffico, immondizia e inquinamento. Il tutto, naturalmente, è colpa della Raggi. Del resto, un noto proverbio indiano dice che “scatoletta di tonno buttata su marciapiede in Viale Mazzini davanti alla Rai, fa nascere discarica a Mumbai!”. Rispetto ad altre megalopoli indiane, Mumbai, tra palazzi coloniali e lunghe spiagge, ha un suo fascino decadente a cui non siamo rimasti insensibili. La famosa Porta dell’India (Gateway) è il monumento più famoso della città e vi si accede passando attraverso un metal detector sotto al quale sfilano circa 12 mila persone al minuto: l’indiano alla sicurezza ti guarda e al massimo ha il tempo di decidere se ti sei vestito bene o di merda. Ma, francamente, temere di morire in un attentato in una città in cui ogni volta che attraversi la strada hai le stesse probabilità di sopravvivenza di un porcospino sulla Cristoforo Colombo è piuttosto ridicolo.
Nel cuore di Colaba, il vivace quartiere, sorge anche un immenso campo libero in cui gli indiani, di domenica, vanno a fare sport. Dimenticando quale fosse lo sport nazionale, mi sono lanciata entusiasta nel campo, per sentirmi parte del cuore pulsante della città, quando una pallina pulsante ha centrato la mia nuca. Il cricket è uno sport bellissimo, ma entrare in un campo in cui 5.000 indiani si lanciano palle in tutte le direzioni rende l’esperienza meno sicura di una vacanza ad Aleppo.
A Mumbai c’è un altro sport che va per la maggiore: il “Kabaddi”. La prima volta che nella tv dell’hotel ho visto gli indiani giocare a Kabaddi ero incredula: due squadre si affrontano lottando, e chi attacca ha 30 secondi di tempo in cui ha l’obbligo di rimanere in apnea, apnea certificata dal fatto che per 30 secondi deve gridare “kabaddi kabaddi kabaddi kabaddi”! Vittorio Sgarbi, col suo “capra capra capra” probabilmente ha sempre voluto suggerire una variante del Kabaddi, e noi lo abbiamo giudicato male.
Siamo poi andati a visitare la casa in cui Gandhi risiedeva durante i suoi soggiorni a Mumbai. Sorge in un bel quartiere silenzioso e alberato, all’interno ci sono foto della sua lotta pacifica per l’indipendenza, la sua lettera a Hitler che inizia con un candido, ingenuo Dear friend e prosegue con le scuse per la sua invadenza, il suo scambio epistolare con alcuni intellettuali tra cui l’amico Tolstòj. Insomma, la conclusione è che se fosse vivo e in Italia, oggi Gandhi sarebbe più divisivo del Tav: radical chic, buonista, intellettuale ma sovranista. Sarebbe stato sulle balle a tutti.
Mumbai è anche la città dello street food, ma naturalmente mangiare in una bancarella in una città senza neppure un vero e proprio sistema fognario è un atto di fede. Io, da schifiltosa, piuttosto che mangiare per strada bevo la mia pipì come la Brigliadori, il mio fidanzato in compenso ha assaggiato qualsiasi cosa, da frutta che galleggiava in liquidi organici in cui qualche minuto prima galleggiava placenta animale, a carne cotta in pentole le cui incrostazioni, talvolta, vengono utilizzate per stabilire da quante ere geologiche l’India sia emersa dall’oceano. Il fatto che non abbia contratto malattie come il tifo o la più rinomata cagarella, fa di lui, ad honorem, un supereroe della Marvel.
Abbiamo poi visitato Dharavi, la baraccopoli più grande dell’Asia, la lavanderia a cielo aperto, i musei, il Taj Mahal e tutto quello di meraviglioso e stordente Mumbai offra, ma nonostante ciò c’era qualcosa a cui non eravamo preparati: il viaggio di ritorno. O meglio: le quattro email ricevute dalla compagnia aerea in cui la durata del volo variava a seconda dei venti contrari o del pilota che doveva fare una deviazione in Uzbekistan per salutare la sorella.
Alla porta di ingresso dell’aereo vintage la scena era la seguente: un tizio aveva ricevuto la carta di imbarco sbagliata, era chiaramente italiano, ma sul suo biglietto c’era scritto “Panjub Allamassarah” o qualcosa del genere, per cui bisognava trovare il signor Panjub Allamassarah altrimenti il tizio non poteva salire. E noi con lui. Il tizio la prendeva con sportività: piangeva. Le cappelliere, grandi quanto il mio astuccio per gli occhiali, erano piene. Alcuni bagagli a mano andavano etichettati e messi in stiva. Alcuni passeggeri non volevano separarsi dai bagagli come le madri che non vogliono lasciare il figlio partire per il fronte. Un ragazzo palermitano, quando il volo aveva ormai più di 1 ora di ritardo, andava a insultare il personale. Una signora stava male: aveva comprato più posti a sedere, ma quei posti erano occupati, e minacciava di riferire tutto non si capisce a chi (potrebbe aver detto “A Mattarella”, il tono era più “A mio zio spacciatore”).
Alla fine, si partiva. Dormivo. A colazione mi servivano un pranzo a base di riso indiano speziato, chiedevo perché, mi rispondevano che in India è ora di pranzo, rispondevo “sì ma arriviamo tra un’ora in Italia dove sono le dieci del mattino”. E alla fine pensavo che quel giorno a Mumbai in cui ero sul tuk-tuk, una vacca ferma all’incrocio non ci faceva passare, un camion si era messo di traverso e una bicicletta stava falciando due pedoni, tutto era caoticamente più organizzato di un volo per l’Italia.

La Stampa 9.1.19
La guerra è finita? Guerra è sempre
Incontrollabile, imprevedibile, ineludibile segue le leggi statistiche dei disastri naturali
di Gianni Riotta


In apertura del suo libro più bello, La tregua, Primo Levi ricorda gli insegnamenti che, lasciandosi alle spalle il campo di sterminio di Auschwitz, gli offriva l’avventuriero greco Mordo Nahum: «Quando c’è la guerra, a due cose bisogna pensare... alle scarpe (e) alla roba da mangiare». Timidamente, Levi obietta «Ma la guerra è finita» e Nahum, saggio e stoico, taglia corto «Guerra è sempre». La massima, dettata nel 1945 sulle polverose strade d’Europa, torna prepotente d’attualità, grazie allo studioso italiano Ugo Bardi e ai suoi collaboratori, che analizzando migliaia di conflitti dal 1400 all’invasione dell’Afghanistan nel 2001, e tabulandone i dati via teoria delle reti e computer, concludono che Nahum aveva ragione, «guerra è sempre».
L’illusione degli ottimisti
La pace relativa che, dalla fine della Seconda guerra mondiale, ha protetto le coscienze occidentali dalle stragi, fa ritenere a molti studiosi e altrettanti paciosi cittadini che la guerra sia arnese del passato, e illuministi ottimisti come Steven Pinker, dell’Università di Harvard, pensano che siamo ormai vicini alla speranza lanciata dallo scrittore Alberto Moravia al Parlamento europeo, fare della guerra un tabù, come l’antropofagia o l’incesto. Bardi, docente all’Università di Firenze, ha lavorato su dati compilati da Peter Breche della Georgia Tech University, dissolvendo le certezze di Pinker e offrendo una diversa, e più sinistra, realtà che Aaron Clauset dell’Università del Colorado aveva anticipato qualche mese fa, pur con un data set minore.
I pochi decenni di «pace» che abbiamo vissuto sono oasi nel deserto ferreo del «guerra è sempre» e, con i risultati (https://goo.gl/tRNPQX) sul sito dell’Università di Cornell, Bardi e i collaboratori Gianluca Martelloni e Francesca Di Patti provano che la guerra, tragedia innervata nella storia, cultura e società, non viene «scatenata» da incidenti improvvisi, come si diceva una volta a scuola, il ratto di Elena o delle Sabine, le rivoltellate di Gavrilo Princip contro l’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo. Come le epidemie, la guerra è fenomeno statistico, ritorna con puntualità devastante, non accesa da episodi circostanziati, prevedibili e dunque controllabili, ma da un insieme di forze ineludibili che caricano la loro potenza nel tempo e la lasciano esplodere all’improvviso.
La scintilla conta poco
Se il docente di Harvard Graham Allison teme «il dilemma di Tucidide», Stati Uniti e Cina che si scontrano nel XXI secolo, potenze in cerca di egemonia, come Atene e Sparta nella guerra del Peloponneso, Bardi sembra suggerire che - salvo interventi diplomatici di leader carismatici di cui non si vede l’ombra, purtroppo - la Terza guerra mondiale non sia un «se», ma un «quando». Teoria delle reti, e migliaia di dati di oscure battaglie ormai dimenticate dalla Storia tabulati al computer, concludono che le sfide del futuro saranno sanguinose come non mai, per potenza degli arsenali, grande popolazione, facilità di spostamenti da un teatro all’altro di lotta. «La guerra segue le stesse leggi statistiche di altri fenomeni catastrofici», osserva Bardi, un chimico di estrazione, che nel suo popolare blog si fa ritrarre mentre scocca una freccia: «uragani, terremoti, tsunami, alluvioni e valanghe, la cui frequenza segue la legge di potenza» in distribuzione e probabilità.
Nel presentare il lavoro del team italiano, la Technology Review del Mit osserva: «Pensate agli incendi nelle foreste. La loro dimensione finale ha poco a che fare con la scintilla che li accende, ma dipende piuttosto dalla rete e dalle connessioni esistenti tra i singoli alberi, che varia nel tempo». Allo stesso modo «la dimensione della guerra a venire avrà poco a che fare con l’episodio che la innescherà, dipendendo invece dalla rete di tensioni politiche, sociali ed economiche del presente. Che sono, si sa, assai difficili da valutare, con il risultato che il parlare di “guerre limitate” va accolto sempre con scetticismo».
Considerate la crescente rivalità tra la marina americana e la flotta cinese nel Mar Cinese meridionale o il recente raid russo contro unità ucraine nel Mare d’Azov. Finora gli incidenti sono stati contenuti, ma non sempre le comunicazioni saranno facili. Se tra Mosca e Washington, all’apice della Guerra fredda nel 1963, fu installato un «telefono rosso» diretto, per evitare errori di percorso che culminassero nel lancio di missili atomici, oggi tra Casa Bianca e Cina non ci sono linee rapide di dialogo, e - per la sorpresa di molti analisti - il dialogo militare, anche in casi di emergenza, viaggia ancora su obsoleti fax.
Quando Marte si sveglia
Lo speronamento di un cacciamine, il lavoro di un hacker che infiltri un satellite, fatti di cronaca minore, potrebbero, a leggere con cura il lavoro di Bardi, portarci dritto alla tragedia, come i nostri avi caddero nella guerre mondiali, illudendosi di governarne gli esiti e restandone travolti. La guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, il populismo nazionalista in Europa, il ritorno al centralismo assoluto a Pechino, l’«America First» dei comizi, l’incapacità europea di investire in difesa e cooperazione, il riarmo di tanti Paesi, perfino il Giappone pacifista, i fondamentalismi islamici e le disuguaglianze croniche, sono «la rete nella foresta» che ricrea pericoli di guerra.
Noi non la vediamo, certi - come i monarchi assoluti del 1914 o i dittatori e i leader democratici del 1939 - di controllare il Fato. Invece la banca dati del professor Bardi suona un allarme fatale: quando Marte si sveglia, un nonnulla lo scatena, perché «guerra è sempre».

La Stampa TuttoScienze 9.1.19
2019, il Dragone in Laboratorio
Accelera la competizione Cina-Usa “E la genetica sarà protagonista”
di Marco Pivato


Il 2019 potrebbe essere l’anno della frattura tra la vecchia e la nuova scienza. Sta per entrare nel vivo la competizione tra Usa e Cina, a colpi di finanziamenti, per la ricerca e l’innovazione, con gli americani che si apprestano a confluire nel «Vecchio Mondo» assieme all’Europa, mentre l’Oriente accelera, mirando alla conquista di Marte e poi sfidando le frontiere della bioetica con l’editing genomico.
La disputa per il primato tecnologico segue quella per il primato scientifico. Ricerca, economia ed etica sono interdipendenti nel nuovo ordine mondiale. Anche nelle risposte al cambiamento climatico. Dopo anni passati invano a tentare di ridurre le emissioni di anidride carbonica, quest’anno si cambia approccio: si vuole «raffreddare» artificialmente il Pianeta, senza penalizzare troppo i produttori di gas serra. E intanto la fisica volta pagina. Dopo l’entusiasmo seguito alla scoperta del bosone di Higgs, nel 2012, è tempo di riflessioni: l’acceleratore di particelle Lhc va in pausa un paio di anni per aggiornarsi e i fisici guardano ai muoni. Sono queste le principali sorprese - tra le tante - che ci attendono: il verdetto è delle due riviste più celebri, «Nature» e «Science».
Sfida globale. Il boom economico continua a trasformare la società cinese e un capitalismo ibrido sta trasformando anche la ricerca. Se nel 2018 Pechino ha fatto parlare di sé per le mire sul Pianeta Rosso, solto pochi giorni fa la sonda «Chang’e-4» planava sulla faccia nascosta della Luna. Ed è solo l’inizio. Secondo i calcoli di «Nature», la Cina potrebbe diventare il più grande investitore del mondo in ricerca e sviluppo. E questi successi a catena sono una spina nel fianco al prestigio degli Usa, abituati da sempre a dare le carte nel grande gioco della geopolitica. Così allo tsunami di risorse pubbliche cinesi risponderanno le grandi società americane, protagoniste del mecenatismo scientifico, con Google, Facebook, Amazon a trainare la ricerca. Intanto l’Europa cerca di tenere il passo, dopo avere stanziato 100 miliardi di euro per il prossimo Programma quadro per ricerca e innovazione. Si parte nel 2021.
Oltre la bioetica. Proprio la Cina, con l’ormai celebre biologo He Jiankui, aveva annunciato, lo scorso novembre, la nascita di due esseri umani geneticamente modificati grazie alla tecnica Crispr. Sebbene ancora controverso, si tratta del primo esperimento dell’era dell’eugenetica. Ma nel senso etimologico del termine e, quindi, a scopo terapeutico, si augura «Nature». Ma una volta scoperchiato questo «vaso di Pandora», i limiti della genetica potrebbero essere solo quelli dell’immaginazione: mettere i freni alla senescenza, dare il via al «neuroenhancement», il potenziamento delle capacità cognitive, eliminare i geni «cattivi», correlati all’alcolismo o al crimine. Meglio, tuttavia, mettere da parte le ambizioni troppo estreme e concentrarsi, per esempio, sulla «correzione» dei geni implicati nelle malattie rare, in quelle neurodegenerative e nei tumori.
Stop alle pandemie. La genetica farà discutere anche per l’approccio biotecnologico a malattie endemiche come la malaria. È previsto, nel 2019, in Burkina Faso, il rilascio di zanzare Anopheles geneticamente modificate per trasmettere sterilità, condannando così la propria stessa specie a un’estinzione programmata. L’idea di sterminare queste zanzare, vettori del virus responsabile della malattia, è del consorzio di ricerca «Target Malaria», finanziato dalla fondazione di Bill Gates. Secondo «Science», però, non è detto che questi esemplari siano in grado di sopportare le mutazioni e la missione potrebbe quindi fallire. Inoltre non è stato ancora valutato a fondo l’impatto di eliminare questa specie dall’ecosistema.
Una cura per il clima. Fonte di immensi disastri e di costi sempre più gravosi, se non troveremo una soluzione, lo sarà presto anche il cambiamento climatico. Se i Paesi a economia emergente rivendicano il proprio turno per consumare combustibili fossili, gli altri, che, invece, sono spesso sulla soglia della crisi, non si rassegnano al rallentamento dell’economia. E così dalla riduzione (rivelatasi chimerica) delle emissioni di anidride carbonica si passerà alla «cura»: raffreddare il Pianeta ricorrendo alla geoingegneria solare. È l’idea dei ricercatori americani dello «Stratospheric Controlled Perturbation Experiment» (SCoPEx), che vorrebbero diffondere nella stratosfera un aerosol capace di riflettere la radiazione solare e, quindi, di diminuire il calore che resta intrappolato nell’atmosfera.
Fisica al bivio. La scoperta del bosone di Higgs e la conferma all’esistenza delle onde gravitazionali, confermando, una volta di più, la teoria della Relatività di Albert Einstein, sono stati i momenti più adrenalinici per la fisica. Così eccitanti che adesso è difficile pensare che ci possa essere, a breve, un’ulteriore rivoluzione. Se Lhc di Ginevra è stato «spento» e rimarrà in pausa per essere potenziato, una nuova super-macchina, l’International linear collider, potrebbe dedicarsi a studiare in modo più approfondito proprio il bosone. Ma il costo proibitivo (oltre 7 miliardi di dollari) sta facendo dubitare dell’impresa e anche il Giappone, unico Paese che si era fatto avanti per ospitare il mega-progetto, ora manifesta dei dubbi: deciderà solo a marzo.
Intanto si attendono i nuovi dati dai rilevatori del Fermilab, negli Usa. Nel 2018 hanno già cominciato a testare e mettere in dubbio le proprietà di una delle particelle del Modello Standard, il muone: se si scoprissero anomalie significative, allora potrebbe aprirsi una finestra su un «tipo» di Universo mai osservato finora.

Repubblica 9.1.19
Quel senso di colpa decidendo le sorti di altri
di Gino Castaldo


Abbiamo veramente voglia di decidere noi com’è che devono andare avanti le storie? Così suggerisce, e provoca, la puntata speciale della serie Netflix Black mirror intitolata Bandersnatch, immaginata su una trama interattiva decisa progressivamente dallo spettatore. Niente di sconvolgente, se pensiamo alle attitudini della Rete e della condivisione social. L’idea di narrazioni influenzate dalla partecipazione degli utenti è sempre più diffusa, ma una serie televisiva è pur sempre un’altra cosa. Dalla televisione ci aspettiamo che qualcuno ci racconti delle cose, per il tempo che noi decidiamo di accordargli. Bandersnatch al contrario invade la nostra privacy, sfonda la cosiddetta "quarta parete", stabilisce un dialogo. La libertà è in gran parte apparente, ovvio, le scelte sono predeterminate e portano verso sentieri ben definiti, anche quando ci sembra di essere decisivi. Esempio: a un certo punto ci vene posta una scelta, il protagonista può o meno uccidere il proprio padre utilizzando un pesante portacenere di vetro.
Ovviamente siamo indotti a scegliere l’opzione più morbida. Psicologicamente non vogliamo sentirci responsabili di un delitto, anche se si parla di un delitto virtuale. Scegliamo l’opzione "buona", ma scopriamo che la scelta non porta da nessuna parte, se non a un finale fasullo. Quindi ci ritroviamo di fronte alla stessa scelta e a quel punto siamo costretti a scegliere l’opzione "cattiva" se vogliamo arrivare a un finale più sensato, ma siamo anche giustificati e autoassolti dall’aver scoperto che per andare avanti "dobbiamo" chiedere al protagonista di far fuori il proprio padre. Insomma non è proprio del tutto colpa nostra, la responsabilità ci viene data ma subito dopo tolta. E ci ricordiamo che in fin dei conti si tratta di un gioco, anzi di un videogioco. Perché questo è il punto. La puntata è un ibrido, valica il confine della narrazione lineare "passiva" e si avvicina alla logica del videogioco, dove la necessità di scegliere è l’anima stessa dell’azione. D’altra parte i videogiochi assomigliano sempre di più ai film, come qualità visiva, come sviluppo di trame ingegnose e complesse. Nella puntata c’è anche una fase autoironica, quando il protagonista (la vicenda si svolge nell’orwelliano 1984) sospetta di essere manovrato da uomini del futuro, che saremmo appunto noi, doppiamente chiamati in causa. L’esperimento prenderà piede? Saremo sempre più spesso chiamati a decidere?
Di certo sarà difficile tornare indietro dopo aver offerto allo spettatore l’illusione di avere in mano la leva del comando.

https://spogli.blogspot.com/2019/01/corriere-9.html