Repubblica 8.1.19
La battaglia per la democrazia
L’esempio di Palach
di Guido Crainz
Aveva
poco più di vent’anni Jan Palach, lo studente che nel gennaio di
cinquant’anni fa compì il gesto più drammatico dandosi fuoco in piazza
San Venceslao, in una Praga resa sempre più cupa da mesi di invasione e
dallo spegnersi della speranza. Faceva parte di una generazione che
aveva creduto nel « socialismo dal volto umano» di Alexander Dub?ek, e
vedeva quella speranza inabissarsi: il mio gesto è volto « a risvegliare
la gente di questo Paese», lasciò scritto.
«Jan Palach ha messo
davanti a noi uno specchio impietoso » , scrisse l’Unione degli
studenti, mentre il settimanale degli scrittori pubblicava una poesia
potente: «E qui scalpitano i tori di Picasso / e qui gli elefanti di
Dalì marciano su zampette di ragno / e qui rullano i tamburi di
Schönberg / e qui i Karamazov portano il corpo di Amleto». Morì dopo tre
giorni di sofferenze e i suoi funerali videro una folla commossa ed
enorme: « Corre il dolore bruciando ogni strada / e lancia grida ogni
muro di Praga – per citare una splendida canzone di Francesco Guccini –
(...) dimmi chi era che il corpo portava / la città intera che lo
accompagnava...».
Altri gesti segnarono drammaticamente la fine
della speranza: « Il suicidio di Palach, di Zaijc e dei molti altri che
non dobbiamo dimenticare – scriveva Angelo Maria Ripellino sull’Espresso
– è un grido lacerante che soverchia il fragore dei carri armati, un
grido di orrore contro una realtà inaccettabile imposta con la
violenza».
Di lì a poco la " normalizzazione" sovietica si imporrà
definitivamente e il regime cercò perfino di svilire e infangare il
gesto di Jan. Inutilmente, perché anche nel suo nome continuò la
battaglia per la conquista della democrazia, svanita ormai l’illusione
che il "comunismo reale" fosse riformabile. Continuò nella memoria,
nonostante il regime avesse sin rimosso la sua tomba, e continuò poi con
Charta 77, fondata da Václav Havel e da altri. Havel sarà arrestato per
l’ultima volta il 16 gennaio del 1989, aveva deposto fiori in piazza
San Venceslao a ricordo del gesto di Palach. Nel dicembre di quello
stesso 1989 sarà presidente della Repubblica federale cecoslovacca
mentre ministro della giustizia sarà una donna, Dagmar Burešová: da
avvocato aveva rappresentato la famiglia di Palach contro le calunnie
del regime.
Una altissima battaglia per la democrazia, dunque:
cosa c’entra con tutto questo l’estrema destra italiana che – oggi come
allora – tenta di impadronirsi vergognosamente del nome di Palach? Una
destra favorita allora dalla insensibilità di larga parte della sinistra
per le speranze della "Primavera di Praga" e oggi dalla crescente
dissoluzione della memoria e della storia. Favorita, anche, da una più
ampia " destra governante" che ostenta distaccata noncuranza di fronte
alle violazioni della decenza e dell’umanità.
Una destra vicina
alle forze che in Cecoslovacchia, in Polonia, in Ungheria e altrove
hanno sconfitto le speranze di rinnovamento democratico e che oggi
vorrebbero cancellare anche i suoi eroi. Da qui occorrerebbe partire,
perché forse non basta indignarsi per la speculazione vergognosa delle
nostre destre o ricordare Palach come merita (questo giornale non ha mai
mancato di farlo). Forse nell’Europa del 2019 dobbiamo anche chiederci
se – prima e dopo la Caduta del Muro – siamo stati realmente vicini a
chi si batteva in quei paesi per una vera «democrazia dal volto umano».
Davvero non potevamo fare di più – l’Europa non poteva fare di più – per
contrastare l’avanzata delle "democrazie illiberali" oggi trionfanti?
Parla ancora a noi, Jan Palach, e non solo al "noi" che eravamo
cinquant’anni fa.