domenica 6 gennaio 2019

Repubblica 6.1.19
Intervista alla guerrigliera Eddi
"Con le donne curde per combattere l’Isis Sono pericolosa? Una farsa all’italiana"
di Fabio Tonacci


ROMA Sul profilo WhatsApp ha la foto di Anna Campbell, un’inglese femminista e combattente, morta ad Afrin nel marzo scorso. E questa frase di Anna, secondo Eddi, è la risposta buona a tante domande: «Se ami abbastanza il tuo popolo da lottare e morire per esso, allora sarai in grado di lottare o morire per tutti i popoli del mondo». Eddi, al secolo Maria Edgarda Marcucci, 27 anni, nata a Roma ma residente a Torino, è una e tante persone insieme: idealista, attivista No Tav (è stata denunciata più volte per le proteste a Chiomonte e Chianocchio) e del centro sociale Askatasuna, aderisce a #nonunadimeno, studia filosofia e lavora. A stento racconta la sua vita privata, ma della rivoluzione in Siria del Nord, del ruolo che hanno conquistato le donne laggiù, del Sogno, come lo chiama lei, non smetterebbe mai di parlare. È fatta così, prendere o lasciare.
Eddi è stata la prima donna italiana ad arruolarsi con lo Ypj, la brigata femminile dell’esercito popolare curdo. Ha partecipato alla difesa di Afrin contro le milizie jihadiste «sostenute dalla Turchia», dice lei. Tornata in Italia, rischia di essere sottoposta a sorveglianza speciale perché la procura di Torino la ritiene «socialmente pericolosa». E questa è la prima intervista che concede a un giornale.
Secondo il magistrato, lei potrebbe utilizzare in Italia le competenze militari acquisite in Siria. Cosa risponde?
«È una contraddizione palese. Lo Stato italiano fa parte della coalizione internazionale contro l’Isis, ma ritiene pericolosi gli italiani che hanno preso parte a questa lotta. Dov’è la coerenza?
Quel provvedimento è un insulto a tutti coloro che sono caduti a fianco delle forze siriane democratiche».
Continuerà il suo impegno nei movimenti antagonisti?
«Continuerò ad essere la persona che si prende la responsabilità di ciò che dice e ciò che fa. Ho scelto da che parte stare, in Siria e in Italia».
Come è nata la sua scelta di arruolarsi?
«Andai in Siria nel settembre 2017 con una delegazione civile per raccontare ciò che stava accadendo ma soprattutto come il popolo curdo stava costruendo una società diversa, un altro modo di vivere.
Quando mi hanno fatto incontrare le famiglie dei martiri e le donne guerriere, ho capito che il mio posto era accanto loro».
Perché?
«Pur essendo al contatto col peggiore dei prodotti umani, ovvero la guerra, mantenevano un fortissimo senso etico, e questo rende lo Ypj un corpo militare volontario diverso da qualunque forza statale. Lo stesso senso etico guida la loro società. Io mi sono arruolata a fine dicembre 2017».
Cos’è che l’ha colpita?
«La libertà delle donne, la democrazia, l’ecologia. Al contrario dell’Italia, il contributo sostanziale delle donne è uno dei pilastri su cui poggia la loro organizzazione. Non esiste donna che non abbia pienamente in mano le redini della propria vita».
E come? Ci spieghi meglio.
«In Italia le donne, soprattutto quelle sposate e con una famiglia, magari non riescono a emanciparsi perché non raggiungono l’autonomia economica. In Siria ci sono istituzioni pensate e gestite da donne, che si chiamano Mala Jin (Casa delle donne), in cui si aiutano per realizzare gli obiettivi della vita. E la soluzione si trova sempre. Può richiedere tempo, ma alla fine arriva la chiave per non essere schiave di ricatti economici o emotivi».
Si aiutano anche per la gestione dei figli?
«Sì, del tutto spontaneamente. C’è un fortissimo senso di coesione nel Rojava (la Siria del Nord controllata dai curdi, ndr): non esiste organizzazione politica o militare dove non ci siano due presidenti, uno uomo e uno donna».
Sembra davvero un’utopia, possibile che vada bene a tutti?
«I problemi ci sono, ma rivoluzione vuol dire avere un metodo per risolverli. E non c’è alcun tentativo di "colonizzare" con la forza chi non la pensa come noi. La mia comandante diceva: "La nostra vittoria non si misura dal numero dei cadaveri di nemici, ma da quante persone aderiranno al movimento confederale". Si sono sacrificate migliaia di persone per questo Sogno. La guerra di liberazione di Kobane, nel 2014, era simbolica anche per questo: i curdi l’hanno difesa prima dal regime di Assad, poi dall’Isis».
Cosa pensa dei movimenti femministi italiani?
«Sono fondamentali e devono continuare a crescere. L’unico movimento di massa che sta avendo successo è quello di #nonunadimeno, prova concreta che le donne sono una potenza quando si mettono in gioco».
Com’è la vita dentro lo Ypj?
«Ci si sveglia insieme, si fa sport insieme, si mangia insieme, si studia insieme... È una vita collettiva, a cui partecipano non solo le curde e le combattenti internazionali, ma anche donne arabe, turcomanne, assire. Non ti senti mai sola. C’è un addestramento iniziale, che è militare e teorico: si studia la storia delle donne e del Medio Oriente, si parla della Mesopotamia e della mentalità capitalista. Non ci si arruola per imparare a usare il fucile e basta, ma per capire perché sia necessario usarlo».
Era l’unica italiana?
«Allora sì. Adesso altre compagne hanno fatto la mia scelta».
Quale è la situazione peggiore in cui si è trovata?
«La guerra è il peggiore dei prodotti umani. Per tutti. Militari e civili. Più di questo non voglio dire...».
Eri pronta a morire?
«Ci sono cose nella vita per cui vale la pena morire. E sono quelle che le danno sognificato»