Repubblica 6.1.19
La strada per fermare la tirannia di Salvini
di Eugenio Scalfari
Si
potrebbe titolare questo articolo sul tema dello scontro tra i sindaci e
il governo, ma non è esattamente così: i sindaci stanno creando un
movimento che riguarda i loro poteri e doveri, indipendentemente dalla
loro appartenenza a questo o a quel partito. C’è un solo palese
avversario di questo inatteso movimento dei sindaci italiani ed è Matteo
Salvini, sia per come la pensa sul problema dell’immigrazione e di
quella che chiama sicurezza sia nel suo atteggiamento da primo ministro
(anche se teoricamente non lo è) con tendenze evidenti verso una sorta
di dittatura che più volte abbiamo esaminato.
La situazione
attuale vede dunque un movimento di sindaci e la loro contrapposizione
al governo Salvini, che tale può essere definito anche se il primo
ministro è Giuseppe Conte e l’altro vicepremier è Di Maio. Infine, anzi
per primo, c’è il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il
quale rappresenta il nostro Paese e vigila sul rispetto della
Costituzione da parte dei provvedimenti che il governo in carica prende.
Un paio di mesi fa lanciai l’idea di un movimento di sinistra, il quale
avrebbe riunito fuori da ogni partito una pubblica opinione
liberal-democratica e al momento del voto avrebbe appoggiato un Pd
ricostruito, senza tuttavia entrare nel partito.
Mi resi però
conto che, a un certo punto, il movimento non solo poteva coesistere con
le idee del partito, ma avrebbe avuto anche personalità importanti che
lo avrebbero guidato e nello stesso tempo avrebbero fatto il possibile
per raggiungere cariche direttive fondamentali del partito.
Questa
coesistenza della quale Matteo Renzi sarebbe stato uno degli elementi
principali mi indusse a rivedere il legame tra movimento e partito che
avrebbe causato una situazione difficilmente tollerabile.
Da
allora sono passati un paio di mesi ed è nato qualcosa di molto diverso e
di molto più diffuso di quel tipo di movimento che avevo pensato. Una
diffusione nazionale che vede nei sindaci il suo elemento portante e
opinioni politiche tutt’altro che limitate alla sinistra democratica.
L’attuale e dilagante movimento dei sindaci contiene etichette politiche
molto diverse. In gran parte dell’Italia settentrionale la motivazione è
la Tav. La Tav nel suo più lato significato consente e rende anzi più
facili i movimenti di tutti quelli che risiedono nelle città toccate
dalla linea attraverso un piano europeo già in atto in molte nazioni con
possibilità di spostamento dall’una all’altra in tutto il continente.
Può sembrare una semplice e più veloce circolazione delle persone, ma è
molto di più nel bene e nel male.
Comunque, il movimento guidato
dai sindaci è diventato in poche settimane un fenomeno nazionale che
contesta la semi- dittatura ormai in atto di Salvini, che allo stato dei
fatti trova il suo argine nel presidente della Repubblica Mattarella;
limite che si è visto all’opera nella stesura definitiva del decreto
sicurezza, al quale il presidente della Repubblica ha imposto una serie
di modifiche prima di firmarlo.
Nel frattempo, si è configurato un
movimento dei sindaci in tutte le regioni del Paese, a cominciare da
Palermo, Napoli, Parma, Torino, Milano, Firenze, Bergamo, Venezia, città
di Marche, Liguria, Umbria, Puglia, Calabria. Insomma, l’Italia intera.
Non è un movimento politico, come ho già precisato, ma un movimento
istituzionale dove i sindaci hanno ora una forza che, singolarmente
considerati, era minima, ma per la quantità che ha aderito a questo
movimento è ormai alla pari con la forza del governo centrale.
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Sarebbe
interessante capire qual è la forza politica dominante in questo
movimento di tipo municipale. Molti sindaci appartenevano e ancora in
parte appartengono alla Lega Nord a suo tempo fondata da Umberto Bossi,
ma Salvini ha avuto la grande capacità di estendere la Lega a tutto il
Paese. Da un lato, questa nazionalizzazione della Lega è stata un grande
successo politico, ma dall’altro ha diminuito il numero dei municipi
nelle regioni del Nord. Salvini ormai guida un partito nazionale che
l’ha reso la personalità politicamente più forte e, come ho già detto,
semi- dittatoriale. Ma la Lega non a caso ha perso l’attributo "Nord".
Tra i sindaci del lombardo-veneto, del Piemonte, di parte della Liguria,
altre forze politiche hanno fatto strada, a cominciare da Silvio
Berlusconi e anche dal Pd. Quanto al movimento dei sindaci, le loro
tendenze politiche sono meno potenziate di quanto non lo siano le loro
funzioni amministrative. Sono quelle che hanno creato solidarietà tra di
loro e indebolito il loro politichese. Vogliono ricostruire l’Italia,
ma non un singolo partito. Salvini, del resto, ne è la prova.
Questo,
tuttavia, non significa che la politica abbia perso la sua importanza.
Salvini lo dimostra: è un semi- dittatore nazionale e ha un suo
programma politico, anche europeo, molto complesso, che più volte
abbiamo esaminato soprattutto per quanto riguarda i suoi rapporti con
Putin, oltreché quelli con Le Pen, il dittatore dell’Ungheria Orbán e il
governo polacco. Anche il Partito democratico sta tentando di
recuperare i voti persi il 4 marzo 2018. Nicola Zingaretti sembra ormai
il più probabile candidato alla segreteria del partito e al suo
rilancio, insieme a una classe dirigente che annovera personalità come
Gentiloni, Orlando, Delrio, Franceschini, Martina, Calenda e altri.
L’obiettivo sarebbe quello di recuperare almeno dieci punti rispetto a
quelli attuali, collocandosi non lontano da un 30 per cento di voti. Lo
so, è un obiettivo molto ambizioso e se fosse raggiunto suonerebbe come
una vittoria; tuttavia, un partito più forte può fare l’opposizione
efficacemente e potrebbe anche tentare un approccio di alleanza con i
Cinque Stelle di Luigi Di Maio. Sta di fatto, tuttavia, che l’eventuale
accrescimento del Pd attuale recupererebbe in buona parte i voti che nel
marzo scorso passarono dal Pd proprio a Di Maio. Un simile recupero
diminuirebbe vistosamente la consistenza attuale dei Cinque Stelle. Un
grillismo quasi dimezzato può diventare un fanalino di coda o di Salvini
o del Pd. In entrambi i casi irrilevante.
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Tra i
politici che hanno un passato di notevole importanza va considerato
Marco Minniti che nel precedente governo Gentiloni fu ministro
dell’Interno. Espletò quella carica con molta efficienza, ma di fatto se
ne aggiunse un’altra che con l’Interno aveva ben poco a che vedere: se
fosse stato tecnicamente possibile, Minniti avrebbe dovuto abbinare al
ministero dell’Interno un titolo di ministro degli Esteri per l’attività
molto rilevante che esercitò per un anno intero in tutta l’Africa,
dalla Libia fino all’Egitto. Minniti aveva un programma e lo manifestò.
Costruire un polo industriale al di là del deserto dove gruppi di
capitalismo italiano, soprattutto pubblico, avrebbero formato dei centri
industriali dando lavoro alle popolazioni dei califfati. Gli africani
sottoposti nei loro Paesi d’origine alla fame e alla morte alimentavano
la fuga da quei Paesi varcando il deserto libico, cirenaico, yemenita,
puntando verso il mare, dove appositi nocchieri li avrebbero imbarcati
sui gommoni facendoli transitare sulle coste italiane, che erano le più
prossime, e di lì avviandoli verso la Germania e la Scandinavia.
Migliaia di morti e malaffare in tutta questa manovra che Minniti aveva
in programma di sventare all’incontrario: italiani che scavalcando il
deserto richiamavano in patria i fuggitivi e rimettevano in moto le
economie dei Paesi di origine, nei quali gli stessi fuggitivi avrebbero
trovato buona accoglienza e lavoro. Naturalmente tutto questo aveva
portato Minniti a un’amicizia politica con quei califfati e addirittura
con il rais egiziano. Aveva anche iniziato la costruzione di appositi
camminamenti, che consentivano spostamenti orizzontali dall’Est
all’Ovest africano e dall’Angola al Mozambico, dove già da tempo sono
presenti rappresentanze cattoliche della comunità di Sant’Egidio.
Questo
è stato Marco Minniti e questo potrebbe essere di nuovo di fronte a una
crescita del Partito democratico, che potrebbe trovare i finanziamenti
per impiegare la competenza di Minniti e trasformarla in un’iniziativa
di partito e non di governo. Una crescita che porterebbe altri voti in
successive elezioni.
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In altre recenti occasioni ho
fatto una proposta della quale, tuttavia, nessuno del Partito
democratico ha parlato. Desidero ripeterla oggi perché è ancor più
attuale. La proposta è di nominare con apposita elezione il presidente
del Pd. È una carica che finora non è esistita, ma che sarebbe della
massima importanza. Il presidente avrebbe nei confronti del partito gli
stessi, identici poteri che il presidente della Repubblica ha nei
confronti dello Stato: poteri di vigilanza dello statuto del partito e
del suo eventuale aggiornamento. Naturalmente anche poteri di "moral
suasion": un’autorità del genere darebbe al Partito democratico una
valenza inesistente in altri partiti italiani. Il nome più adatto a
ricoprire questa presidenza sarebbe quello di Walter Veltroni. Sarebbe
un vero e proprio salto in alto del partito avere Veltroni come
presidente con i poteri che ho già indicato e senza alcuna interferenza
sull’attività del segretario del partito, sempre che quest’ultimo sia in
piena regola rispetto allo statuto del Pd e a sue eventuali mutazioni,
suggerite dal presidente d’accordo col segretario.
Forse mi arrogo
il diritto di fare troppe proposte, ma è il mio modo per soddisfare la
tarda età e le numerose esperienze che ho vissuto.