il manifesto 6.1.19
Disobbedire è un dovere morale
Gli strumenti contro il decreto Salvini ci sono. Serve mobilitarsi
Decreto
Salvini. Ciò che ora occorre è una mobilitazione di massa a loro
sostegno e a salvaguardia, di nuovo, della Costituzione della
Repubblica, già difesa dal 60% degli elettori nel referendum
costituzionale di poco più di un anno fa e oggi tradita dai nuovi
governanti
di Luigi Ferrajoli
Il rifiuto dei
sindaci di applicare il decreto Salvini è un atto ammirevole di
disobbedienza civile e di obiezione di coscienza e vale a svelarne il
carattere «disumano e criminogeno», secondo le parole del sindaco
Orlando. E rappresenta una forte presa di posizione istituzionale in
difesa dei diritti umani dei migranti. Aggiungo, per chi non condivide
statalismo etico e gius-positivismo ideologico, cioè la confusione
autoritaria tra diritto e morale e l’appiattimento della morale sul
diritto quale che sia, che la disobbedienza civile alla legge
palesemente ingiusta è un dovere morale.
Ovviamente, al prezzo
delle conseguenze giuridiche alle quali si espongono i disobbedienti. Ma
qui non siamo di fronte a un semplice atto morale di obiezione di
coscienza. L’obiezione, in questo caso, è motivata dalla convinzione del
carattere incostituzionale del decreto perché lesivo dei diritti
fondamentali delle persone. Naturalmente i sindaci non possono
disapplicare la legge e neppure promuovere essi stessi la questione di
illegittimità di fronte alla Corte costituzionale. L’accesso alla Corte
per ottenere una pronuncia di illegittimità della legge è tuttavia
possibile.
Esso è previsto nel corso di un giudizio, qualora il
giudice ritenga la questione non manifestamente infondata e, inoltre, su
iniziativa di una Regione, qualora essa ritenga che la legge statale o
una sua parte invada la sfera delle sue competenze. Ci sono pertanto tre
strumenti di tutela dei diritti fondamentali che potranno essere
utilizzati contro l’applicazione di questa legge disumana e immorale. Il
primo è affidato all’iniziativa degli stessi migranti, i cui diritti
sono dalla legge vistosamente lesi. Consiste nell’attivazione della
procedura d’urgenza prevista dall’articolo 700 del codice di procedura
civile, secondo il quale «chi ha fondato motivo di temere che durante il
tempo occorrente per far valere il suo diritto in via ordinaria questo
sia minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile, può chiedere
con ricorso al giudice i provvedimenti d’urgenza che appaiono, secondo
le circostanze, più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti
della decisione sul merito».
In questo caso il «provvedimento
d’urgenza» che i migranti possono chiedere al giudice per opporsi alla
minaccia di «un pregiudizio imminente e irreparabile» ai loro diritti
fondamentali è precisamente l’eccezione di incostituzionalità che lo
stesso giudice ha il potere di promuovere davanti alla Corte
Costituzionale contro le norme del decreto che ledono o minacciano tali
diritti, tutti costituzionalmente stabiliti. Il secondo strumento è
affidato all’iniziativa delle Regioni e richiede la deliberazione delle
rispettive giunte regionali. È infatti indubbio che il decreto
cosiddetto «sicurezza», sopprimendo il permesso di soggiorno per motivi
umanitari, ha trasformato decine di migliaia di migranti in clandestini
irregolari, privandoli di fatto delle garanzie dei loro diritti
fondamentali, a cominciare dai diritti alla salute e all’istruzione.
Ebbene,
sia l’istruzione che la tutela della salute, secondo il terzo comma
dell’articolo 117 della nostra Costituzione, sono «materie di
legislazione concorrente» tra Stato e Regioni. Le norme del decreto che
direttamente o indirettamente incidono su tali materie appartengono
perciò alla competenza legislativa, sia pure concorrente, delle Regioni.
Non
solo. L’assistenza sociale, che il decreto Salvini rende impossibile a
favore dei migranti da esso ridotti allo stato di clandestini, è materia
di competenza esclusiva delle Regioni: una competenza esclusiva
ribadita più volte dalla Corte costituzionale, intervenuta in sua difesa
con svariate pronunce (sentenze n. 300 del 2005; n. 156 del 2006; n. 50
del 2008; n. 124 del 2009; nn. 10, 134, 269 e 299 del 2010; nn. 40, 61 e
329 del 2011) contro le invadenze dello Stato. Di qui la legittimazione
delle Regioni, prevista dall’articolo 127, 2° comma della Costituzione,
a sollevare sul decreto Salvini la questione di legittimità
costituzionale della legge di conversione, entro sessanta giorni dalla
sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, avvenuta il 3 dicembre 2018.
Ci
sono ancora, in Italia, molte regioni governate da maggioranze
democratiche, dal Lazio al Piemonte, dall’Emilia alla Toscana, dalle
Marche alla Campania, dalle Puglie alla Calabria. La loro disponibilità a
promuovere la questione davanti alla Corte costituzionale sarà il banco
di prova di quanto, al di là delle parole, queste Regioni a guida
democratica intendono prendere sul serio i principi costituzionali.
Infine
c’è una terza via di accesso alla giustizia costituzionale,
percorribile dagli stessi sindaci che hanno deciso di non dare
applicazione al decreto Salvini. Oltre alla strada intrapresa dal
sindaco Orlando – l’azione di accertamento, già sperimentata in materia
elettorale, davanti al giudice civile perché questi chieda alla Corte
costituzionale se la legge è conforme o meno alla Costituzione – i
sindaci disobbedienti potranno, qualora i loro provvedimenti venissero
annullati dai prefetti, impugnare gli atti di annullamento di fronte ai
Tar, cioè ai tribunali amministrativi, e, in quella sede, proporre
l’eccezione di incostituzionalità delle norme da essi ritenute
incostituzionali.
Insomma, la battaglia in difesa della
Costituzione è nuovamente aperta, grazie alla coraggiosa iniziativa dei
sindaci antirazzisti. Ciò che ora occorre è una mobilitazione di massa a
loro sostegno e a salvaguardia, di nuovo, della Costituzione della
Repubblica, già difesa dal 60% degli elettori nel referendum
costituzionale di poco più di un anno fa e oggi tradita dai nuovi
governanti. Questa volta è in questione assai più della tenuta o della
modifica delle regole formali sul funzionamento dei nostro organi di
governo. Sono in gioco – direttamente – tutti i principi sostanziali
della nostra democrazia: l’uguaglianza, la dignità delle persone, il
rifiuto delle discriminazioni razziste, la solidarietà, i diritti
fondamentali di tutti, la civile e pacifica convivenza.