Repubblica 4.1.18
I sindaci e la via maestra della Consulta
di Stefano Folli
La ribellione dei sindaci è durata ventiquattr’ore, almeno nella sua forma più esplicita e discutibile.
Come
dice il sindaco di Firenze Nardella, «non intendiamo violare la legge.
Poniamo dei problemi in relazione al decreto Salvini e alla sua
applicazione». Il che cambia la prospettiva rispetto all’enfasi della
prima ora. La disobbedienza civile ha senza dubbio un alto valore
morale, se a metterla in pratica è un singolo individuo o un gruppo di
uomini e donne privi di responsabilità pubbliche e alle prese con un
potere dispotico. Ha tutt’altro significato, se a rivendicarla sono i
sindaci, ossia dei funzionari eletti per applicare le leggi. E in Italia
lo Stato rimane ovviamente democratico, al di là dei comportamenti
talvolta deplorevoli di chi si trova a governare. È democratico perché
esistono una Costituzione e un presidente della Repubblica che la
garantisce. Così come esiste — e non fu semplice istituirla — una Corte
costituzionale che valuta le leggi e le norme.
I sindaci — dal
palermitano Orlando al milanese Sala — hanno posto in forme diverse una
questione che tocca le incongruenze del decreto Salvini, da poco
controfirmato dal Quirinale. Hanno il diritto politico di farlo, mentre
non hanno il diritto di ignorare la legge. E infatti il buonsenso si è
affacciato, sia pure con un giorno di ritardo. Si è tradotto in una
richiesta al ministro dell’Interno affinché ascolti le voci dei primi
cittadini, coloro che sono chiamati a gestire gli immigrati sul
territorio e a fronteggiare gli psicodrammi quotidiani. Il sindaco di
Milano arriva a chiedere a Salvini di ritirare il decreto, il che è
legittimo, ma altamente improbabile.
Molto più realistico sarebbe
creare le premesse per un ricorso alla Consulta. È la strada principale,
subito indicata come tale da autorevoli giuristi: sarà la Corte a
stabilire se la legge va stracciata in tutto o in parte ovvero se è
compatibile con la Carta fondamentale.
Ogni altra scorciatoia ha
il sapore della manovra politica in sfregio alle istituzioni, quali che
siano le buone intenzioni di partenza. Quelle buone intenzioni, meglio
non dimenticarlo, che spesso lastricano la strada verso l’inferno: ossia
producono risultati opposti a quelli immaginati. Non a caso Salvini ha
di che rallegrarsi. L’iniziativa ribelle di Orlando, subito sostenuto
dal napoletano de Magistris, ha il sapore del populismo antico,
precedente l’ondata giallo-verde. Sembra il tentativo di ricalcare i
metodi di chi è al governo, ma in una chiave di sinistra radicale.
Difficile
credere che sia questo il sentiero giusto per restituire i consensi
perduti a un centrosinistra riformista che deve imparare a misurarsi con
la realtà.
Semmai l’immagine dei sindaci pronti a disattendere la
legge in polemica con il governo centrale offre nuove frecce all’arco
della Lega, alla sua predicazione "legge e ordine". Viene da pensare che
certe mosse del ministro-poliziotto siano pensate non per promuovere la
sicurezza dei cittadini, bensì per aizzare il riflesso condizionato
degli avversari. I quali puntualmente cadono nella trappola. Certo,
Orlando e de Magistris possono vincere la battaglia mediatica e
accreditarsi presso un certo segmento di opinione pubblica. Tuttavia,
creano un danno alla prospettiva di un centrosinistra allargato che
voglia risalire la china. Infatti, il Pd ha preso in parte le distanze,
salvo alcuni esponenti della sinistra come Cuperlo che vedono
soprattutto il valore della testimonianza morale. Ma la battaglia è
politica e non sembra questo il modo migliore per tagliare le unghie a
Salvini.