venerdì 4 gennaio 2019

Repubblica 4.1.18
I sindaci e la via maestra della Consulta
di Stefano Folli


La ribellione dei sindaci è durata ventiquattr’ore, almeno nella sua forma più esplicita e discutibile.
Come dice il sindaco di Firenze Nardella, «non intendiamo violare la legge. Poniamo dei problemi in relazione al decreto Salvini e alla sua applicazione». Il che cambia la prospettiva rispetto all’enfasi della prima ora. La disobbedienza civile ha senza dubbio un alto valore morale, se a metterla in pratica è un singolo individuo o un gruppo di uomini e donne privi di responsabilità pubbliche e alle prese con un potere dispotico. Ha tutt’altro significato, se a rivendicarla sono i sindaci, ossia dei funzionari eletti per applicare le leggi. E in Italia lo Stato rimane ovviamente democratico, al di là dei comportamenti talvolta deplorevoli di chi si trova a governare. È democratico perché esistono una Costituzione e un presidente della Repubblica che la garantisce. Così come esiste — e non fu semplice istituirla — una Corte costituzionale che valuta le leggi e le norme.
I sindaci — dal palermitano Orlando al milanese Sala — hanno posto in forme diverse una questione che tocca le incongruenze del decreto Salvini, da poco controfirmato dal Quirinale. Hanno il diritto politico di farlo, mentre non hanno il diritto di ignorare la legge. E infatti il buonsenso si è affacciato, sia pure con un giorno di ritardo. Si è tradotto in una richiesta al ministro dell’Interno affinché ascolti le voci dei primi cittadini, coloro che sono chiamati a gestire gli immigrati sul territorio e a fronteggiare gli psicodrammi quotidiani. Il sindaco di Milano arriva a chiedere a Salvini di ritirare il decreto, il che è legittimo, ma altamente improbabile.
Molto più realistico sarebbe creare le premesse per un ricorso alla Consulta. È la strada principale, subito indicata come tale da autorevoli giuristi: sarà la Corte a stabilire se la legge va stracciata in tutto o in parte ovvero se è compatibile con la Carta fondamentale.
Ogni altra scorciatoia ha il sapore della manovra politica in sfregio alle istituzioni, quali che siano le buone intenzioni di partenza. Quelle buone intenzioni, meglio non dimenticarlo, che spesso lastricano la strada verso l’inferno: ossia producono risultati opposti a quelli immaginati. Non a caso Salvini ha di che rallegrarsi. L’iniziativa ribelle di Orlando, subito sostenuto dal napoletano de Magistris, ha il sapore del populismo antico, precedente l’ondata giallo-verde. Sembra il tentativo di ricalcare i metodi di chi è al governo, ma in una chiave di sinistra radicale.
Difficile credere che sia questo il sentiero giusto per restituire i consensi perduti a un centrosinistra riformista che deve imparare a misurarsi con la realtà.
Semmai l’immagine dei sindaci pronti a disattendere la legge in polemica con il governo centrale offre nuove frecce all’arco della Lega, alla sua predicazione "legge e ordine". Viene da pensare che certe mosse del ministro-poliziotto siano pensate non per promuovere la sicurezza dei cittadini, bensì per aizzare il riflesso condizionato degli avversari. I quali puntualmente cadono nella trappola. Certo, Orlando e de Magistris possono vincere la battaglia mediatica e accreditarsi presso un certo segmento di opinione pubblica. Tuttavia, creano un danno alla prospettiva di un centrosinistra allargato che voglia risalire la china. Infatti, il Pd ha preso in parte le distanze, salvo alcuni esponenti della sinistra come Cuperlo che vedono soprattutto il valore della testimonianza morale. Ma la battaglia è politica e non sembra questo il modo migliore per tagliare le unghie a Salvini.