Il Fatto 4.1.19
“Il ministro non ha armi, la soluzione è solo politica”
Scontro istituzionale tra Salvini e sindaci
Parla Gianluigi Pellegrino, avvocato ed esperto di diritto amministrativo
intervista di Antonio Massari
I
sindaci di Palermo e Napoli, ai quali se ne stanno accodando altri e
l’Anci, hanno annunciato di non voler applicare l’articolo 13 del
decreto sicurezza che prevede l’esclusione dei richiedenti asilo dal
registro dell’anagrafe e – ne consegue – dai diritti legati alla
residenza. Ne abbiamo parlato con l’avvocato Gianluigi Pellegrino,
esperto in diritto pubblico e amministrativo.
Professore, quali
sono gli scenari possibili: il ministro dell’Interno cosa può fare per
obbligare i sindaci a rispettare il decreto?
Siamo nel territorio
del diritto amministrativo. E il ministro dell’Interno non ha
legittimazione per ricorrere di volta in volta a un Tribunale
amministrativo regionale. Salvini ha una sola possibilità di reagire:
attivare i prefetti affinché diffidino i sindaci a non disattendere la
legge.
E i prefetti possono obbligarli a rispettarla?
Ovviamente no.
E a quel punto il ministro cosa può fare?
Se
i sindaci restano nella loro posizione, Salvini può alzare il tiro
minacciando il commissariamento del comune. Per farlo deve evocare un
suo grave malfunzionamento, ammesso che possa davvero essere evocato. Se
Salvini lo facesse sarebbe evidentemente gravissimo perché la mancata
violazione di una singola norma che riguarda singoli individui non può
mai essere considerata come un mal funzionamento dell’intera
amministrazione comunale. Sarebbe una dichiarazione di guerra senza
precedenti. Mettiamola così: le sole armi che ha sono anche le più
fragorose.
E quindi Salvini o dichiara guerra o tratta: non ci sono alternative?
Se
i sindaci decidono di non applicare alcune norme del decreto siamo
nell’ambito di un gesto di disobbedienza politica, che porta in sé
un’istanza ovvia: la modifica della norma. La trattativa politica a mio
avviso sarebbe il percorso più ovvio. Del resto i sindaci possono
richiamare il discorso di capodanno del Presidente della Repubblica che
ha invitato a maggiore solidarietà e coesione sociale.
Il ministro ha anche ventilato la revoca dei fondi legati al decreto per i sindaci disobbedienti.
Il
taglio dei fondi sarebbe un modo illegale di rispondere a una presunta
illegittimità. Un vero e proprio ricatto istituzionale. L’erogazione dei
fondi è regolata dalla legge, non da Salvini. Il ministro non può
rispondere a una ritenuta illegittimità con un’altra – questa volta
sicura e più grave – illegalità.
Se dal campo amministrativo ci
spostiamo a quello penale, invece, che succede: i sindaci possono essere
accusati di aver commesso un reato?
La magistratura potrebbe
intervenire nel caso ravvisasse, in questa disapplicazione del decreto
lecce, gli estremi del reato di abuso d’ufficio. Ma anche in questo caso
i margini sono molto ristretti. Il reato si realizza se il sindaco
procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio o arreca ad altri un danno
ingiusto. Quale sarebbe il danno per gli altri, con l’iscrizione del
richiedente asilo all’anagrafe, e quale sarebbe il vantaggio ingiusto
per il sindaco? La magistratura potrebbe immaginare di configurare una
sorta di profitto politico, per il primo cittadino che non applica il
decreto, ma è evidente che saremmo di fronte a figure estreme
dell’ipotesi di reato.
Il ricorso alla Corte Costituzionale?
Nel
nostro sistema non può essere diretto essendo poco configurabile un
conflitto di attribuzione. Quindi alla Corte se mai potrebbero giungere
le cause eventualmente avanzate negli altri comuni dai migranti ai quali
viene negato il diritto all’iscrizione nel registro dell’anagrafe.
Oppure possono rivolgersi alla Corte sempre in via incidentale i sindaci
che si trovino a processo per l’eventuale abuso d’ufficio. Potrebbe
ripetersi lo schema del suicidio assistito: i sindaci nel difendersi
dall’abuso d’ufficio potrebbero riprodurre lo stesso schema logico
giuridico. Resta il fatto che i tempi della Consulta sono lunghi. Il che
ancora una volta impone a Salvini di risolvere il nodo autenticamene
politico che la sua norma sta provocando.
In sintesi: lo scontro è politico ed è giusto che rimanga confinato nell’ambito politico.
Ritengo
sia la strada più logica. Di fronte a una disobbedienza diffusa, il
governo dovrà prendere atto della situazione, tenerne conto e modificare
le norme con una trattativa. E anche per la magistratura sarebbe
complicato ipotizzare un abuso d’ufficio esteso a una moltitudine di
sindaci. Se invece la disobbedienza resta confinata a pochi comuni, la
magistratura valuterà l’esistenza di profili penali e il governo
deciderà se e come trattare.
Si torna così al punto di partenza:
posto che l’iter per giungere a una decisione della Consulta richiede
anni e che, dal punto di vista amministrativo, Salvini può solo
dichiarare guerra minacciando il commissariamento dei comuni ribelli,
non resta che trattare una modifica della norma?
A mio avviso è l’unica vera strada percorribile.