Repubblica 30.1.19
Né élite né gente, democrazia è unire la società
di Gustavo Zagrebelsky
A
nessuno è precluso l’ingresso nelle classi dirigenti ma nessuno è
immune dalla caduta, valori e difetti sono divisi equamente. Per questo
non ci sono patti tra alto e basso ma un continuo lavoro contro le
divisioni
L’articolo di Alessandro Baricco E ora le élite si
mettano in gioco ha dato impulso a un dibattito intorno a
quest’affermazione: tra le élite e la gente si è rotto “un certo patto”,
e la gente adesso ha deciso di fare da sola. I commenti che ne sono
seguiti hanno assunto queste proposizioni come punto di partenza
obbligato. A me pare, tuttavia, che contengano qualcosa di ambiguo,
forse di fuorviante. Provo a chiarire i perché di un disagio non solo
concettuale. I termini élite, gente, patto e rottura del patto, fare da
sé appartengono, mi sembra, a un linguaggio non adeguato al nostro
tempo.
La parola élite suggerisce l’idea di un ceto ristretto di
“ottimati”, cioè di un’aristocrazia di “eletti” («molti sono i chiamati,
pochi gli eletti»): élite viene da lì e indica la parte migliore, i
pochi che si distinguono dalla parte peggiore, i molti. I migliori
possono legittimamente pretendere di avere più diritti, di sovrastare i
molti, i peggiori.
Costoro sono definiti con una parola negativa:
“la gente”. Con gente intendiamo l’insieme di individui privi di
qualità, uomini-massa simili gli uni agli altri nell’essere mossi da
interessi egoisti e di breve durata, orgogliosi della propria
mediocrità, in realtà frustrati, aggressivi e violenti nei confronti dei
diversi da loro. La loro cultura è fatta di luoghi comuni, di
pregiudizi, di vocaboli vuoti ai quali si affezionano per mascherare la
propria ignoranza. Il loro desiderio predominante è di soppiantare gli
uomini superiori e da qui nasce «la ribellione delle masse».
Quest’espressione
è il titolo d’un libro pubblicato nel 1930, un tempo in cui i fascismi
incombevano pressoché in tutta Europa. Il suo autore, lo spagnolo José
Ortega y Gasset, descrive magnificamente il degrado della democrazia
dovuto al prevalere di “quella gente”, degrado che avrebbe finito per
renderla invisa ed esposta inerme ai suoi nemici.
Questi pensieri
facevano parte d’una ideologia e d’una teoria politica, la teoria delle
élite, condivisa da ciò che ancora restava della gloriosa tradizione
liberale ottocentesca. Gli elitisti vedevano con preoccupazione l’ascesa
politica delle masse, ascesa che non avrebbe portato all’estensione, ma
al tracollo della democrazia a favore dei demagoghi che avessero saputo
meglio accarezzare gli impulsi irrazionali ed emotivi della gente, oggi
diremmo i populisti. Così si proponevano come garanti della stabilità e
dell’ordine politico, e pensavano di poter offrire questa garanzia per
stipulare un patto con la gente comune: solo che era un patto di
sudditanza, destinato a essere rotto non appena se ne fosse presentata
l’occasione, cioè molto presto.
Oggi siamo ancora, e lo saremo
sempre, alle prese con la questione della qualità della democrazia. Tra i
tanti suoi problemi, questo è forse il maggiore. Ma crediamo che lo si
possa affrontare usando ingredienti come élite e gente?
Quando si
tratta di definire come è composta l’élite, si mettono in un unico
calderone, per esempio, medici, universitari, avvocati, politici, preti,
giornalisti e artisti di successo, imprenditori e dirigenti politici,
ricchi e super-ricchi, quelli che allo stadio vanno in tribuna e «quelli
che hanno in casa più di cinquecento libri». Capiamo di cosa parliamo?
Ci sono cose troppo diverse: professionisti, dirigenti politici,
imprenditori, privilegiati, benestanti.
Diciamo: sono coloro che
si pongono nella parte alta della piramide sociale e, qualificandosi
élite, pretendono che ciò basti perché debba riconoscersi loro un
plusvalore morale.
Quest’insieme è piuttosto l’establishment. Come
“gente” suona male presso le élite, così “establishment” — o se
vogliamo usare le nostra lingua: casta di intoccabili — suona male
presso la gente.
D’altra parte, può farsi il medesimo discorso
rovesciandolo. La gente non è solo egoismo, irrazionalità, emotività,
volgarità, violenza, ecc. C’è questo, ma anche altro.
Spesso
troviamo saggezza, pazienza e, soprattutto, conoscenza ed esperienza
pratiche, concretezza, spirito di solidarietà: cose che difficilmente si
trovano nell’establishment. Come nelle élite, anche qui c’è un
miscuglio di cose buone e cattive.
Dunque, tra élite e gente, non è
possibile alcun patto, e non perché ci sia insanabile inimicizia, ma
per la semplice ragione che non si saprebbero individuare le parti
separando vizi e virtù. Sono mescolati e tutti ne sono responsabili. Tra
parentesi: i patti possono esserci nella distribuzione del potere
sociale e si chiamano compromessi, come è stato il cosiddetto
compromesso social-democratico. Ma questo riguarda altra cosa, non la
democrazia e la sua qualità.
Insomma, a nessuno è precluso di essere o dirsi élite; ma nessuno è immune dall’essere o essere detto gente o gentaglia.
Ciascuno di noi è al tempo stesso, per qualche aspetto, élite e per qualche altro gente.
Questa
è la democrazia, l’unico regime non manicheo. Sono i regimi non
democratici, quelli che separano a priori i buoni e i cattivi, quelli
degni di governare e quelli cui tocca ubbidire. Onde quando, per
esempio, certi risultati elettorali non ci soddisfano, anzi ci
disgustano, non diciamo: ha vinto la feccia, perché ciò autorizza a
sentirci rispondere: feccia sarai tu. È purtroppo quello che accade: ci
si scontra davanti agli elettori con l’intento di squalificarci
reciprocamente. Il motto dilagante di questo modo degradato d’intendere
il dibattito pubblico è: «Si vergogni».
Tra le «promesse non
mantenute» della democrazia, più di trent’anni fa Norberto Bobbio
indicava «il cittadino non educato», espressione che dice in modo
misurato individuo-massa, di cui sopra.
L’idea degli ottimisti
secondo i quali l’esercizio della democrazia è la migliore scuola di
democrazia fu a lungo uno degli argomenti preferiti a favore del
suffragio universale e, oggi, a favore del voto agli stranieri
residenti.
Guardiamoci intorno.
L’esperienza, dicono i
pessimisti, dimostra piuttosto il contrario. La democrazia (come del
resto tutte le forme di governo) si logora con l’uso.
Non solo
aumenta l’apatia (l’astensionismo), ma prevalgono gli istinti più bassi,
l’ignoranza pericolosa, l’egoismo. Per questo, in questo autunno della
democrazia, le proposte che circolano sono piuttosto a favore del
restringimento del diritto di voto togliendolo a chi lo userebbe
pericolosamente, o limitandone il più possibile l’esercizio. Vecchissima
storia, che si ripresenta oggi sotto un neologismo piuttosto
ripugnante, la epistocrazia, il governo di coloro che sanno, degli
esperti, dei dotti: un modo per riverniciare a nuovo il potere dei pochi
a danno dei molti.
Che dire? Se dovessi basarmi su quel che vedo,
direi che nulla è scontato. Il diffuso pessimismo è fronteggiato, in
maniera che mi pare crescente, da un desiderio di comprendere che si
manifesta nelle aule scolastiche, perfino nelle piazze e in ogni
occasione d’incontro su temi di cultura politica. Qui compare quel pezzo
di élite che è indicato come coloro che hanno in casa cinquecento
libri. A questi spetta il compito e la responsabilità concreta di cucire
la società, di evitare che, per l’appunto, essa si divida in élite e
gente.
Ricordo che in un passo dei Quaderni di Antonio Gramsci, in
cui si discuteva il nostro tema, partendo dalla domanda: come si può
ammettere che il voto di Benedetto Croce valga come quello del pastore
analfabeta transumante nel centro della Sardegna, si rispondeva così: il
pastore non ha nessuna colpa, la colpa è di quelli — politici e
intellettuali — che non hanno saputo raggiungere il pastore per imparare
qualcosa da lui e per insegnare qualcosa a lui. Il che non si può fare
se si crede che la cultura sia tutta racchiusa nelle biblioteche.