Repubblica 29.12.18
Gli atelier del pittore
Il tempo si è fermato nella tana di Miró
di Josep Massot
«Voglio che dopo di me tutto rimanga così com’era nel momento della mia scomparsa».
Le
parole di Joan Miró (Barcellona, 1893 - Palma di Maiorca, 1983)
risuonano ora con la voce di suo nipote, Joan Punyet Miró, nel video che
prepara il visitatore che voglia scoprire il laboratorio maiorchino
dell’artista, progettato dall’architetto Josep Lluís Sert nel 1956, e
ora presentato al pubblico, restaurato e ricostruito al millimetro,
proprio come l’artista lo lasciò quando morì.
«Non posso lavorare
seriamente senza aver prima creato un ambiente favorevole a farlo»,
diceva Miró, e quell’ambiente lo ha restaurato un team guidato da
Patricia Juncosa.
Raramente si ha occasione, quando si tratta di artisti di statura internazionale, di respirare la loro atmosfera.
Questo
è stato realizzato nel laboratorio Sert: ogni goccia di pittura, ogni
ritaglio di giornale appeso con puntine da disegno ai muri, ogni
oggetto, ogni tela incompiuta, ogni fotografia e ogni pennello sono
stati rimessi al loro posto, come se il tempo si fosse congelato.
Il
sole, il mare, il silenzio, il cielo azzurro che tanto hanno ispirato
l’artista ricevono il visitatore prima che penetri nei segreti custoditi
dalla “grotta”, come Miró chiamava il suo studio, perché lì condensava
tutti i suoi saperi per creare la magia delle sue opere. «Il laboratorio
recentemente restaurato di Giacometti a Parigi ha il contenuto
originale, ma non è nello stesso luogo. Quello di Le Corbusier, invece, è
nello stesso edificio, ma non ha il contenuto originale», dice Juncosa.
«Lo stesso vale per gli studi di Munch a Oslo o per la riproduzione
dello studio di Gómez de la Serna a Madrid”, aggiunge Francesc Copado,
direttore della Fundació Miró Mallorca, per sottolineare il fatto
eccezionale di avere i due studi di Miró, quello di Maiorca e quello del
Mas Miró a Mont-roig del Camp, ricostruiti e aperti al pubblico.
Copado
spiega che l’iniziativa nacque quando i tecnici evidenziarono la
necessità di intervenire per sanare diverse patologie dell’edificio,
causate dall’umidità e dalla chiusura dei lucernari che Sert aveva
progettato in modo che, oltre che la luce naturale, lasciassero entrare
delle correnti d’aria, un’idea ispirata agli edifici dei climi
tropicali. Miró, dice Patricia Juncosa, li fece chiudere, perché, ormai
vecchio, aveva freddo ma, così facendo, ruppe gli equilibri della
costruzione.
Quello che era un problema diventò un’opportunità. Si
approfittò dello svuotamento dell’edificio per realizzare una mappatura
e un inventario completo delle macchie di pittura sul pavimento, il che
ha permesso di avere una visione globale del laboratorio e di
ricostruire come Miró si muovesse in quello spazio e come lo usasse,
oltre a identificare le macchie di pittura e associarle a opere
concrete. Il Dipartimento delle Collezioni ha individuato, grazie a
riprese e fotografie di allora, tutti gli oggetti, che, secondo
l’inventario, assommano a circa 4.000 pezzi.
In questo modo, è
stato possibile ricostruire fedelmente, senza concessioni all’artificio,
lo spazio originale degli anni Settanta, l’epoca di maggiore fermento
di Miró, e intraprenderne una rilettura. La differenza è che, per
preservare le opere originali, le 65 tele esposte sono riproduzioni
esatte, realizzate con il consenso e la supervisione della Successió
Miró (l’ente fondato dagli eredi che amministra le sue creazioni), dopo
aver selezionato, individuato e distrutto le prove.
Questa
ricostruzione metodica è una novità di grande importanza, che consente
ai ricercatori di approfondire lo studio delle fonti iconografiche di
Miró. «La precedente disposizione non funzionava», afferma Juncosa. Si
era occupato tutto lo spazio, impedendo di passeggiare tra le sue opere,
un metodo essenziale nella procedura di lavoro di Miró. Si erano anche
introdotti oggetti provenienti da altri luoghi, mentre mancavano delle
opere, trasferite nel vicino laboratorio di Son Boter. «Per un artista
che dava tanta importanza alla riflessione sull’equilibrio, al vuoto e
al pieno, recuperare questo elemento era urgente, così come poter
immaginare, grazie alla mappatura delle gocce di pittura, i suoi
movimenti nel laboratorio», dice la conservatrice della fondazione.
La
realizzazione dell’inventario ha permesso di scoprire che ci sono
diversi oggetti duplicati nei laboratori di Mont-roig e Palma di
Maiorca, che ci fanno comprendere le sue fissazioni: un ritratto di
Pablo Picasso, un altro di Joan Prats, un sole di foglie di palma, una
zucca, un pesce palla, un’altalena, diverse cartoline.
Quando Sert
finì i lavori dello studio di Maiorca, nel 1956, Miró rimase
paralizzato e per tre anni non dipinse a olio. Il motivo non era solo la
sua dedizione al lavoro grafico e ai murales in ceramica, ma la
stranezza del sentirsi in uno spazio disabitato. Per rimediare, si
dedicò alla creazione di una sua pinacoteca, raccogliendo oggetti
trovati sulla spiaggia, in campagna o per strada: scheletri di
conchiglie, rane, ratti o pipistrelli; pietre; fil di ferro; strumenti
per lavorare la terra... «Presto penseranno che sia un vagabondo», si
preoccupava sua moglie, Pilar Juncosa.
– Traduzione di Luis E. Moriones ©Josep Massot/ EL PAÍS