mercoledì 2 gennaio 2019

Repubblica 29.12.18
Gli atelier del pittore
Il tempo si è fermato nella tana di Miró
di Josep Massot


«Voglio che dopo di me tutto rimanga così com’era nel momento della mia scomparsa».
Le parole di Joan Miró (Barcellona, 1893 - Palma di Maiorca, 1983) risuonano ora con la voce di suo nipote, Joan Punyet Miró, nel video che prepara il visitatore che voglia scoprire il laboratorio maiorchino dell’artista, progettato dall’architetto Josep Lluís Sert nel 1956, e ora presentato al pubblico, restaurato e ricostruito al millimetro, proprio come l’artista lo lasciò quando morì.
«Non posso lavorare seriamente senza aver prima creato un ambiente favorevole a farlo», diceva Miró, e quell’ambiente lo ha restaurato un team guidato da Patricia Juncosa.
Raramente si ha occasione, quando si tratta di artisti di statura internazionale, di respirare la loro atmosfera.
Questo è stato realizzato nel laboratorio Sert: ogni goccia di pittura, ogni ritaglio di giornale appeso con puntine da disegno ai muri, ogni oggetto, ogni tela incompiuta, ogni fotografia e ogni pennello sono stati rimessi al loro posto, come se il tempo si fosse congelato.
Il sole, il mare, il silenzio, il cielo azzurro che tanto hanno ispirato l’artista ricevono il visitatore prima che penetri nei segreti custoditi dalla “grotta”, come Miró chiamava il suo studio, perché lì condensava tutti i suoi saperi per creare la magia delle sue opere. «Il laboratorio recentemente restaurato di Giacometti a Parigi ha il contenuto originale, ma non è nello stesso luogo. Quello di Le Corbusier, invece, è nello stesso edificio, ma non ha il contenuto originale», dice Juncosa. «Lo stesso vale per gli studi di Munch a Oslo o per la riproduzione dello studio di Gómez de la Serna a Madrid”, aggiunge Francesc Copado, direttore della Fundació Miró Mallorca, per sottolineare il fatto eccezionale di avere i due studi di Miró, quello di Maiorca e quello del Mas Miró a Mont-roig del Camp, ricostruiti e aperti al pubblico.
Copado spiega che l’iniziativa nacque quando i tecnici evidenziarono la necessità di intervenire per sanare diverse patologie dell’edificio, causate dall’umidità e dalla chiusura dei lucernari che Sert aveva progettato in modo che, oltre che la luce naturale, lasciassero entrare delle correnti d’aria, un’idea ispirata agli edifici dei climi tropicali. Miró, dice Patricia Juncosa, li fece chiudere, perché, ormai vecchio, aveva freddo ma, così facendo, ruppe gli equilibri della costruzione.
Quello che era un problema diventò un’opportunità. Si approfittò dello svuotamento dell’edificio per realizzare una mappatura e un inventario completo delle macchie di pittura sul pavimento, il che ha permesso di avere una visione globale del laboratorio e di ricostruire come Miró si muovesse in quello spazio e come lo usasse, oltre a identificare le macchie di pittura e associarle a opere concrete. Il Dipartimento delle Collezioni ha individuato, grazie a riprese e fotografie di allora, tutti gli oggetti, che, secondo l’inventario, assommano a circa 4.000 pezzi.
In questo modo, è stato possibile ricostruire fedelmente, senza concessioni all’artificio, lo spazio originale degli anni Settanta, l’epoca di maggiore fermento di Miró, e intraprenderne una rilettura. La differenza è che, per preservare le opere originali, le 65 tele esposte sono riproduzioni esatte, realizzate con il consenso e la supervisione della Successió Miró (l’ente fondato dagli eredi che amministra le sue creazioni), dopo aver selezionato, individuato e distrutto le prove.
Questa ricostruzione metodica è una novità di grande importanza, che consente ai ricercatori di approfondire lo studio delle fonti iconografiche di Miró. «La precedente disposizione non funzionava», afferma Juncosa. Si era occupato tutto lo spazio, impedendo di passeggiare tra le sue opere, un metodo essenziale nella procedura di lavoro di Miró. Si erano anche introdotti oggetti provenienti da altri luoghi, mentre mancavano delle opere, trasferite nel vicino laboratorio di Son Boter. «Per un artista che dava tanta importanza alla riflessione sull’equilibrio, al vuoto e al pieno, recuperare questo elemento era urgente, così come poter immaginare, grazie alla mappatura delle gocce di pittura, i suoi movimenti nel laboratorio», dice la conservatrice della fondazione.
La realizzazione dell’inventario ha permesso di scoprire che ci sono diversi oggetti duplicati nei laboratori di Mont-roig e Palma di Maiorca, che ci fanno comprendere le sue fissazioni: un ritratto di Pablo Picasso, un altro di Joan Prats, un sole di foglie di palma, una zucca, un pesce palla, un’altalena, diverse cartoline.
Quando Sert finì i lavori dello studio di Maiorca, nel 1956, Miró rimase paralizzato e per tre anni non dipinse a olio. Il motivo non era solo la sua dedizione al lavoro grafico e ai murales in ceramica, ma la stranezza del sentirsi in uno spazio disabitato. Per rimediare, si dedicò alla creazione di una sua pinacoteca, raccogliendo oggetti trovati sulla spiaggia, in campagna o per strada: scheletri di conchiglie, rane, ratti o pipistrelli; pietre; fil di ferro; strumenti per lavorare la terra... «Presto penseranno che sia un vagabondo», si preoccupava sua moglie, Pilar Juncosa.
– Traduzione di Luis E. Moriones ©Josep Massot/ EL PAÍS