Corriere 29.12.18
Oggi in edicola con il quotidiano parte la
serie sulla storia dei grandi capolavori raccontata da Philippe Daverio.
Un’attività che ha mutato più volte modalità e scopi attraverso il
contributo di geni come Botticelli, Caravaggio e Michelangelo. Fino alla
dimensione concettuale e alle moderne tecniche digitali
Colpisce e incanta ma sa far riflettere
La magia dell’arte
di Pierluigi Panza
Che
cos’è l’arte? Nel corso della storia, il termine «arte» è stato
utilizzato per definire tante cose diverse, come la nuova iniziativa del
«Corriere della Sera» consentirà al lettore di osservare. E per capirlo
basta ripercorrerne le vicende.
Alla fine del Medioevo l’arte è
stata due cose: un’attività artigianale — e qui il termine arte era
corrispettivo del greco téchne, ovvero «perizia», «saper fare» — e il
sostitutivo di una reliquia. L’arte era dunque artigianato,
un’operazione di maestri anonimi che realizzavano vasi, crocefissi,
cassoni o portali delle cattedrali «a regola d’arte». Non ancora riuniti
in gilde o corporazioni, questi artisti anonimi facevano parte della
classe popolare, di coloro che «lavoravano con le proprie mani» e non
studiavano; trasmettevano le loro conoscenze empiriche direttamente agli
allievi. L’arte, però, specie le raffigurazioni dei santi e dei
martiri, aveva anche la funzione di mostrare agli illetterati i misteri
della fede. E ove non c’era un sacro osso o una qualsiasi reliquia
portata dall’Oriente davanti alla quale inginocchiarsi e pregare, l’arte
confezionava un sostituto su misura: l’immagine sacra.
L’arte
divenne una sfida estetica con il Rinascimento, quando al principio
aristotelico dell’arte come imitazione della Natura si affiancò quello
del modo, della maniera con cui effettuare l’operazione: qualcuno
eccelse nello stile, come Raffaello o Michelangelo, altri sprofondarono
nell’oblio. Assunti a stipendio o donativi come artisti di corte, i
pittori restavano a quel tempo degli asserviti al loro signore, salvo a
raggiunta notorietà: allora aprivano una bottega in proprio e non si
facevano pagare solo in base a tempo, dimensioni della tela, numero di
teste o osto dei pigmenti, ma anche per la loro «arte».
Con il
Rinascimento l’artista divenne uno scienziato dello spazio grazie alla
scoperta e all’uso della prospettiva, il «metodo» che consentiva di
rappresentare gli oggetti in una visione reale, non più accostati come
faceva Giotto. Alcuni, come il tedesco Adam Elsheimer, riuscirono
persino ad anticipare nei quadri le scoperte di Galileo sulla Via
Lattea. Per raffigurare verosimilmente il corpo umano, gli artisti
divennero anatomisti e l’arte una raffigurazione «scientifica» del corpo
umano. Lo rimase per sempre: ancora oggi il dottor morte, Gunther von
Hagens, realizza mostre presentando corpi umani trattati tramite la
sostituzione dei liquidi con polimeri di silicone e a Genk il belga
Vanmechelen crea galline geneticamente modificate. Leonardo — anatomista
tra gli altri — pensò che la pittura fosse una psicologia: i personaggi
dipinti dovevano manifestare le passioni dell’animo. La pittura divenne
così una fisiognomica che — se vogliamo — anticipò la pseudoscienza di
Cesare Lombroso. Il pittore del Re Sole Charles Le Brun disegnò 41 forme
di sopracciglia che corrispondevano ad altrettante situazioni emotive.
Secoli dopo Heinrich Füssli utilizzò la pittura per raffigurare i nostri
incubi notturni: fu il Carl Gustav Jung del pennello.
La pittura
divenne anche arte della memoria, ovvero un modo per ricordare concetti
attraverso le immagini e la loro disposizione e sequenza esatta: le
teste di Arcimboldo rappresentano il massimo esempio. Ovviamente — fino
all’avvento della fotografia — la ritrattistica fu la forma testimoniale
per eccellenza. L’arte trasmetteva alle generazioni future il nostro
volto, era storia per immagini, documento. Van Dyck riempì l’Inghilterra
degli Stuart di ritratti. Ancora oggi se uno entra a Wilton House
(Wiltshire) sembra che re Carlo e i conti di Pembroke ti stiano
aspettando per il tè. Ovviamente l’arte divenne testimonianza anche
della realtà più oscura, dalle prostitute-modelle di Caravaggio ai
poveri del Pitocchetto: in questo caso, l’arte si fece cronaca del
presente. Di tanto in tanto l’arte divenne denuncia, una forma politica
per «cambiare la società»: una tentazione ricorrente, molto forte dagli
anni Sessanta del secolo scorso a oggi. È l’arte come manifesto
politico, critica sociale. Inventata la fotografia come derivato della
camera ottica, Canaletto fu mandato in pensione, ma arrivarono gli
Impressionisti con la loro tavolozza en plein air, capaci di fissare
sulla tela quello che vedevano, ma in maniera particolare: fu la
scoperta della molteplicità della percezione. Poi arrivarono gli
Espressionisti, e contò solo l’accentuazione caricaturale di ciò che si
voleva esprimere.
«È del poeta il fin la maraviglia» sentenziava
Marino e l’arte, nel Seicento, ebbe proprio la funzione dello
stupefacente: doveva creare stupore attraverso un trucco o attraverso
l’incessante ricorso alla novità. Doveva sottrarci dal quotidiano,
stupirci. L’arte divenne intrattenimento, l’architettura berniniana un
gioco prospettico, la pittura una scena illusionistica, teatro. Poi, nel
XVIII secolo, si capì che l’incidenza estetica sulla nostra anima non
aveva tempo, non richiedeva novità: un’opera antica riemersa dalle
viscere della Terra poteva generare più commozione di una nuova.
Nell’arte non c’è progresso e l’arte divenne eterna testimonianza della
nostra identità: Apollo si ripresentò alle tavole dei ricchi come se non
se ne fosse mai andato via. Quindi venne messo in museo.
Nell’Ottocento
romantico l’arte era diventata una forma sintetica per esprimere
l’infinito nel finito, la verità (conquistata gradino dopo gradino dalla
scienza) in una forma simbolica, anticipatrice: nel Viandante su un
mare di nebbia di Caspar David Friedrich l’arte è lo strumento per
modificare la nostra coscienza, farci riflettere, generare quello che il
filosofo Martin Heidegger avrebbe chiamato «disvelamento». L’arte crea
nuovi mondi, possibilità alle quali non avevamo pensato. L’artista
divenne un genio, ammirato e riverito, sebbene spesso uno spostato
sociale (l’Albatros di Baudelaire), aspetto raramente presente nei
secoli precedenti: Rubens faceva il diplomatico e Vermeer dipingeva come
secondo lavoro.
Con la nascita della borghesia l’arte entrò nel
mercato: si organizzarono Salon parigini, le Accademie d’arte vennero
istituzionalizzate e gli artisti incominciarono a esporre opere
realizzate su loro ideazione e non su richiesta del committente. Se
piacevano, venivano rifatte. Il pittore orientalista francese Charles
Landelle rifece lo stesso soggetto (la Femme fellah) 39 volte. L’arte
era sempre stata anche merce in vendita sostenuta dai banchieri: ieri i
Medici, oggi le finanziarie-sponsor. E spesso l’artista, a fianco delle
opere più famose, aveva creato una gamma di sottoprodotti di bottega: un
tempo crocefissi e cornicette, oggi, come fanno i vari Murakami o
Hirst, delle vere e proprie produzioni brandizzate, magari per Louis
Vuitton.
Oggi le cosiddette arti del disegno (pittura, scultura,
architettura), così riunite insieme perché sfruttavano un analogo medium
per tradurre l’idea in espressione sensibile, si sono nuovamente fuse
con le cosiddette arti performative — quelle che chiamiamo spettacoli.
Erano già unite dal Rinascimento, quando nacquero i primi sistemi delle
arti, come quello dell’erudito Benedetto Varchi.
Questa storia non
si fermerà qui. L’arte non è ancora morta per trasformarsi in
filosofia, come sosteneva Hegel: nel frattempo diventata arte
concettuale, che esprime delle idee, o pseudo tali. La sua storia andrà
avanti oltre noi. Già è stata battezzata l’arte digitale. Poi si vedrà.