mercoledì 2 gennaio 2019

Corriere 29.12.18
Oggi in edicola con il quotidiano parte la serie sulla storia dei grandi capolavori raccontata da Philippe Daverio. Un’attività che ha mutato più volte modalità e scopi attraverso il contributo di geni come Botticelli, Caravaggio e Michelangelo. Fino alla dimensione concettuale e alle moderne tecniche digitali
Colpisce e incanta ma sa far riflettere
La magia dell’arte
di Pierluigi Panza


Che cos’è l’arte? Nel corso della storia, il termine «arte» è stato utilizzato per definire tante cose diverse, come la nuova iniziativa del «Corriere della Sera» consentirà al lettore di osservare. E per capirlo basta ripercorrerne le vicende.
Alla fine del Medioevo l’arte è stata due cose: un’attività artigianale — e qui il termine arte era corrispettivo del greco téchne, ovvero «perizia», «saper fare» — e il sostitutivo di una reliquia. L’arte era dunque artigianato, un’operazione di maestri anonimi che realizzavano vasi, crocefissi, cassoni o portali delle cattedrali «a regola d’arte». Non ancora riuniti in gilde o corporazioni, questi artisti anonimi facevano parte della classe popolare, di coloro che «lavoravano con le proprie mani» e non studiavano; trasmettevano le loro conoscenze empiriche direttamente agli allievi. L’arte, però, specie le raffigurazioni dei santi e dei martiri, aveva anche la funzione di mostrare agli illetterati i misteri della fede. E ove non c’era un sacro osso o una qualsiasi reliquia portata dall’Oriente davanti alla quale inginocchiarsi e pregare, l’arte confezionava un sostituto su misura: l’immagine sacra.
L’arte divenne una sfida estetica con il Rinascimento, quando al principio aristotelico dell’arte come imitazione della Natura si affiancò quello del modo, della maniera con cui effettuare l’operazione: qualcuno eccelse nello stile, come Raffaello o Michelangelo, altri sprofondarono nell’oblio. Assunti a stipendio o donativi come artisti di corte, i pittori restavano a quel tempo degli asserviti al loro signore, salvo a raggiunta notorietà: allora aprivano una bottega in proprio e non si facevano pagare solo in base a tempo, dimensioni della tela, numero di teste o osto dei pigmenti, ma anche per la loro «arte».
Con il Rinascimento l’artista divenne uno scienziato dello spazio grazie alla scoperta e all’uso della prospettiva, il «metodo» che consentiva di rappresentare gli oggetti in una visione reale, non più accostati come faceva Giotto. Alcuni, come il tedesco Adam Elsheimer, riuscirono persino ad anticipare nei quadri le scoperte di Galileo sulla Via Lattea. Per raffigurare verosimilmente il corpo umano, gli artisti divennero anatomisti e l’arte una raffigurazione «scientifica» del corpo umano. Lo rimase per sempre: ancora oggi il dottor morte, Gunther von Hagens, realizza mostre presentando corpi umani trattati tramite la sostituzione dei liquidi con polimeri di silicone e a Genk il belga Vanmechelen crea galline geneticamente modificate. Leonardo — anatomista tra gli altri — pensò che la pittura fosse una psicologia: i personaggi dipinti dovevano manifestare le passioni dell’animo. La pittura divenne così una fisiognomica che — se vogliamo — anticipò la pseudoscienza di Cesare Lombroso. Il pittore del Re Sole Charles Le Brun disegnò 41 forme di sopracciglia che corrispondevano ad altrettante situazioni emotive. Secoli dopo Heinrich Füssli utilizzò la pittura per raffigurare i nostri incubi notturni: fu il Carl Gustav Jung del pennello.
La pittura divenne anche arte della memoria, ovvero un modo per ricordare concetti attraverso le immagini e la loro disposizione e sequenza esatta: le teste di Arcimboldo rappresentano il massimo esempio. Ovviamente — fino all’avvento della fotografia — la ritrattistica fu la forma testimoniale per eccellenza. L’arte trasmetteva alle generazioni future il nostro volto, era storia per immagini, documento. Van Dyck riempì l’Inghilterra degli Stuart di ritratti. Ancora oggi se uno entra a Wilton House (Wiltshire) sembra che re Carlo e i conti di Pembroke ti stiano aspettando per il tè. Ovviamente l’arte divenne testimonianza anche della realtà più oscura, dalle prostitute-modelle di Caravaggio ai poveri del Pitocchetto: in questo caso, l’arte si fece cronaca del presente. Di tanto in tanto l’arte divenne denuncia, una forma politica per «cambiare la società»: una tentazione ricorrente, molto forte dagli anni Sessanta del secolo scorso a oggi. È l’arte come manifesto politico, critica sociale. Inventata la fotografia come derivato della camera ottica, Canaletto fu mandato in pensione, ma arrivarono gli Impressionisti con la loro tavolozza en plein air, capaci di fissare sulla tela quello che vedevano, ma in maniera particolare: fu la scoperta della molteplicità della percezione. Poi arrivarono gli Espressionisti, e contò solo l’accentuazione caricaturale di ciò che si voleva esprimere.
«È del poeta il fin la maraviglia» sentenziava Marino e l’arte, nel Seicento, ebbe proprio la funzione dello stupefacente: doveva creare stupore attraverso un trucco o attraverso l’incessante ricorso alla novità. Doveva sottrarci dal quotidiano, stupirci. L’arte divenne intrattenimento, l’architettura berniniana un gioco prospettico, la pittura una scena illusionistica, teatro. Poi, nel XVIII secolo, si capì che l’incidenza estetica sulla nostra anima non aveva tempo, non richiedeva novità: un’opera antica riemersa dalle viscere della Terra poteva generare più commozione di una nuova. Nell’arte non c’è progresso e l’arte divenne eterna testimonianza della nostra identità: Apollo si ripresentò alle tavole dei ricchi come se non se ne fosse mai andato via. Quindi venne messo in museo.
Nell’Ottocento romantico l’arte era diventata una forma sintetica per esprimere l’infinito nel finito, la verità (conquistata gradino dopo gradino dalla scienza) in una forma simbolica, anticipatrice: nel Viandante su un mare di nebbia di Caspar David Friedrich l’arte è lo strumento per modificare la nostra coscienza, farci riflettere, generare quello che il filosofo Martin Heidegger avrebbe chiamato «disvelamento». L’arte crea nuovi mondi, possibilità alle quali non avevamo pensato. L’artista divenne un genio, ammirato e riverito, sebbene spesso uno spostato sociale (l’Albatros di Baudelaire), aspetto raramente presente nei secoli precedenti: Rubens faceva il diplomatico e Vermeer dipingeva come secondo lavoro.
Con la nascita della borghesia l’arte entrò nel mercato: si organizzarono Salon parigini, le Accademie d’arte vennero istituzionalizzate e gli artisti incominciarono a esporre opere realizzate su loro ideazione e non su richiesta del committente. Se piacevano, venivano rifatte. Il pittore orientalista francese Charles Landelle rifece lo stesso soggetto (la Femme fellah) 39 volte. L’arte era sempre stata anche merce in vendita sostenuta dai banchieri: ieri i Medici, oggi le finanziarie-sponsor. E spesso l’artista, a fianco delle opere più famose, aveva creato una gamma di sottoprodotti di bottega: un tempo crocefissi e cornicette, oggi, come fanno i vari Murakami o Hirst, delle vere e proprie produzioni brandizzate, magari per Louis Vuitton.
Oggi le cosiddette arti del disegno (pittura, scultura, architettura), così riunite insieme perché sfruttavano un analogo medium per tradurre l’idea in espressione sensibile, si sono nuovamente fuse con le cosiddette arti performative — quelle che chiamiamo spettacoli. Erano già unite dal Rinascimento, quando nacquero i primi sistemi delle arti, come quello dell’erudito Benedetto Varchi.
Questa storia non si fermerà qui. L’arte non è ancora morta per trasformarsi in filosofia, come sosteneva Hegel: nel frattempo diventata arte concettuale, che esprime delle idee, o pseudo tali. La sua storia andrà avanti oltre noi. Già è stata battezzata l’arte digitale. Poi si vedrà.