il manifesto 29.12.18
Capolavori da restituire all’Africa, oppure no
Intervista.
Dopo il rapporto che invita a rendere ai paesi africani le opere d'arte
sottratte in epoca coloniale, in Francia infuria il dibattito. E i
musei tremano. Parla l’antropologo Jean-Loup Amselle
di Anna Maria Merlo
La
Francia restituirà al Benin 26 oggetti artistici che erano stati rubati
dalle truppe coloniali nel 1892 nel saccheggio del palazzo del re
Behanzin a Abomey. È il primo gesto, simbolico, che fa seguito a un
impegno preso da Emmanuel Macron un anno fa, in un discorso a
Ouagadougou, e che segue le raccomandazioni di un rapporto appena
pubblicato, redatto dalla storica dell’arte Bénédicte Savoy e
dall’economista senegalese Felwine Sarr, che sta suscitando ampie
discussioni. La restituzione, difatti, apre questioni etiche,
legislative, giuridiche, artistiche. «È come sempre con Macron, che va
avanti con un colpo a destra e uno a sinistra, è un modo per recuperare
sul terreno delle questioni sociali rispetto alla politica liberista, di
cui vediamo oggi gli effetti con i gilet gialli», afferma Jean-Loup
Amselle, antropologo ed etnologo, direttore di studi emerito alla
prestigiosa Ehess (di recente ha pubblicato, con Souleymane Bachir
Diagne, En quête d’Afrique(s): Universalisme et pensée décoloniale, ed.
Albin Michel. E nel 2014, Les Nouveaux Rouges-bruns. Le racisme qui
vient, ed. Lignes, aveva aperto un’ampia discussione).
Il rapporto Savoy-Sarr suggerisce la restituzione. Lei cosa ne pensa?
Il
testo è impregnato di filosofia del post-colonialismo, nel senso
positivo del termine. Andando però più in profondità, vediamo che la
maggior parte degli oggetti sono frutto di saccheggi realizzati durante
spedizioni militari, che trasportati in Francia hanno cambiato di senso.
Degli oggetti rituali sono stati trasformati in opere d’arte. Alla base
avevano un valore estetico, ma in Africa non erano considerati opere
d’arte in quanto tali, è l’occidente che li ha trasformati. La
restituzione può aver luogo se è fatta a dei musei africani, ma non come
un’azione di richiesta di perdono rivolta ai discendenti di chi li ha
realizzati. Questi oggetti sono testimonianze di un passato, sono
prodotti di società animiste, ma oggi le società sono cambiate, si sono
islamizzate, cristianizzate, non ha senso affermare che vengono
restituiti a delle comunità.
L’occidente vuole avere buona coscienza?
La
nuova etica della restituzione è legata alla tematica della
riparazione. Si cerca la riconciliazione per la schiavitù, la
colonizzazione, restituendo oggetti che sono stati saccheggiati in modo
brutale. Non sono contrario a questo, ma al modo in cui vengono
presentate le cose. Non si possono restituire gli oggetti nel modo in
cui sono stati saccheggiati, perché nel frattempo questi oggetti hanno
cambiato senso. È stato usato il termine «diaspora», ma questa nozione è
contestabile, ha un lato razzialista.
Ci sono già state delle
restituzioni, ma si trattava di resti umani, come le spoglie di Saartjie
Baartman, la cosiddetta Venere ottentotta, restituita nel 2002 al
Sudafrica, o le teste maori, nel 2012 alla Nuova Zelanda. È possibile
restituire senza cambiare le leggi? E a chi, visto che gli stati attuali
sono frutto di confini coloniali?
Per esempio, Jacques Chirac
aveva dato una statuetta al Mali, saccheggiata da soldati nel delta
centrale del Niger. Ma era un regalo, non una restituzione. Si può
restituire allo stato attuale ciò che corrisponde al luogo dove sono
stati saccheggiati. Ma la questione resta: le comunità non sono più le
stesse, sono evolute in modo diverso, in differenti stati.
I musei
francesi non sono molto entusiasti. Hanno paura che si apra una
voragine? Per Stéphane Martin, direttore del Quai Branly, la questione
del patrimonio si pone in modo universale e non in maniera nazionale.
Cosa pensa di questa reazione?
Nei musei francesi c’è un numero
elevato di opere, ci sono riserve molto ricche. Sull’universalismo, il
Quai Branly dovrebbe interrogare se stesso, perché, a differenza del
Musée de l’Homme da cui viene gran parte della sua collezione, non è
universale, visto che non c’è più una collezione europea, divisa tra il
Musée des traditions populaires e il Mucem di Marsiglia, ma si limita
dall’alto a far dialogare altre culture tra loro, estraendo l’Europa dal
confronto. È un museo post-coloniale nel cattivo senso del termine. Il
Quai Branly potrebbe fare una grande mostra sul modo in cui sono
arrivate le opere, comprate a basso prezzo, saccheggiate durante gli
anni coloniali, rubate. Permetterebbe di distendere le relazioni tra
Francia, Europa e Africa. Un modo per riflettere sulla colonizzazione,
quindi, non solo restituzioni ma anche un lavoro per ricordare al mondo
come questi oggetti sono stati acquisiti.