martedì 29 gennaio 2019

Repubblica 29.1.19
Da De Gasperi a Conte
Parlamento, ministri, governi la classifica del potere senza laurea
Il titolo di studio fa grande un politico?
Certamente no.
Ma nemmeno la rivendicazione del contrario. Un libro di Irene Tinagli, economista, ex Scelta Civica e Pd, esamina formazione e carriere per raccontare l’era dell’incompetenza
Il libro.La grande ignoranza di Irene Tinagli
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA Non è solo un problema di congiuntivi sbagliati, tesi astruse, consecutio impossibili. Non sono le frasi buffe o gli errori epocali che rimbalzano da un sito all’altro, a farci domandare: siamo davanti alla classe politica peggiore di sempre? Sono, piuttosto, un’ignoranza diffusa e orgogliosa. Il merito messo ai margini anziché premiato. Gli incarichi affidati per familismo o affiliazione, come se fosse normale. Come se in Italia, nel 2019, non ci fossero competenze, valori, professionalità da premiare.
Ne «La grande ignoranza.
Dall’uomo qualunque al ministro qualunque. L’ascesa dell’incompetenza e il declino dell’Italia, in uscita oggi per Rizzoli», Irene Tinagli — ex deputata di Scelta Civica e Pd — parte da un database di seimila politici. Dal 1948 a oggi, da De Gasperi a Conte, il corso della politica italiana mette in luce un primo dato, che molto racconta dell’epoca che stiamo vivendo.
Quell’ "era dell’incompetenza" di cui negli Stati Uniti ha scritto Tom Nichols, spiegando come il reale problema sia «il fatto che siamo orgogliosi di non sapere le cose» e che «l’ignoranza è diventata una virtù». La prima scoperta arriva da una circostanza molto semplice: oggi il 70 per cento dei deputati è in possesso di una laurea. Sembrerà una percentuale alta, migliore del 66 per cento del 2008 e certo superiore alla media del Paese, ma la prospettiva cambia se la si confronta a quella della prima legislatura repubblicana, che aveva il 91 per cento di deputati laureati. In un’epoca, gli anni ‘50, in cui il tasso di istruzione della popolazione italiana era molto più basso. La percentuale degli italiani che in quegli anni aveva una laurea era pari a quella di chi oggi ha un dottorato: nell’ultima legislatura, solo il 5 per cento dei parlamentari. Il che dimostra plasticamente come il rapporto tra politica, studio e competenze sia andato progressivamente sfaldandosi.
Non si tratta di considerare il sapere in quanto tale una conditio sine qua non per fare politica. Il bracciante Giuseppe Di Vittorio è uno dei moltissimi esempi di come non sia così. E non c’è, la storia lo dimostra, nessuna "superiorità" dei tecnici sui politici. Basti pensare all’esperimento dei governi Dini e Monti, alla percezione negativa che ne è rimasta nel Paese, alla fine fatta dai partiti nati da quelle esperienze. Tinagli racconta con autoritonia lo "spaesamento", nei tempi morti del Transatlantico, dei cooptati della società civile, sprovvisti delle furbizie e delle capacità dei politici di professione. Quello che però dimostra uno studio fatto nel 2013 dai bocconiani Tommaso Nannicini e Vincenzo Galasso è come le scelte della politica siano avvenute sempre di più per affiliazione e fedeltà. Lasciando da parte non solo il merito, le professionalità affermate, lo studio, ma anche — quando si tratta di fare le liste elettorali e ricandidare qualcuno — la produttività e la presenza in Parlamento. Un andazzo che vale per tutti e ancor più per le donne.
Che aumentano in politica, ma sempre più giovani e meno autonome — per formazione e carriera — degli uomini al loro fianco nei partiti o nei governi.
Le Frattocchie, la Camilluccia, i corsi di formazione a Botteghe Oscure raccontati da Miriam Mafai, sono un mondo andato perduto in nome dell’immediatezza, della simpatia, della comunicazione imposta prima dalla televisione commerciale e poi dai social network. Non è un problema solo italiano, dovuto alla crisi dell’intermediazione e al disprezzo delle competenze introdotti in politica da forze nuove come il Movimento 5 stelle. Ma nonostante se ne parli in tutto il mondo e si studi il fenomeno dai più diversi punti di vista, le ricette sono poche. Ce n’è una provocatoria, che ribalta l’idea della "patente dell’elettore" elaborata da Jason Brennan, Georgetown University, nel suo Contro la democrazia: una "patente per governare", un esame cui sottoporre chi viene scelto come ministro, sulla scorta di quanto avviene negli Stati Uniti, ma in modo più rigoroso. A esaminare i candidati non dovrebbe essere infatti il partito di appartenenza, ma una commissione mista, composta anche da esperti. Non per premiare chi ha più competenze tecniche, tutt’altro: la qualità più importante per un politico è «il pensiero critico». E sebbene uno dei problemi sia il fatto che sempre di più, e nonostante le varie "rottamazioni", in Parlamento arrivino politici di professione, oggi emerge una certezza: la politica non si improvvisa. Ma se non torna a studiare, e a premiare studio e impegno, non va lontano.