La Stampa 29.1.19
Il procuratore Giuseppe Pignatone
“Sull’omicidio Regeni non possiamo fare di più”
intervista di Francesco Grignetti
Intervistare
il procuratore Giuseppe Pignatone non è facile. Le sue risposte sono
distillate con cura, aliene da battute ad effetto. Eppure, i messaggi ci
sono eccome. Sul caso Regeni, ad esempio, che da tre anni è in evidenza
sulla sua scrivania, ha spiegato in Parlamento che la procedura
giudiziaria ormai è in stallo. E quindi il senso del discorso era
chiaro: o si muove il governo ed esercita le opportune pressioni
politiche e diplomatiche, oppure tutto finisce qui.
È indubbio, procuratore, che l’attenzione stia calando, sulla morte atroce del ricercatore italiano.
«Guardi,
la collaborazione con la procura generale del Cairo ha avuto alcuni
esiti positivi, ma non ha finora consentito l’acquisizione di prove
certe di colpevolezza. Io credo che dal punto di vista giudiziario, la
situazione possa essere sbloccata solo da elementi nuovi che dovessero
essere acquisiti, e a noi trasmessi, dall’autorità egiziana».
Lei
ha sulla scrivania un altro caso delicatissimo, la morte di Stefano
Cucchi, che ha portato la procura a indagare nel corpo vivo dell’Arma
dei carabinieri. Dobbiamo aspettarci nuovi sviluppi?
«Naturalmente
non parlo delle indagini che continueranno con il massimo impegno per
accertare tutte le eventuali responsabilità. Su questo credo debbano
essere condivise le sofferte parole rivolte a tutti i carabinieri dal
Comandante generale dell’Arma, il generale Nistri, il quale, dopo aver
parlato di “un silenzio durato troppo a lungo”, ha affermato: “La
vicenda Cucchi è per noi una brutta pagina. Non dubitate, sapremo
voltarla con onore, tutti insieme. Ma per riuscirci dobbiamo essere
convinti che la verità va perseguita a ogni costo”».
Sta riesplodendo in tutto il suo fragore, intanto, lo scontro tra politica e giustizia, complice il caso-Salvini.
«Mmmh.. (pausa di riflessione) Ci sono processi in corso presso altri uffici, per cui non ritengo opportuno intervenire».
A
forza di attizzare lo scontro, però, ne va della credibilità della
magistratura. Nella sua lunga carriera l’ha vista crescere o diminuire?
«Io
credo che la magistratura abbia presso i cittadini un capitale di
fiducia e di credibilità acquisito con quello che ha fatto e continua a
fare nel contrasto al terrorismo, alle mafie, e in modo ovviamente
diversi, alla corruzione. Noi dobbiamo meritare questa fiducia e anzi
accrescerla, facendo bene il nostro lavoro. In primo luogo, dimostrando
con i fatti di essere indipendenti. Cioè, come dice la Costituzione,
soggetti solo alla legge. Proprio per questo indagini e processi devono
prescindere dal consenso. Fare bene il nostro lavoro, potrà anche
limitare almeno in parte l’effetto negativo per la nostra credibilità
derivante dall’insoddisfazione per i ritardi e le disfunzioni del
sistema giudiziario. Insoddisfazione giustificata, ma che solo in
piccola parte dipende dai magistrati. Per lo stesso motivo, è assurdo
gridare all’errore dei giudici ogni volta che una decisione viene
cambiata in sede di impugnazione: è la fisiologia del processo e a
questo servono i tre gradi di giudizio; che sono una garanzia, ma
naturalmente hanno un costo sui tempi».
Scusi se insisto: non è preoccupato dal riaprirsi di questa polemica?
«La
polemica tra politica e magistratura caratterizza, con alti e bassi, la
nostra vita pubblica da decenni. Io non credo che ci siano categorie
perfette per definizione e altre inevitabilmente dannate. E in
democrazia la libertà di pensiero e di critica sono un bene
fondamentale. Ripeto: noi dobbiamo fare bene il nostro lavoro, con
decisioni che siano e appiano imparziali e comprensibili. Dopo di che,
il fatto che siano oggetto di indagini e processi non la politica, ma
singole condotte ritenute illecite di singoli uomini politici, rientra
nel sistema di pesi e contrappesi proprio della nostra Costituzione, che
prevede espressamente l’indipendenza della magistratura e
l’obbligatorietà dell’azione penale».
Sembra indiscutibile il
vostro merito nell’avere svelato l’esistenza aRoma delle piccole mafie,
che definiste «originarie e originali».
«Sotto il profilo
criminale, dico che la cifra di Roma è la complessità, nel senso che non
vi è un dato preponderante come la mafia a Palermo o Reggio Calabria,
ma la presenza di fenomeni apparentemente diversi e apparentemente
lontani come corruzione, criminalità economico-finanziaria, eversione
politica, criminalità predatoria e associazioni per delinquere, anche di
tipo mafioso. E come hanno rivelato molte indagini e molte sentenze,
questi fenomeni si intrecciano moltiplicando la loro pericolosità. In
questo contesto rimane gravissimo il fenomeno della corruzione in senso
lato che, come dice anche Papa Francesco, corrode e corrompe le basi
stesse della nostra società».
Lei ha ricordato che la corruzione resta la prima piaga di Roma.
«Come
per tante altre questioni, ci sono alti e bassi nella sensibilità
dell’opinione pubblica. Magari alla prossima inchiesta clamorosa avremo
un nuovo picco di attenzione. E di polemiche, dato che c’è una parte
dell’informazione e degli osservatori che non condivide il giudizio
sulla gravità del fenomeno».