il manifesto 29.1.19
Venezuela, golpe dello Stato profondo
L'arte
della guerra. Il riconoscimento di Juan Gualdó come «legittimo
presidente» del Venezuela è stato preparato in una cabina di regia
sotterranea all’interno del Congresso e della Casa Bianca. Principale
operatore è il senatore repubblicano della Florida Marco Rubio,
«virtuale segretario di stato per l’America Latina, collegato al
vicepresidente Mike Pence e al consigliere per la sicurezza nazionale
John Bolton
di Manlio Dinucci
L’annuncio del
presidente Trump, che riconosce Juan Gualdó «legittimo presidente» del
Venezuela è stato preparato in una cabina di regia sotterranea
all’interno del Congresso e della Casa Bianca. La descrive
dettagliatamente il New York Times (26 gennaio).
Principale
operatore è il senatore repubblicano della Florida Marco Rubio,
«virtuale segretario di stato per l’America Latina, che guida e articola
la strategia dell’Amministrazione nella regione», collegato al
vicepresidente Mike Pence e al consigliere per la sicurezza nazionale
John Bolton. Il 22 gennaio, alla Casa Bianca, i tre hanno presentato il
loro piano al presidente, che l’ha accettato. Subito dopo – riporta il
New York Tmes – «Mr. Pence ha chiamato Mr. Gualdó e gli ha detto che gli
Stati uniti lo avrebbero appoggiato se avesse reclamato la presidenza».
Il
vicepresidente Pence ha poi diffuso in Venezuela un video messaggio in
cui chiamava i dimostranti a «far sentire la vostra voce domani» e
assicurava «a nome del presidente Trump e del popolo americano: estamos
con ustedes, siamo con voi finché non sarà restaurata la democrazia»,
definendo Maduro «un dittatore che mai ha ottenuto la presidenza in
libere elezioni».
L’indomani Trump ha ufficialmente incoronato
Gualdó «presidente del Venezuela», pur non avendo questi partecipato
alle elezioni presidenziali del maggio 2018 le quali, boicottate
dall’opposizione che sapeva di perderle, hanno decretato la vittoria di
Maduro, con il monitoraggio di molti osservatori internazionali.
Tale
retroscena rivela che le decisioni politiche vengono prese negli Usa
anzitutto nello «Stato profondo», centro sotterraneo del potere reale
detenuto dalle oligarchie economiche, finanziarie e militari. Sono
queste che hanno deciso di sovvertire lo Stato venezuelano. Esso
possiede, oltre a grandi riserve di preziosi minerali, le maggiori
riserve petrolifere del mondo, stimate in oltre 300 miliardi di barili,
sei volte superiori a quelle statunitensi.
Per sottrarsi alla
stretta delle sanzioni, che impediscono al Venezuela perfino di
incassare i dollari ricavati dalla vendita di petrolio agli Stati uniti,
Caracas ha deciso di quotare il prezzo di vendita del petrolio non più
in dollari Usa ma in yuan cinesi. Mossa che mette in pericolo lo
strapotere dei petrodollari. Da qui la decisione delle oligarchie
statunitensi di accelerare i tempi per sovvertire lo Stato venezuelano e
impadronirsi della sua ricchezza petrolifera, necessaria immediatamente
non quale fonte emergetica per gli Usa, ma quale strumento strategico
di controllo del mercato energetico mondiale in funzione anti-Russia e
anti-Cina. A tal fine, attraverso sanzioni e sabotaggi, è stata
aggravata in Venezuela la penuria di beni di prima necessità per
alimentare il malcontento popolare.
È stata intensificata allo
stesso tempo la penetrazione di «organizzazioni non-governative» Usa: ad
esempio, la National Endowment for Democracy ha finanziato in un anno
in Venezuela oltre 40 progetti sulla «difesa dei diritti umani e della
democrazia», ciascuno con decine o centinaia di migliaia di dollari.
Poiché
il governo continua ad avere l‘appoggio della maggioranza, è certamente
in preparazione qualche grossa provocazione per scatenare all’interno
la guerra civile e aprire la strada a un intervento dall’esterno.
Complice l’Unione europea che, dopo aver bloccato in Belgio fondi
statali venezuelani per 1,2 miliardi di dollari, lancia a Caracas
l’ultimatum (concordato col governo italiano) per nuove elezioni. Le
andrebbe a monitorare Federica Mogherini, la stessa che l’anno scorso ha
rifiutato l’invito di Maduro di andare a monitorare le elezioni
presidenziali.