Repubblica 29.12.18
Nathan Englander “Non serve il Nobel per essere un gigante”
Intervista di Anna Lombardi
«Pace:
sì, pace. Quando stamattina ho letto la notizia, appena sveglio, è
letteralmente la prima parola che mi è venuta in mente e che continua a
ronzarmi nella testa.
Perché Amos Oz era un uomo estremamente
intelligente e di grande morale: e quello che più d’ogni altro mi ha
insegnato è il dovere che hanno gli scrittori di scrivere libri che
servano a tessere legami. Che contribuiscano a costruire la pace. In
modo che anche in una trappola infinita come la guerra fra israeliani e
palestinesi la gente possa trovare modo di comprendersi. E provare a
scrivere insieme un futuro diverso». Nathan Englander, 48 anni, lo
scrittore newyorchese che ha raccontato al grande pubblico l’esperienza
ebraico-americana in libri come Il ministero dei casi speciali ricorda
l’amico annodando riflessioni e memorie in un unico concitato discorso.
Oz aveva quasi trent’anni più di lei. Cosa vi legava?
«Lo
incontrai per la prima volta una ventina di anni fa, su un aereo da
Israele all’Italia dove eravamo ospiti del Festival di Mantova. Io ero
un ragazzino che aveva appena pubblicato il suo primo libro. Lui era già
una leggenda. Non ricordo bene di cosa parlammo: ma ricordo
perfettamente il suo calore. Mi trattò alla pari e mi colpì fin da
subito, perché non aveva nessun obbligo di essere così aperto e
affettuoso. Da allora l’ho sempre considerato un vero maestro. Per la
sua umanità e naturalmente per quella sua scrittura, così unica, così
acuta, così chiara. Abbiamo continuato a sentirci: l’ultima volta appena
un paio di settimane fa».
Il grande pubblico conosce Oz soprattutto per “Una storia d’amore e di tenebra” da cui Natalie Portman ha tratto un film.
«A
Gerusalemme ho vissuto proprio nello stesso quartiere che apre quel
libro, quello dove era cresciuto lui. E infatti per meglio comprendere
la città giravo con quel romanzo in tasca: la descrizione era così
accurata che mi faceva letteralmente vedere il passato. Fino a farmi
sentire io stesso come un vecchio capace di percepire ancora la città
che ama sotto i numerosi strati di novità e cambiamenti».
Qual è il libro che un lettore oggi dovrebbe riprendere in mano per onorarlo?
«Quello
che ho amato di più è Il monte del cattivo consiglio dove ricorda gli
anni in cui lo Stato di Israele muoveva i primi passi. C’è qualcosa in
quel libro che mi ha fatto sempre sentire di appartenere a quel mondo.
Ma se dovessi suggerirne uno direi senz’altro Michele mio. Uno dei suoi
primi romanzi: amaro e molto forte».
Oz ha segnato la storia della letteratura ebraica moderna: ha segnato anche lei?
«Credo
in molte delle cose in cui credeva lui. Ora dobbiamo raccoglierne il
testimone: come scrittori, scrivendo storie potenti. E come lettori:
onorarlo significa tornare a leggere le sue opere e farle scoprire agli
altri. Leggerlo è raccoglierne l’eredità: quel suo costante sforzo
personale nel lavorare a costruire la pace».
Ora tutti tornano a parlare del Nobel mancato. Il suo nome sempre in lista: ma invano.
«Certo
che il Nobel è un grande riconoscimento: ma averlo ricevuto o meno
incide poco sul valore del lavoro di uno scrittore. Anche perché puoi
non averlo vinto per mille motivi: i tempi, le opportunità, la politica.
E tanto più se sei un autore ebreo israeliano.
Ma i libri di un
gigante come Amos Oz non hanno bisogno di premi o di conferme per essere
riconosciuti nella loro grandezza. Parlano da soli».