mercoledì 2 gennaio 2019

Repubblica 29.12.18
Nathan Englander “Non serve il Nobel per essere un gigante”
Intervista di Anna Lombardi


«Pace: sì, pace. Quando stamattina ho letto la notizia, appena sveglio, è letteralmente la prima parola che mi è venuta in mente e che continua a ronzarmi nella testa.
Perché Amos Oz era un uomo estremamente intelligente e di grande morale: e quello che più d’ogni altro mi ha insegnato è il dovere che hanno gli scrittori di scrivere libri che servano a tessere legami. Che contribuiscano a costruire la pace. In modo che anche in una trappola infinita come la guerra fra israeliani e palestinesi la gente possa trovare modo di comprendersi. E provare a scrivere insieme un futuro diverso». Nathan Englander, 48 anni, lo scrittore newyorchese che ha raccontato al grande pubblico l’esperienza ebraico-americana in libri come Il ministero dei casi speciali ricorda l’amico annodando riflessioni e memorie in un unico concitato discorso.
Oz aveva quasi trent’anni più di lei. Cosa vi legava?
«Lo incontrai per la prima volta una ventina di anni fa, su un aereo da Israele all’Italia dove eravamo ospiti del Festival di Mantova. Io ero un ragazzino che aveva appena pubblicato il suo primo libro. Lui era già una leggenda. Non ricordo bene di cosa parlammo: ma ricordo perfettamente il suo calore. Mi trattò alla pari e mi colpì fin da subito, perché non aveva nessun obbligo di essere così aperto e affettuoso. Da allora l’ho sempre considerato un vero maestro. Per la sua umanità e naturalmente per quella sua scrittura, così unica, così acuta, così chiara. Abbiamo continuato a sentirci: l’ultima volta appena un paio di settimane fa».
Il grande pubblico conosce Oz soprattutto per “Una storia d’amore e di tenebra” da cui Natalie Portman ha tratto un film.
«A Gerusalemme ho vissuto proprio nello stesso quartiere che apre quel libro, quello dove era cresciuto lui. E infatti per meglio comprendere la città giravo con quel romanzo in tasca: la descrizione era così accurata che mi faceva letteralmente vedere il passato. Fino a farmi sentire io stesso come un vecchio capace di percepire ancora la città che ama sotto i numerosi strati di novità e cambiamenti».
Qual è il libro che un lettore oggi dovrebbe riprendere in mano per onorarlo?
«Quello che ho amato di più è Il monte del cattivo consiglio dove ricorda gli anni in cui lo Stato di Israele muoveva i primi passi. C’è qualcosa in quel libro che mi ha fatto sempre sentire di appartenere a quel mondo. Ma se dovessi suggerirne uno direi senz’altro Michele mio. Uno dei suoi primi romanzi: amaro e molto forte».
Oz ha segnato la storia della letteratura ebraica moderna: ha segnato anche lei?
«Credo in molte delle cose in cui credeva lui. Ora dobbiamo raccoglierne il testimone: come scrittori, scrivendo storie potenti. E come lettori: onorarlo significa tornare a leggere le sue opere e farle scoprire agli altri. Leggerlo è raccoglierne l’eredità: quel suo costante sforzo personale nel lavorare a costruire la pace».
Ora tutti tornano a parlare del Nobel mancato. Il suo nome sempre in lista: ma invano.
«Certo che il Nobel è un grande riconoscimento: ma averlo ricevuto o meno incide poco sul valore del lavoro di uno scrittore. Anche perché puoi non averlo vinto per mille motivi: i tempi, le opportunità, la politica. E tanto più se sei un autore ebreo israeliano.
Ma i libri di un gigante come Amos Oz non hanno bisogno di premi o di conferme per essere riconosciuti nella loro grandezza. Parlano da soli».