Repubblica 23.1.19
Stati Uniti-Cina
La trattativa sul commercio
Pechino apre a Trump comprando il riso Usa
di Filippo Santelli
PECHINO
Di riso a buon mercato, la Cina ne trova tonnellate in Asia, il
giardino di casa. Non ha certo bisogno di farselo spedire dagli Stati
Uniti. Eppure dopo anni di blocco, alla fine di dicembre Pechino ha dato
uno storico via libera all’importazione di chicchi “yankee”. Si
prevedono quantità minime, con quel che costa caricarle sulle navi. Ma
per Xi Jinping è il gesto che conta. Un segnale di buona volontà verso
gli agricoltori americani, cuore del consenso elettorale di Trump. Un
assist alle vanterie del presidente, vendere riso ai cinsi è roba da
fuoriclasse del negoziato.
L’ennesimo nuovo ordine di prodotti made in Usa, dopo gas, soia, mais Ogm e zampe di pollo.
Nella speranza che Trump si faccia ingolosire dal conto miliardario, e firmi un accordo commerciale più fumo che arrosto.
Speranza
fondata, a giudicare dal parallelo timore dei falchi americani, quelli
che considerano la Cina la grande rivale strategica da contenere, ora o
mai più. Si è ripetuto alla nausea che la vera partita tra le due
superpotenze non è lo squilibrio commerciale a favore di Pechino, ma la
corsa alle tecnologie che domineranno il mondo, e che secondo la Casa
Bianca il Dragone sottrae alle imprese occidentali con il ricatto o
l’inganno. Eppure ora che la Cina è spalle al muro per un’economia che
rallenta, che ha bisogno di un accordo entro il primo marzo per evitare
nuovi dazi, Trump pare guardare soprattutto al deficit. Lo ha ammesso
perfino il capo negoziatore Robert Lighthizer in audizione al Congresso:
c’è il rischio che il presidente accetti un compromesso al ribasso.
Specie se Wall Street avrà un’impennata di gradimento.
Per
invogliarlo, a una settimana dal round di negoziati decisivo, Pechino
continua ad allungare la lista della spesa. Promette un triliardo di
nuove importazioni dagli Stati Uniti, che dovrebbero appiattire la
bilancia degli scambi entro il 2024. Più gas naturale, la Cina ne ha
bisogno. Più prodotti agricoli, giocati nei momenti chiave della
trattativa. Dopo la tregua sui dazi, Xi ha fatto subito riattivare gli
acquisti di soia, per la gioia degli agricoltori del Midwest. A fine
dicembre ecco il riso, bloccato per anni con cavilli fitosanitari. Poi
semaforo verde a cinque varietà di cereali Ogm, specialità a stelle e
strisce. E ora si discute pure di riattivare il commercio del pollo,
bandito dopo l’epidemia di aviaria scoppiata negli States nel 2015. La
Cina è il mercato perfetto per i colossi americani, visto che è golosa
di parti come le zampe, considerate scarti in Occidente.
Condite
il tutto con qualche mini apertura del mercato interno, per esempio il
settore auto, e voilà: il menù con cui sedurre Trump, in gran parte
riscaldato, è servito.
Certo, sono state fatte balenare anche altre promesse, assai più vicine al cuore della disputa.
Pechino
ha proposto una nuova legge sulla proprietà intellettuale, con ammende
(ma non pene) per le aziende che la violano. E si è impegnata ad
accelerare una riforma degli investimenti esteri che vieti il travaso
forzato di tecnologie verso entità cinesi.
Eppure le imprese
straniere che operano in nel Paese avvertono che senza un meccanismo per
verificare l’attuazione delle riforme, la burocrazia comunista ha mille
trucchetti per sterilizzarle. Di certo, che lo si chiami oppure no
“Made in China 2025”, Xi non ha intenzione di rinunciare al balzo in
avanti tecnologico del Paese, basato su massicci incentivi statali e
difesa dei settori strategici.
Fonti della Casa Bianca, non a
caso, spifferano che su questi temi la distanza resta abissale. Dopo
mesi di escalation, dazi e controdazi, Trump potrebbe accontentarsi di
un pugno di dollari. O di un pugno di riso.