Repubblica 23.1.19
Max Weber la tragica vocazione della politica
Cent’anni fa il discorso del grande sociologo e filosofo
di Roberto Esposito
Il
28 gennaio 1919, cent’anni fa, Max Weber pronunciò a Monaco una
conferenza che costituisce uno dei più alti documenti del pensiero
moderno. Intitolata Politica come professione — ma il termine tedesco
Beruf significa anche “vocazione” — essa seguì di circa un anno un’altra
conferenza su La scienza come professione.
Benché situato in un
periodo storico determinato — la fine della prima guerra mondiale —
Weber si rivolge agli studenti tedeschi, ma anche all’Europa e
all’intero Occidente. È perciò che quel discorso non ha perso nulla
della sua bruciante attualità. E anzi sembra parlare a noi. Di noi. Mai
come oggi, quando la professione della politica tocca il punto più
basso, la conferenza di Weber pone la civiltà europea di fronte alle
proprie responsabilità.
Responsabilità — intesa nel suo senso
originario di “risposta improrogabile” — è anzi il termine intorno al
quale ruota l’intero testo con una intensità che lascia indifferenti.
Proprio perché nasce da una tragica sconfitta — non della sola Germania,
ma di un continente che nella guerra pare aver perso, prima di milioni
di vite umane, la sua stessa anima.
Weber coglie fino in fondo la
drammaticità del momento. Che riguarda una nazione impegnata nel
passaggio dall’impero alla repubblica, agitata dalla rivoluzione — «un
carnevale che s’adorna del nome di rivoluzione», come la definisce con
durezza. Ma riguarda, ancora prima, il destino della politica nell’epoca
ormai dominata dall’economia e dalla tecnica. È in questo quadro che
Weber parla della professione politica. Essa nasce dalla moderna
divisione del lavoro, che assegna anche al politico un ruolo specifico.
In una società sempre più burocratizzata, si richiede un corpo di
funzionari dotati, oltre che del senso dell’onore, di competenze di tipo
amministrativo. In uno scenario popolato da notabili e imprenditori
spregiudicati del potere, la professione politica inizia ad attirarsi un
discredito arrivato al suo culmine solo oggi.
Ben consapevole di
questo processo, lo sguardo di Weber è però rivolto alle differenze. Non
è la stessa cosa vivere “di” politica o “per” la politica. Solo in
questo secondo caso il Beruf esprime il suo più alto significato, la
professione diventa vocazione. È questa condizione che caratterizza il
capo politico, distinguendolo dall’imprenditore e anche dal funzionario
amministrativo: egli agisce per una causa, decide in base a essa.
Certo,
lontano da ogni romanticismo e moralismo, Weber sa bene che la
decisione politica non nasce da un’esigenza etica incondizionata. Essa
si situa all’interno di circostanze che richiedono competenze
specialistiche e conoscenza dei processi storici. Ha parole di disprezzo
per coloro che lo negano, proclamando di agire in nome del popolo. Il
politico che pretende di agire senza un sapere adeguato, non farà altro
che produrre demagogia a basso prezzo, i cui costi gravano sull’intera
società. Ma la preparazione tecnica, come anche la fedeltà al proprio
impegno, ancora non bastano. Chi sceglie di vivere per la politica, deve
fare un passo in più: conoscere fino in fondo le conseguenze delle
proprie scelte, i contrasti etici cui la propria azione lo espone. Per
poterlo affrontare, deve essere consapevole che il male esiste. E che
dunque, nelle sue scelte, dovrà venire a compromesso con le potenze
diaboliche che abitano il mondo. Ma senza mai sottomettersi a esse. Che
c’è un limite davanti al quale non è possibile arretrare e bisogna dire:
accada quel che accada, da qui non mi muovo.
Ricostruite le
trasformazioni politiche del tempo, il complesso rapporto tra tecnica e
democrazia, parlamento e governo, ufficio e carisma, nelle pagine finali
Weber penetra in quell’inestricabile groviglio di contraddizioni che
conferiscono al Beruf politico la sua drammatica tensione. Nulla è più
lontano da lui della condotta di politici che operano in base alla pura
ricerca del consenso, senza «alcun rapporto con la coscienza del tragico
a cui è intrecciato in verità ogni agire, e in particolare l’agire
politico». Tragica è la connessione necessaria tra gli elementi,
apparentemente opposti, della passione e della razionalità: «Come si
possono far convivere in una stessa anima un’ardente passione e una
fredda lungimiranza»? Ma ancora più tragica è l’esigenza di comporre le
due etiche, apparentemente inconciliabili, dalla cui relazione l’agire
politico è costituito. La prima è l’etica della convinzione, secondo la
quale si agisce in base ai puri principî, senza preoccuparsi, o
attribuendo ad altri, gli effetti che ne deriveranno. La seconda è
l’etica delle responsabilità, in cui si agisce anche in ragione delle
conseguenze delle proprie azioni.
Mai come in questo caso le
parole di Weber risuonano nelle nostre orecchie. Come deve comportarsi
il politico che sa che la difesa incondizionata di una giusta causa
porterà a una sicura sconfitta della propria parte e dunque a un
peggioramento della condizione di coloro che difende?
Eppure è
sulla linea di fuoco di questa tensione che il vero politico si muove,
senza abbandonare nessuna delle due etiche, provando strenuamente a
rispondere a entrambe. Questa è precisamente la responsabilità del
politico. Ma cosa sanno, di tutto ciò, i politici che oggi ci governano?