martedì 22 gennaio 2019

Repubblica 22.1.19
Medio Oriente
Perché Israele mostra i raid
di Daniele Bellasio


La guerra di attrito tra Israele e Iran si combatte da mesi in Siria, dove le forze di Teheran stanno mettendo basi e radici con l’invio di esperti pasdaran a supporto del regime di Damasco e con l’intento di fare un po’ come Mosca: porre più di un piede sulle sponde del Mediterraneo (e a ridosso di Israele). Per lo Stato ebraico una presenza così ravvicinata di forze iraniane, sebbene in territorio siriano e dissimulate in ruoli da consiglieri e in postazioni defilate, è inaccettabile dal punto di vista della propria sicurezza ai confini, soprattutto se si considera la contemporanea presenza di Hezbollah, tra Libano e Siria, e il patto d’acciaio tra le milizie sciite del partito di Dio e il regime degli ayatollah. Così da tempo l’aviazione israeliana colpisce le minacciose ombre iraniane in Siria.
Adesso però assistiamo a una svolta particolare: Israele non nega più i raid, ma anzi li ammette e li spiega fin nei dettagli del loro obiettivo strategico, colpire l’Iran in Siria. Questa comunicazione così diretta e sincera è una novità non soltanto nell’ambito della crisi siriana, ma anche nel contesto della tradizionale riservatezza propria dell’esercito e dei servizi d’intelligence israeliani nel corso della loro storia, dalla nascita dello Stato a oggi. Perfino l’esistenza e la reale entità del potenziale nucleare israeliano sono da sempre considerati misteri da noir geopolitici e se chiedete a una guida sul confine libanese quanti soldati nel tal avamposto vigilano sulle milizie di Hezbollah otterrete questa ironica ma netta risposta: « Soltanto il cuoco della base militare lo sa».
Perché dunque ora governo e forze armate israeliane sono diventate ciarliere a proposito dei raid in Siria? Per tre ragioni innanzitutto. La prima è una ragione di politica interna: il premier Benjamin Netanyahu, che va verso le elezioni anticipate del 9 aprile inseguito da scandali e inchieste per corruzione, ha interesse a ricordare agli elettori che è bene rieleggere un leader di destra attento alla sicurezza nazionale, visto che c’è una guerra al confine, quella contro gli iraniani in Siria.
La seconda è una ragione geopolitica: Israele ribadisce a tutto il vicino oriente che se anche gli Stati Uniti si stanno disimpegnando dalla Siria e dall’area nei paraggi resta Tsahal, l’esercito dello Stato ebraico, pronto a mettere ordine se serve.
La terza è una ragione tattica: Netanyahu ha un buon rapporto con il presidente russo Vladimir Putin, con cui si sente e s’incontra spesso, e segnalando che gli attacchi sono contro gli iraniani in sostanza spiega che non vuole interferire con l’opera di altre forze nella zona, quelle russe, ma che sta attuando un’azione di contenimento dell’Iran, obiettivo cui la stessa Mosca è interessata, anche se non può manifestarlo per non guastare le relazioni con Teheran.
C’è infine un’altra novità nello scacchiere mediorientale. Il graduale disimpegno degli Stati Uniti, iniziato con la presidenza di Barack Obama e proseguito con accenti più gravi e carichi di conseguenze da Donald Trump, sta derubricando la questione palestinese a questione ora irrisolvibile e comunque non più prioritaria, liberando anche il campo dallo schema tradizionale delle alleanze: con o contro Washington. Così ciò che un tempo era impensabile — Israele protagonista " normale" nelle partite in quest’area incandescente — oggi diventa possibile al punto da lasciar intravedere dialoghi a distanza tra sauditi e israeliani. Anche per questo motivo di fondo Netanyahu mette sul tavolo un obiettivo che altre potenze regionali possono condividere: frenare l’Iran.