mercoledì 2 gennaio 2019

Repubblica 2.1.19
La collana
Holden e gli altri i capolavori di Salinger tutti da rileggere
di Paolo Di Paolo


Con "Repubblica" da domani i libri dello scrittore americano più misterioso di sempre che ha cambiato la letteratura del Novecento La prima uscita è il suo romanzo d’esordio, titolo di culto per intere generazioni
Se non fosse letto come un grande romanzo sull’adolescenza — o più precisamente, sul sopravvivere all’adolescenza — come si potrebbe leggere Il giovane Holden? A ogni latitudine questo romanzo di J.D. Salinger, che ha venduto oltre 65 milioni di copie e da domani sarà in edicola con Repubblica, attiva un’associazione automatica.
Holden, l’adolescenza. E di sicuro non è sbagliato, se si considera la quantità di dettagli, specifici e universali, che — gettati fra le pagine — dicono di quella stagione della vita verità intramontabili (il progetto di scappare di casa, la voglia di parlare al telefono con qualcuno, la voglia di non parlare con nessuno, l’ansia nel contare i soldi che ti sono rimasti, i momenti in cui si scoppia a piangere «sul serio»).
Ma se fosse soltanto un grande romanzo sull’adolescenza, questo romanzo epocale con cui Salinger non ha mai fatto pace, sarebbe difficile spiegarne il mistero — l’ombra e lo scintillio, qualcosa che sta oltre le pagine e le parole. Salinger si portava appresso il manoscritto nei giorni del D-Day, era il suo «motivo per sopravvivere».
Il lungo soliloquio del ragazzo Holden Caulfield contiene più tristezza, più dolore, più follia di quanto affiori in superficie.
William Faulkner, leggendolo, ci vide — più che l’immagine, ormai cristallizzata, dell’adolescente ribelle — lo sforzo (letteralmente tragico) che richiede diventare un individuo. Rompere il muro di vetro, esistere. E una domanda, su tutte: diventare adulti significa necessariamente diventare "come gli adulti"?
È un interrogativo sufficiente a far tremare muri, certezze, ipocrisie, a disinnescare per qualche istante il pilota automatico della quotidianità, e a ricordarsi — con una tristezza che può spezzarti — di quando non era ancora stato inserito.
Quando la fedeltà a sé stessi e al mondo era un patto da rinnovare ora per ora; e potevi salire in cima a una stupida collina, come fa Holden, solo per vedere se riuscivi a «provare un senso di addio». Ma c’entra più l’adolescenza, o c’entra più la possibilità — crescendo, invecchiando — di non tradirsi del tutto?
Salinger avrebbe compiuto ieri cento anni: è morto invece novantenne, dopo aver scritto altri grandi libri, un capolavoro come Nove racconti e la saga della famiglia Glass ( Franny e Zooey e Alzate l’architrave, carpentieri e Seymour), i titoli disponibili con Repubblica nelle prossime settimane. Pur detestando il suo libro di maggior successo per avergli tolto la tranquillità (l’assassino di Lennon ne aveva una copia nella borsa!), a suo modo non ha mai smesso di restare Holden.
Bizzoso, risentito, indignato, sentimentale, mistico. Se è vero che fra gli inediti ce ne sono un paio con protagonista Holden (e uno ha per titolo Gli ultimi e i migliori fra i Peter Pan), tutto si tiene. Tanto più che, sottotraccia, il grande romanzo del ’51 abbozza una sorta di parabola dell’artista (involontario) da giovane — uno che recalcitra di fronte alla «macchina da scrivere schifosa», poi però tira fuori meraviglie.
Come quando deve scrivere un tema al posto di un compagno di scuola, non sa come riempire il foglio e all’improvviso gli torna in mente il guantone da baseball di suo fratello Allie: «Si prestava alla descrizione perché c’erano scritte delle poesie sulle dita, nel palmo e dappertutto».
Mi è capito più volte di pensare a Holden come a uno scrittore camuffato da sedicenne. È che uno come lui scrive nella testa, scrive anche quando non scrive.
Vede le cose, gli altri, e le trasforma: da bugiardo pazzesco, così si definisce, indossa il cappello con la visiera girata all’indietro, legge Maugham e altri libri che fanno ridere, e pensa troppo, si fa domande strane (sì, tutti conoscete quella sul destino delle anatre di Central Park quando il laghetto gela). E ricorda cose che «sono difficili da ricordare». E nota dettagli che, a chi è sensibile «più o meno come un’asse del cesso», non dicono niente: «una ragazza che si soffia il naso o ride o che ne so», la tristezza di qualcuno, un pigiama azzurro con degli elefanti sul colletto indossato da qualcuno che va matto per gli elefanti, due tizi che, imprecando, scaricano un grosso albero di Natale da un camion. Se uno vede queste cose, se riesce a fissare queste immagini, a tradurle in parole, è uno scrittore. Anche se si è già convinto che non valga troppo la pena diventarlo. Dice che, se sapesse suonare bene il pianoforte, preferirebbe suonare in uno sgabuzzino: «Nemmeno vorrei che mi applaudissero. La gente applaude sempre per le cose sbagliate». E — quel che è peggio — è difficile renderti conto di quando suoni bene o no, se pensi agli applausi. Detto da chi, dopo un successo clamoroso, si è ritirato nel silenzio e nell’ombra per decenni, può essere preso sul serio. E comunque, il problema di raccontare storie agli altri non è solo una questione per scrittori. Lo dice Holden, nel magnifico finale del romanzo, quando fa l’elenco di quelli che gli mancano. «Mi sa che mi manca pure quello scemo di Maurice. È strano. Non raccontate mai niente a nessuno. Se lo fate, poi comincia a mancarvi chiunque».

Le uscite
Nel centenario della nascita di J.D.
Salinger, Repubblica festeggia il grande autore americano con una collana che raccoglie i suoi celebri titoli nella nuova traduzione di Matteo Colombo Si parte domani con Il giovane Holden, in vendita a 9,90 euro più il prezzo del quotidiano. Seguiranno il 10 gennaio
Franny e Zooey, il 17 gennaio Nove racconti e il 24 gennaio Alzate l’architrave, carpentieri e Seymour. Introduzione
Salinger (nella foto grande), nato a New York il primo gennaio 1919, è morto il 27 gennaio 2010


Repubblica 2.1.19
La polemica
Il "Vaso di fiori" di Jan van Huysum
"Ora Berlino ci restituisca il quadro rubato dai nazisti"
L’appello di Eike Schmidt, il direttore tedesco degli Uffizi "Una ferita ancora aperta, serve una legge europea che faccia giustizia"
Purtroppo il mio Paese non ha mai considerato di riconsegnare le opere visto che vige la prescrizione per questo tipo di reati. A Firenze mancano decine di opere
di Alessandro Di Maria


FIRENZE «La Germania deve ridarci quel quadro trafugato durante la Seconda Guerra Mondiale». È l’appello lanciato attraverso un video dal direttore degli Uffizi di Firenze, Eike Schmidt, tedesco, riferendosi al dipinto "Vaso di fiori" dell’olandese Jan van Huysum, rubato nel 1944 dai soldati nazisti. Nel video si vede il direttore appendere alla parete della sala dei Putti, in Palazzo Pitti, stanza nella quale ha sempre dimorato fino al 1940, una riproduzione in bianco e nero dell’originale, con sopra la scritta, tradotta in tre lingue, "rubato".
Direttore, ci racconta cosa è accaduto?
«Faccio un appello alla Germania, per il 2019: ci auguriamo che nel corso di quest’anno possa essere finalmente restituito il quadro rubato da soldati nazisti e, attualmente, nella disponibilità di una famiglia tedesca che dopo tutto questo tempo non l’ha ancora reso al museo, nonostante le numerose richieste da parte dello Stato italiano».
Perché proprio nel primo giorno dell’anno questo appello?
«Tempo fa la magistratura ha aperto un fascicolo su questa opera, quindi mi è venuto in mente, anche da parte nostra, di documentare questa ferita aperta e ho avuto l’idea di utilizzare la riproduzione per tenere viva la memoria del dipinto. Anche per evitare di far mettere in commercio l’opera senza che nessuno un giorno possa dire di non sapere che è stata trafugata».
Nel corso degli anni ci sono stati dei tentativi di rivendere l’opera agli Uffizi?
«Ci sono stati attraverso intermediari con la richiesta del pagamento di un riscatto. E alla controrichiesta di restituire il quadro, come la legge in Italia imporrebbe, facevano finta di non sentire. In un momento in cui si parla molto di identità dell’Europa, sarebbe importante affrontare il discorso sull’Europa stessa non solo a livello economico, ma anche culturale. Mi sembra importante che i Paesi dell’Europa si aiutino tra di loro a chiudere queste ferite».
Dalla Germania che risposte avete avuto?
«La Germania non ha mai considerato di riconsegnare le opere visto che per loro vige la prescrizione per questo tipo di reati. Ma dopo il caso Gurlitt anche lì qualcosa si è mosso e c’è stata una proposta di legge per abolire la prescrizione, che però per ora non è andata in porto».
La questione è però che in Italia la prescrizione non esiste...
«Si tratta di beni artistici dello Stato italiano, sono inalienabili da un punto di vista giuridico. E la situazione non può cambiare nemmeno dopo tanti anni.
Questo sta alla base di tutti gli Stati che si basano sul diritto romano. Inoltre ci sarebbe da appellarsi anche al diritto morale».
A quanto sono arrivate le richieste di riscatto? Si parla di cifre dai 500.000 ai 2 milioni di euro...
«Ora che la magistratura ha aperto un fascicolo è meglio non parlarne, ma dal 1991 a oggi le cifre cambiano parecchio.
Comunque per farsi un’idea del valore di quest’opera si vada a vedere a quanto vengono venduti i quadri di van Huysum all’asta».
Quante sono le opere trafugate in Italia durante la guerra?
«Sono centinaia. Alcune temo che possano anche essere andate distrutte. Da parte nostra, come Uffizi, il desiderio è quello di poter fare da apripista nella speranza che tutti i Paesi europei si adeguino con una legislazione uguale per tutti».
E agli Uffizi quante ne mancano?
«Decine di opere, tra cui il "Vaso di fiori" è tra i più importanti.
Un’altra che manca è la "Testa di fauno", attribuita a Michelangelo. Fu rubata dal Bargello dai nazisti, ma dell’opera manca ogni traccia».
Cosa si aspetta da questo appello?
«Finora non ne abbiamo mai fatti di pubblici, magari dopo questo, qualcuno che prima sperava di fare velocemente molti soldi, viene stimolato a rivedere la sua posizione sotto un profilo morale.
Quindi la speranza è che sia la famiglia stessa a farsi avanti».
Lei è tedesco, che effetto le fa dover richiedere un quadro proprio alla Germania?
«Il fatto che io sia tedesco e alla guida del primo museo italiano, è la migliore garanzia e dimostrazione che questa richiesta non è motivata da ragioni nazionalistiche o campanilistiche».

Repubblica 2.1.19
Il retroscena
La pista seguita dalla Procura
Una foto e la richiesta di riscatto le ultime tracce del capolavoro
di Laura Montanari


L’ultima prova è una fotografia a colori. Si vede la tela, "Vaso di fiori", in primissimo piano. È datata 2011 e l’ha portata a Firenze un avvocato tedesco fissando il prezzo per il riscatto: 500 mila euro per riavere a Palazzo Pitti l’opera di Jan van Huysum, celebre artista olandese vissuto tra il Sei e il Settecento. Un bello sconto, se si considera che pochi anni prima, un altro avvocato tedesco, emissario di misteriosi "detentori" dell’opera, ne aveva chiesti due milioni e mezzo.
Questa è una storia di guerra e di ferite aperte, di lancette che vanno indietro nella memoria.
Anno 1944. La Wehrmacht sta ripiegando e i soldati nazisti saccheggiano le opere d’arte in un’Italia devastata dalle bombe e dalla fame. A Montagnana, nella campagna fiorentina, villa Bossi Pucci era diventata nel 1943 il rifugio di emergenza per un lotto di opere traslocate dagli Uffizi e da Palazzo Pitti per evitare i bombardamenti.
Dodici soldati al servizio della Kunstchutz, la sezione che avrebbe dovuto tutelare le opere d’arte dall’arrivo degli americani e che invece ne fa razzia, arrivano alla villa. Sono incaricati di trasportare alcune opere a San Leonardo di Passiria, in provincia di Bolzano.
Nel tragitto però i tedeschi rubano ai tedeschi, alcuni soldati all’insaputa dei comandi sottraggono dei dipinti, un bottino di guerra. Un militare da una cassa rimasta aperta ruba il "Vaso di fiori". È una piccola tela di grande valore: per anni si perdono completamente le tracce. Sembra sparita nel nulla.
La cerca anche Rodolfo Siviero, il monument man italiano, l’ex agente segreto del servizio segreto mussoliniano poi passato con i partigiani che per trent’anni nel dopoguerra rintraccia e riporta «a casa», nei musei, svariati dipinti.
Siviero dà la caccia anche alle opere scomparse dalla grande villa di Montagnana e il «Vaso» di Jan von Huysum è per lui quasi un’ossessione. Nel 1962 pensa di aver trovato una pista buona quando recupera a Pasadena, in California, in casa di un ex militare nazista, Johann Meindl, due tavole del Pollaiolo.
Attraverso testimonianze viene a sapere che alcuni dipinti trafugati a villa Bossi Pucci sono nascoste a Monaco a casa di un altro commilitone di Meindl, Hans Lindermayer che lavorava in un negozio di macelleria nella città tedesca. A casa di Hans vengono recuperati un autoritratto di Lorenzo di Credi e il Cristo Deposto del Bronzino. Siviero ritiene che lì si possa trovare anche il "Vaso di fiori": ma sbaglia. Il quadro non c’è.
Ricompare all’improvviso nel 1991, dopo la caduta del muro di Berlino, quando qualcuno contatta l’Alta Pinacoteca di Monaco. Proprio la città indicata da Siviero. La famiglia che tiene in ostaggio l’opera vuole restaurarla per venderla. Hanno già contattato la casa d’asta Sotheby’s. Una restauratrice tedesca avverte la soprintendenza di Firenze: «Il quadro che cercate è qui». La procura apre un’inchiesta i carabinieri indagano.
Il dipinto appartiene all’Italia, alle collezioni di Palazzo Pitti fin dal 1824, quando era stato acquistato dal granduca Leopoldo II. Deve essere restituito. Ma dalla Germania fanno sapere che è passato troppo tempo, il reato è prescritto e per la legge tedesca gli eredi del soldato possono tenere l’opera anche se non possono venderla se non al legittimo proprietario: l’Italia appunto. È quasi un paradosso.
L’inchiesta viene chiusa senza procedere. Passano ancora anni. Gli eredi avanzano le offerte tramite i legali e il ministero le respinge: come può l’Italia ricomprare qualcosa che le appartiene? Nel 2011 i carabinieri del Nucleo tutela del Patrimonio Culturale riprendono le indagini e con una capillare ricerca tra gli archivi e le testimonianze arrivano a sapere il nome del soldato e di alcuni dei suoi nipoti. Ma non rintracciano il "Vaso". Scoprono anche che dopo essersi impossessato del quadro, il soldato lo ha spedito alla sua famiglia, con la posta militare.
La procura di Firenze apre una nuova inchiesta ipotizzando i reati di ricettazione e tentata estorsione. Si attende una rogatoria internazionale e la collaborazione della Germania per risolvere un caso che non è una questione artistica e che non sta più nel perimetro di questo o quel museo. C’entrano gli occhi coi quali leggiamo la Storia. Il rischio è di vedere un’altra volta sparire il «Vaso di fiori» ed è questo il timore del direttore delle Gallerie degli Uffizi, Eike Schmidt, la ragione che lo spinge ad attaccare una riproduzione in bianco e nero con la scritta «rubato» in una sala di Palazzo Pitti. L’unica via per sfuggire al buio è accendere le luci.

Repubblica 2.1.19
Uno sfregio da riparare dopo 75 anni di attesa
di Umberto Gentiloni


Un quadro rubato, trafugato, scomparso per decenni sembra poter dar voce alle ragioni dell’Europa in queste prime ore del nuovo anno.
Uno scherzo del destino, una coincidenza fortuita e irrilevante mentre all’orizzonte si addensano nubi minacciose sul destino del vecchio continente. L’appello lanciato dal direttore degli Uffizi va oltre la tela di Jan van Huysum e la sua possibile restituzione: da una famiglia tedesca alla sala Putti del museo fiorentino, dalla parete di un’abitazione privata fin sotto gli occhi di milioni di turisti, dove oggi è sostituita da un’immagine provvisoria che riproduce il "Vaso di Fiori". Dopo il furto nazista si perdono le tracce del quadro. A partire dall’unificazione tedesca nell’ultimo decennio del Novecento si muovono nell’ombra trattative con richieste economiche per la restituzione, in un lavorio di intermediari e autorità italiane e tedesche cercando una via percorribile, una sorta di cammino verso luoghi abbandonati durante le tempeste della Seconda Guerra Mondiale. Il dipinto era rimasto al suo posto, messo in sicurezza all’alba del confitto in vari spostamenti e peripezie in compagnia di altre opere d’arte, fino al passaggio dei soldati della Wehrmacht. Un furto che sembra uno sfregio, una ferita nel cammino di conquista dell’Europa segnato dalla fortuna aggressiva del terzo Reich. La ritirata da territori conquistati e occupati rappresenta una occasione per violenze, eccidi e furti di oggetti preziosi. Le logiche di guerra non risparmiano persone, luoghi, situazioni: una rapina per irridere e umiliare interlocutori vendicandosi di alleati infedeli. Tutto è in discussione, conteso e contendibile, persino le memorie e le appartenenze scosse dai responsi definitivi dei teatri di guerra. E così le parole del direttore del museo fiorentino vanno dritte al punto, fino a valorizzare il nucleo fondante del processo d’integrazione continentale. Un tedesco che dirige una grande istituzione museale italiana nell’Europa che affonda radici e culture nel lungo dopoguerra che abbiamo alle spalle. Una costruzione comune che si appoggia sulla forza della ragione contro le ragioni della forza, sulla comprensione di un passato comune contro le logiche di nazionalismi vecchi o fintamente rigenerati. Il ritorno di un quadro diventa così un simbolo di riconciliazione, un piccolo grande gesto per costruire ponti e occasioni di dialogo a partire da un itinerario che unisce generazioni di europei. L’arte è un messaggio che non conosce recinti, vive della sua universalità nei luoghi pubblici o privati che la conservano. Può apparire scontato o secondario nel nostro tempo. Il valore del gesto in una positiva provocazione, il richiamo "al dovere morale della restituzione per la Germania" va ben oltre le nature morte di un olio su tela della prima metà del Settecento. Il percorso possibile del "Vaso di Fiori" non è un ritorno indietro, né l’esito contraddittorio di una caccia al tesoro sulle eredità del secondo conflitto mondiale. L’augurio di poterlo ammirare a Firenze nel prossimo futuro appare la conferma vitale di un destino comune.

Repubblica 2.1.19
Sesto San Giovanni
Arriva Casapound l’affronto più duro per l’ex Stalingrado
di Franco Vanni


Un convegno di CasaPound negli spazi del Comune a Sesto San Giovanni. Nella città Medaglia d’oro della Resistenza, ex Stalingrado d’Italia, dal 2017 amministrata per la prima volta da una giunta di centrodestra, rischia di cadere l’ultimo tabù. L’autorizzazione per l’incontro pubblico, in programma per il prossimo 18, è stata data a inizio dicembre.
E da allora l’ex roccaforte operaia a nord di Milano non si dà pace. A chiedere che la sala sia negata è uno schieramento ampio, che va dalla sinistra locale (per una volta unita) al Movimento 5 stelle, fino ad esponenti di quella lista civica moderata che al ballottaggio delle Comunali nel giugno di due anni fa portò alla vittoria Roberto Di Stefano di Forza Italia.
Il Comitato antifascista di Sesto San Giovanni ha lanciato una petizione sulla piattaforma Change.org per chiedere al Comune di fare marcia indietro, sostenendo che CasaPound «lotta contro la libertà e la tolleranza, cioè contro la democrazia». In dieci giorni l’appello, sostenuto dall’Anpi, ha raccolto 2.235 adesioni. Poche, in una città di 81mila abitanti che sull’antifascismo ha costruito per settant’anni la sua identità. Dalla sola Sesto nel 1944 furono deportati verso i lager nazisti 570 cittadini, per lo più operai in sciopero contro il regime. In 233 non fecero ritorno. «Per Sesto il convegno neofascista sarebbe l’ultima e più dolorosa coltellata», dice Pietro Comi, attivo nel Comitato.
Per l’assessore leghista alla Cultura, Alessandra Magro, il problema non esiste: «CasaPound è un partito politico riconosciuto — dice —.
Hanno pagato al Comune quanto dovuto per affittare la sala, e non c’è una ragione giuridicamente valida per impedire loro di riunirsi».
Il 13 dicembre scorso è stato il Movimento 5 stelle a presentare una mozione in Consiglio comunale che impegni le associazioni che chiedono spazi al Comune a professarsi antirazziste, «in armonia con i valori della Costituzione». Oltre al centrosinistra, ha aderito l’ex candidato sindaco "moderato e apolitico" Gianpaolo Caponi che con il suo 26 per cento al primo turno appoggiò poi al ballottaggio Di Stefano. Ma non basta. Caponi, non in linea con l’amministrazione, non è più nemmeno in Consiglio. E i suoi ex sostenitori sono passati nei gruppi consiliari del centrodestra. Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia hanno bocciato la mozione. «Da qui al 18 organizzeremo presìdi, volantinaggi e convegni — dice Comi —. Le istituzioni devono capire la gravità di quello che potrebbe succedere. Per Sesto la ferita sarebbe troppo grande».

La Stampa 2.1.19
Riconosciuto il “terzo genere” oltre a femmina e maschio
di Walter Rauhe


Nel lungo cammino a favore del riconoscimento dei diritti civili e di genere in Europa, sono due governi mitteleuropei a dare il buon esempio. Quello di grande coalizione fra cristiano-democratici e socialdemocratici in Germania e quello fra conservatori e populisti di destra in Austria, che hanno reso possibile l’entrata in vigore nel nuovo anno del riconoscimento rispettivamente del cosiddetto terzo sesso e del matrimonio fra coppie dello stesso sesso.
A partire da ieri in Germania è così possibile registrarsi all’anagrafe non solo più solo com «maschio» o come «femmina» ma anche come «altro». Come persona cioè che non si riconosce nei due sessi prestabiliti finora, bensì in un terzo sesso di genere «diverso». Questo potrà d’ora in poi venir registrato all’anagrafe e inserito nei propri documenti d’identità. Per ottenere la registrazione come «altro» è necessario presentare un semplice certificato medico che attesti la condivisione di intersessualità oppure una dichiarazione giurata emessa dallo stesso interessato. La legge era stata approvata a dicembre dal Bundestag, la Camera bassa del parlamento tedesco con i voti della maggioranza di governo e di gran parte di quelli dei partiti all’opposizione in seguito ad una sentenza della Corte costituzionale.
Introdotte le nozze gay in Austria
Con l’avvio del nuovo anno in Austria è invece entrata in vigore la legge sul diritto all’unione matrimoniale fra coppie omosessuali. I partiti della maggioranza di centro destra composta dai Popolari austriaci della Övp e dall’estrema destra populista dei «Freiheitlichen» della Fpö si erano sempre opposti in passato ai matrimoni fra coppie dello stesso sesso ma hanno ugualmente deciso non solo di rispettare ma anche di trasformare in legge la sentenza della Corte costituzionale a favore delle nozze gay. Con lo scoccare del nuovo anno, poco dopo la mezzanotte di ieri sono state due donne a sposarsi per la prima volta col rito civile ufficiale in Austria. Il comune di Velden am Wörther See, un piccolo centro nella regione altrimenti ultra conservatrice della Carinzia, ha aperto appositamente i sui uffici per rendere possibile la cerimonia. Un gesto di tolleranza e di civiltà politica oltre che di rispetto dello stato di diritto di cui hanno usufruito per prime Nicole Kopaunik e Daniela Paier, due donne di 37 anni: la stessa coppia che si era rivolta con successo ai giudici dell’Alta corte per rivendicare il diritto al matrimonio. Finora in Austria le coppie dello stesso sesso avevano solo la possibilità di stipulare nei comuni di residenza contratti di unione che non riconoscevano gli stessi diritti garantiti alle coppie eterosessuali.

Repubblica 2.1.19
Così il Vaticano fermò i vescovi Usa sulle nuove norme anti abusi
I presuli americani pronti ad approvarle già a novembre. Ma una lettera del cardinale Ouellet li dissuase
di Paolo Rodari


Città del Vaticano Il Vaticano ha bloccato i vescovi statunitensi mentre erano in procinto di adottare nuove misure per affrontare lo scandalo degli abusi sessuali del clero. In una lettera il cui contenuto è stato rivelato ieri dall’Associated Press, infatti, è direttamente il cardinale Marc Ouellet, prefetto dei Vescovi, a chiedere lo stop ai presuli riuniti lo scorso novembre in assemblea generale perché, a suo dire, non avrebbero sufficientemente consultato la Santa Sede in merito alle nuove proposte.
La lettera è datata 11 novembre 2018. Ouellet scrive ai vescovi riuniti a Baltimora dal 12 al 14 dello stesso mese mentre diverse vittime di abusi chiedono, in seguito alle rivelazione del dossier Pennsylvania, interventi decisi contro gli insabbiamenti. Scrive Ouellet: « Considerando la natura e la portata dei documenti proposti dalla conferenza, credo sarebbe stato utile avere più tempo per consultarsi con questa e altre congregazioni competenti per il ministero e la disciplina dei vescovi » . L’obiettivo principale della riunione autunnale dei vescovi era di approvare un codice di condotta per i vescovi e creare una commissione guidata da laici incaricata di accogliere le denunce di abusi sessuali contro gli stessi presuli. Ma a causa dell’intervento di Ouellet l’obiettivo è stato mancato.
Tutto ciò è accaduto in un momento molto delicato per la vita della Chiesa americana. Diversi Stati statunitensi, infatti, supportati dalle rispettive diocesi, si apprestano a investigare sugli abusi del passato. Dal Missouri a New York, dal New Jersey al New Mexico, dall’Illinois al Nebraska, dal Wyoming alla California, gli avvocati dei rispettivi Stati sono pronti a chiedere l’apertura di indagini su abusi sessuali commessi da preti su minori. In sostanza, quanto accaduto in Pennsylvania (300 sacerdoti accusati di abusi su oltre mille minori) potrebbe decuplicarsi. Non a caso Thomas Plante, ex consigliere della Conferenza episcopale, ha dichiarato recentemente: «Questo è il #MeToo della Chiesa cattolica».

il manifesto 2.1.19
L’ultimo strappo contro il parlamento ma quella strada era stata già aperta
Governo/Parlamento. Ai nuovi partigiani della Costituzione domandiamo di fare i conti con la propria esperienza, poiché è dal disinvolto comportamento da loro tenuto in passato che si legittimano i peggiori strappi di oggi. La nuova maggioranza, invece, abbia almeno il pudore di confessare di aver abbandonato gli ideali che li aveva spinti a sostenere la lotta per la Costituzione
di Gaetano Azzariti


Fa piacere vedere la maggioranza di ieri, passata all’opposizione, riscoprire il valore della Costituzione. Lo diciamo senza ironia, sperando che non sia solo una ragione tattica, ma l’inizio di un nuovo corso.
Così come – con altrettanto candore d’animo – non riusciamo a trattenere un moto di sconforto quando assistiamo alle giravolte di chi abbiamo avuto sino a ieri al nostro fianco per difendere la Costituzione aggredita in modo selvaggio dai governanti ora sconfitti.
In ogni caso, per non passare troppo da ingenui, chiediamo coerenza ad entrambi. Ai nuovi partigiani della Costituzione domandiamo di fare i conti con la propria esperienza, poiché è dal disinvolto comportamento da loro tenuto in passato che si legittimano i peggiori strappi di oggi. La nuova maggioranza, invece, abbia almeno il pudore di confessare di aver abbandonato gli ideali che li aveva spinti a sostenere la lotta per la Costituzione.
UN’OPERAZIONE di pulizia intellettuale (di «onestà» si sarebbe urlato nelle piazze di ieri) necessaria per poter dare credibilità alle attuali proposte. Ciò richiede una chiara discontinuità e una sincera autocritica. La nuova opposizione anziché rivendicare i successi dei propri Governi e delle azioni sin qui compiute reclami la necessità di una svolta. Se si vuole dare fondamento alla denuncia delle enormità delle violazioni compiute nella vergognosa ultima vicenda della legge di bilancio, si rimetta in discussione una prassi pluriennale che ha teso ad emarginare il Parlamento da tutte le principali scelte politiche nazionali, concentrando i poteri nelle mani degli esecutivi. Così hanno fatto tutti i governi negli ultimi venticinque anni. Si riscopra finalmente la necessità dell’equilibrio tra i poteri, che rappresenta una forza della democrazia, non un suo limite.
IN QUESTI giorni si è giunti ad umiliare il Parlamento e a stravolgere la procedura di approvazione delle leggi, le commissioni parlamentari sono state rese impotenti, messi a tacere i parlamentari, cancellata la discussione, imposta l’approvazione su un testo che non è stato possibile conoscere e il cui contenuto è stato deciso dal governo, contrattato riservatamente ed esclusivamente con i responsabili dell’Unione europea. La democrazia «parlamentare» è stata sospesa.
Se questo è ciò che è avvenuto, come ora in molti riconoscono, non ci si può sottrarre alla domanda di fondo, che tutte le altre ricomprende: come è potuto succedere?
NESSUNO credo possa ritenere che sia solo la conseguenza estemporanea di una maggioranza scellerata ed impazzita. L’imperizia e la malizia dell’attuale maggioranza avrà avuto pure il suo peso, ma chiunque abbia un minimo di senso della storia e un briciolo di onestà intellettuale dovrà riconoscere che si tratta del frutto maturo di un lungo regresso. Basta, d’altronde, guardare al più recente passato per individuare il percorso che, passo dopo passo, ha aperto la strada all’ultimo, insopportabile, esito.
DOPO AVER CAMBIATO i regolamenti parlamentari per permettere di accelerare i lavori di approvazione delle leggi, contingentato i tempi a disposizione dei gruppi, aver negato spazi certi e definiti alle commissioni nello svolgimento delle proprie funzioni istruttorie, avere consentito il passaggio diretto in aula, avere ostacolato la presentazione degli emendamenti da parte dei parlamentari, avere ammesso che i governi di turno potessero presentare maxiemendamenti che determinavano lo stravolgimento del testo, aver acconsentito che anche in questi casi i governi potessero porre la questione di fiducia, avere interpretato i regolamenti nel modo più restrittivo possibile per le libertà parlamentari (dando forma a figure mostruose e sconosciute al nostro diritto parlamentare: dai canguri alle ghigliottine), avere sostituito in commissione i parlamentari dissidenti in sfregio del libero mandato, dopo tutto ciò ora s’è fatto un altro passo nella stessa direzione.
È QUEST’INSIEME che ha sospinto sempre più ai margini il parlamento e posto sotto stress la democrazia pluralista. Su queste pagine lo abbiamo costantemente denunciato, non molti altri possono dire altrettanto. Ma non importa, se qualcuno si è reso conto di essere andato troppo avanti ne siamo felici. Meglio tardi che mai.
È questo l’indirizzo di politica costituzionale che ha tenuto unite le passate maggioranze ed ha permesso l’ultimo misfatto. Uno strappo ulteriore, non c’è dubbio. Più grave, senz’altro. In quest’ultima occasione si è squarciato il velo e neppure una parvenza di discussione si è potuta svolgere dinanzi alle camere. Se, toccato il fondo, si vuole veramente risalire la china non basta una manifestazione di piazza, non basta neppure un ricorso azzardato alla Consulta o una richiesta avventata al Capo dello Stato.
Quello di cui abbiamo realmente bisogno è che un nuovo ciclo abbia inizio, dopo venticinque anni di disinvolture costituzionali. Potrebbe anche essere che in tal modo la sinistra riesca a ritrovare la sua via maestra. Spes contra spem.

Il Fatto 2.1.19
Migranti sulle navi da 11 giorni: allarme di Sea Watch e appelli


È “un’odissea di Capodanno” quella dei 49 migranti soccorsi al largo della Libia da due navi di Ong tedesche, si moltiplicano gli appelli dall’Unhcr al mondo del volontariato ma nessuno offre un porto per farli sbarcare neppure dopo che dalla Germania è aggiunta la disponibilità ad accogliere almeno una parte dei naufraghi. Ci sono donne e bambini anche piccoli tra i 32 recuperati il 22 dicembre dalla SeaWatch, che dunque sono in mare da 11 giorni e i 17 caricati poco dopo dalla Sea Eye. L’imminente peggioramento delle condizioni meteo e del mare aumenta i timori per le due Ong e le navi di soccorso hanno navigato verso nord, giungendo in acque maltesi. “Mare mosso, da undici giorni senza un porto, l’odissea di Capodanno delle Ong”, scrive su twitter SeaWatch. “La legge del mare dice chiaramente che il tempo che le persone devono trascorrere in mare, dopo essere state tratte in salvo da una situazione di stress, deve essere ridotto al minimo”, sottolinea Jan Ribbeck, capo missione sulla nave di SeaEye. E oltre a Malta e Italia denuncia il governo tedesco per averli invitati a consegnare i migranti ai libici, che sarebbe stata, rileva Ribbeck, una “violazione delle leggi internazionali”.

Corriere 2.1.18
Ancora in mare 49 migranti: «È l’odissea di Capodanno»
Dodicesimo giorno senza porto per due navi delle ong tedesche. I medici: sta finendo l’acqua potabile
di Marta Serafini

«Aiutateci a trovare una soluzione». Fatica a restare in piedi sul ponte Rob, soccorritore di SeaWatch 3, mentre lancia via Twitter l’ennesimo appello.
Non accenna a finire l’«odissea di Capodanno delle Ong», come è stata definita dagli stessi soccorritori. Dodici giorni in mare senza un porto sicuro, 32 migranti a bordo, tra cui 3 minori non accompagnati, 2 bambini piccoli e un neonato, per la maggior parte dalla Costa d’Avorio e dal Congo, soccorsi al largo della Libia il 22 dicembre. A questi si vanno aggiungere i 17 salvati dalla Professor Albrecht Penck, nave della Sea Eye, altra Ong tedesca in navigazione nel Mediterraneo.
A preoccupare sono soprattutto le condizioni dei migranti. «Non siamo attrezzati per una permanenza a bordo così prolungata. Temiamo il diffondersi di malattie», era l’allerta lanciata ieri mattina dal personale medico della Sea Watch. Dal capo della missione, Philipp Han, arrivano anche parole di ansia per le riserve di acqua potabile «che potrebbe finire a breve». Inoltre complicano il quadro il mare mosso, le temperature rigide e un nuovo peggioramento delle condizioni meteo previsto da oggi pomeriggio.
Nel frattempo si spera in una soluzione politica. Lunedì l’Unhcr ha sollecitato una rapida soluzione alla crisi. «È necessaria una leadership decisa, in linea con i valori fondamentali di umanità e compassione, per offrire condizioni sicure di sbarco e portare a terra i 49 in sicurezza», ha dichiarato Vincent Cochetel, inviato speciale dell’Alto commissariato per il Mediterraneo centrale. Nel frattempo Sea Watch ha pubblicato un elenco dei Paesi e delle istituzioni «che hanno negato aiuto: Malta, Italia, Spagna, Paesi Bassi, Germania, Ue».
Richieste finora cadute nel vuoto. A parte «tre città federali, tra cui Berlino, Amburgo e Brema, che hanno già accettato di accogliere le persone soccorse, mentre il ministero dell’Interno tedesco si è dichiarato disponibile a cercare una soluzione nell’ambito di un approccio comunitario», aggiunge l’Ong. SeaEye spiega d’altro canto che i propri volontari si sono «opposti alla consegna delle persone soccorse alla Guardia costiera libica» perché avrebbe rappresentato una «violazione delle leggi internazionali».
L’opzione più logica — secondo i soccorritori — sarebbe ora lo sbarco a Malta «con un accordo finalizzato a ridistribuire le persone all’interno di una soluzione europea», come già avvenuto in passato. Ma fino a ieri dalle cancellerie europee nessun segnale. E intanto dai ponti delle due navi si scorge la costa de La Valletta all’orizzonte.

Il Fatto 2.1.19
Anche bambini tra i 50 in mare: nessun porto apre

Non c’è pace, né porto, per una cinquantina di migranti da giorni in mare a bordo di due navi di Ong tedesche: la Sea Watch – al largo da 9 giorni dopo aver recuperato vicino alle coste libiche 32 naufraghi (tra cui 4 donne, 4 minori non accompagnati e 3 bambini) lo scorso 22 dicembre – e la Sea Eye, che da ieri ha caricato a bordo 17 migranti. Dalle due organizzazioni è partito un nuovo appello alla Germania, finora inascoltato; intanto, un pattugliatore delle forze armate di Malta traeva in salvo 69 migranti alla deriva su un barcone, ai quali è stato concesso di sbarcare sull’isola. Mentre la prima Ong pubblicava l’elenco dei Paesi e delle istituzioni che avrebbero “negato aiuto: Malta, Italia, Spagna, Paesi Bassi, Germania, Ue”, la seconda twittava: “Abbiamo soccorso diciassette persone provenienti da sette diverse nazioni africane. Per loro chiediamo un porto sicuro dove poter sbarcare”. L’Unhcr e Save The Children lanciano appelli affinché si conceda alle due imbarcazioni un porto sicuro, e con urgenza, considerato anche l’abbassamento delle temperature. Igor Boni di Radicali Italiani ha scritto al presidente del Consiglio Giuseppe Conte e ai vicepremier Matteo Salvini e Danilo Toninelli.

il manifesto 2.1.19
Anno nuovo, confini vecchi
Migranti/Salvini. Lo ripetiamo ancora una volta: come nella poesia di Brecht prima scompaiono quelli più lontani ed apparentemente diversi poi, via via, tutti coloro che vogliono continuare a pensare liberamente
di Raffaele K. Salinari


All’accorato discorso di fine anno di Mattarella, che giustamente ha considerato la sicurezza come capacità di costruire il bene della comunità nazionale a partire dal rispetto delle diversità, ha subito risposto Salvini.
«Abbiamo riconquistato i nostri confini», ha dichiarato, forse avendo in mente la vicenda della nave Sea Watch da dieci giorni in mare con a bordo 32 esseri umani tra cui tre minori non accompagnati un bambino ed un neonato. A questi si sono aggiunte altre 17 persone salvate da un’altra nave che dunque ancora vagano alla ricerca di un porto sicuro nel Mediterraneo. Tra il Natale, la nascita della Speranza che illumina il mondo, e l’epifania, i doni che ad essa sono dedicati, questa vicenda drammaticamente umana attualizza tutta la distanza che c’è tra chi cerca di costruire fattivamente un mondo inclusivo e chi, al contrario, si impegna affinché ciò che separa sia fonte di ispirazione prevalente.
Non a caso Mattarella ha voluto, in uno dei suoi passaggi più significativi, dire una parola chiara sul valore della solidarietà, dal volontariato sociale alle Organizzazioni non governative, quelle che, salvando vite, sono state accusate di essere trafficanti di esseri umani da chi, evidentemente, ha un senso esclusivo ed escludente della comunità umana. Vantarsi delle statistiche sulla diminuzione degli sbarchi, infatti, significa non solo negare alla radice il valore dell’accoglienza, ma costruire una realtà in cui respingere il distante è la precondizione per poi restringere le libertà di tutti, come ben dimostra quella che Mattarella ha giustamente stigmatizzato come la «tassa sulla bontà» per le Onlus, evidenziando, da presidente della Repubblica, e non da ingenuo sprovveduto, quanto i sogni e gli ideali costituiscano l’idea di comunità, l’idea stessa della Repubblica come destino comune.
Tutto infatti si tiene: non a caso in questa Legge di bilancio sono stati diminuiti i fondi sia per la cooperazione allo sviluppo a livello bilaterale, con grave danno anche per le Ong che operano in quelle parti del mondo da cui fuggono i migranti, sia a livello multilaterale, cioè alle Nazioni Unite. Questo significa che l’odissea della Sea Watch, come la fuga in Palestina dalla strage degli innocenti, è solo un tassello di quella oscura costruzione in cui verranno via via spinti coloro che dissentono, che vogliono ancora affermare i valori repubblicani, quelli che, come i bambini dai quali il presidente Mattarella ha ricevuto la cittadinanza onoraria, vogliono costruire Felicizia, dove felicità ed amicizia si incontrano. Lo ripetiamo ancora una volta: come nella poesia di Brecht prima scompaiono quelli più lontani ed apparentemente diversi poi, via via, tutti coloro che vogliono continuare a pensare liberamente.
Il Governo del cambiamento apre dunque l’anno nuovo con politiche non solo vecchie ma estremamente liberticide, dai respingimenti dei profughi alla violazione delle Convenzioni internazionali sull’infanzia, dal rifiuto del Global Compact al taglio tout court dei fondi all Onu. Dalla riduzione dei fondi per la solidarietà internazionale alla tassa su quella nazionale.
La stella che i Re Magi seguirono indicava una speranza, incarnata simbolicamente in un bambino in fuga con la sua famiglia. A questa condizione furono dedicate Saggezza, Forza e Bellezza, i doni dei Magi, affinché la fiamma più grande, quella della Speranza di un destino migliore per tutta l’umanità non si estinguesse.
A ciascuno di noi il dovere di fare la sua parte perché quella stella continui il suo cammino perché quei doni continuino ad avere un valore universale.

Il Fatto 2.1.19
L’Ue alla prova della Romania nei 6 mesi di elezioni e Brexit
Anno nero - Dal 1° gennaio al 30 giugno – tempo cruciale per i 27 – Bucarest assume la rappresentanza di turno. Scettici sia Tajani che Jean-Claude Juncker.
di Giampiero Gramaglia


Un Paese esordiente alla guida dell’Unione europea, in un semestre crocevia di eventi e dossier: Brexit ed elezioni europee, migranti e Unione bancaria. Per Bruxelles, una fonte di preoccupazione in più: in modo piuttosto irrituale, il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker esprime dubbi sulle capacità della Romania di cavarsela; e il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani li avalla. Dal 1° gennaio al 30 giugno, la Romania esercita la presidenza di turno semestrale del Consiglio dei ministri dell’Ue. Dopo il “grande allargamento” del 2004 e 2007, che ha portato nell’Unione 12 nuovi Paesi – la Croazia è poi entrata nel 2013 –, non è certo la prima volta che un Paese esordiente assume la presidenza.
Ma l’inesperta, e in parte inadeguata, presidenza romena cade in un semestre delicatissimo: quello della Brexit il 29 marzo e delle elezioni europee il 26 maggio, oltre che delle grandi manovre per il rinnovo di tutte le Istituzioni comunitarie. E sul Vertice di Sibiu, previsto il 9 maggio, tra la Brexit e il voto, il presidente della Commissione Juncker ha puntato, fin dal discorso sullo stato dell’Unione del 2017, molte attese di rilancio e di rinnovamento. Ma proprio Juncker avanza ora riserve sulla Romania, che non ha la competenza tecnica e neppure l’affidabilità politica; e Tajani rincara: elogi per il presidente romeno Klaus Iohannis, il cui partito è nella famiglia politica europea liberale, ma grosse riserve sul governo, che è nella famiglia politica europea socialista, ma il cui operato desta diffuse perplessità. Bruxelles, ad esempio è molto critica sulla legge che depenalizza la corruzione, al di sotto di una certa soglia; sulle norme, di tipo polacco o ungherese, che rendono il potere giudiziario meno indipendente da quello esecutivo e ledono lo stato di diritto; e sul referendum per inserire in Costituzione il divieto delle unioni gay, già sancito per legge – il quorum non venne poi raggiunto –. In questo contesto, Juncker e Tajani mettono in dubbio la capacità di Bucarest di gestire i dossier dell’Ue. Per i Vertici europei, il problema non si pone: lì, la Romania, che è una repubblica semi-presidenziale, è rappresentata dal presidente Iohannis, di ascendenza tedesca ed europeista. Invece, nei Consigli dei ministri settoriali, può emergere l’impreparazione del governo, la cui premier, Viorica Dancila, è una prestanome manovrata dal leader del partito democratico Liviu Dragnea, condannato per frode elettorale e, quindi, escluso dai pubblici uffici. Dragnea, che ruota di frequente i premier e il suo partito utilizzano toni fortemente nazionalisti, hanno una retorica alla Viktor Orbán, il presidente ungherese teorico della democrazia illiberale, vedono ovunque macchinazioni del filantropo George Soros, rappresentano l’anima autoctona e ortodossa del popolo romeno e hanno una manifesta diffidenza verso la modernità e i valori dell’Occidente. Contro gli oppositori, non esitano a usare maniere forti: lo fecero l’estate scorsa, quando i romeni della diaspora – cioè gli emigrati nell’Ue per trovare un lavoro – si diedero appuntamento a Bucarest per protestare contro le norme sulla corruzione.
Con tutte le contraddizioni dei Paesi del Gruppo di Visegrad, che sono contro la solidarietà e l’integrazione, ma affidano il loro sviluppo ai fondi europei, che sanno ben utilizzare, la Romania, con l’Italia in fondo a molte classifiche Ue, deve dunque pilotare l’Unione in mesi critici e affrontare, nello stesso tempo, una campagna elettorale turbolenta. Sul fronte sociale, sono in dirittura d’arrivo lo stop al dumping dei camionisti dell’Est, la riforma dei congedi parentali e altre misure. Raggiungere intese in extremis è un esercizio delicato e la Romania – dice Juncker – è “tecnicamente ben preparata”, ma “non ha ancora pienamente compreso cosa significhi presiedere una riunione dei Paesi dell’Ue”, perché per gestire negoziati collegiali occorre “la ferma volontà di mettere le proprie preoccupazioni in secondo piano”: non è detto che Bucarest sappia farlo, come è invece riuscito all’Austria del giovane cancelliere Josef Klaus, che pure era guardata con qualche sospetto per la presenza nel governo dei leghisti locali. Vienna ha passato la mano e c’è già chi la rimpiange.

La Stampa 2.1.19
Confini, dazi e diritti
Le insidie nascoste del 2019 di Xi Jinping
di Carlo Pizzati


In questo momento, la Cina è la nazione apparentemente più ricca e stabile del Pianeta. Apparentemente. In realtà, le sfide che incontra in questo 2019 partono dalla crescita economica rallentata, passano per una difficile guerra commerciale con l’America che dura da 100 giorni, arrivano a un rapporto complesso con i vicini asiatici, ma, soprattutto, affrontano un controllo sociale interno senza precedenti che svela il volto corrucciato di un Paese senza flessibilità.
Tutto questo è stato oculatamente evitato nel discorso di Capodanno del leader a vita Xi Jinping. «Il ritmo delle riforme non languirà - ha promesso - anzi, le porte si apriranno sempre più al mondo». Il fact-checking conferma che per gli investitori stranieri l’accesso al mercato resta difficile. Xi ha elencato 100 misure applicate nel 2018, senza mai parlare della guerra commerciale con Trump. L’economia, ha detto, resta dentro un gamma accettabile.
La verità è ben diversa. La Banca Mondiale prevede che quest’anno la crescita cinese rallenterà al 6,2 per cento. Risultato robusto per gli standard mondiali, ma è la più debole espansione dal 1989. Una data questa che risuona nella memoria del mondo intero perché fu l’anno della strage di Tienanmen. Xi Jinping non vuole se ne parli. Ma il mondo e i dissidenti ricordano a Pechino che sul fronte dei diritti si sono fatti pochi progressi. Le proteste di Hong Kong rivelano solo una minima parte del nodo che la Cina deve affrontare.
A marzo si celebrano 30 anni di legge marziale in Tibet, ma anche i 60 anni di esilio del Dalai Lama. E si ricordano i 20 anni di repressione della setta dei Falung Gong, un milione di seguaci scomparsi e «rieducati». Il tutto senza dimenticare il milione e 100 mila uiguri, minoranza musulmana dello Xinjiang che al momento sono in «campi educativi» a cantare canzoni comuniste.
Il 1° ottobre 2019 si celebrano i 70 anni della fondazione della Repubblica Popolare Cinese. Occasione di propaganda e sfilate, certo, ma per alcuni è il momento di ricordare che «la sincerità naive del popolo cinese di quell’epoca è stata tradita», come disse l’astrofisico Fang Lizhi poco prima del massacro di Tienanmen il 4 giugno dell’89.
Anche per questo le misure di sicurezza in Tibet e nello Xinjiang sono aumentate. Anche per questo si sono susseguiti in questi mesi arresti di avvocati, personale delle Ong e militanti per i diritti civili. In questi giorni è finito in carcere l’autore di un romanzo erotico gay; una cerimonia di premi cinematografici è stata oscurata in tv perché un vincitore è a favore dell’indipendenza di Taiwan; e il leader dell’Interpol cinese è in prigione da settembre senza capi d’accusa. Tutto ciò, nel 2019, promette di peggiorare. Il quotidiano nazionale dell’Esercito Popolare di Liberazione lo scrive nell’editoriale di Capodanno: «Rafforzare la preparazione per la guerra sarà una delle priorità del 2019». I militari promettono che la preparazione sarà «in tutte le direzioni». Comprese le minacce interne.
Così la Cina cresciuta sotto la guida di leader focalizzati sull’economia come Jiang Zemin e Hu Jintao, ora ha un leader più simile a Mao. Xi, che nel 2017 appariva come il paladino della globalizzazione, si rivela in una luce diversa. La differenza con altri autocrati contemporanei come Mohammed bin Salman, Recep Erdogan o Rodrigo Duterte è che Xi Jinping è più organizzato e lucido. Dopo pesanti purghe, ha consolidato il controllo personale del politburo, a dicembre ha promosso a generali 38 colonnelli fidati, controlla la Commissione sulla sicurezza nazionale e anche l’apparato burocratico statale. Società civile, media, Internet, religioni e università hanno subito pesanti restrizioni. Il dibattito ideologico viene scoraggiato. I «pensieri» di Xi sono ora incorporati nella Costituzione.
Xi Jinping può continuare a far credere che questo è il prezzo per diventare una superpotenza. Ma gli anniversari di quest’anno offriranno un’occasione particolare. I dissidenti in Cina usano il patriottismo come mantello per nascondere le critiche all’establishment. E così, come accadde a Tienanmen, a Pechino ora si teme che la rabbia antiamericana scaturita dalla guerra commerciale possa all’improvviso rigirarsi contro Xi e il Partito.

La Stampa 2.1.19
“Dal Dragone che cresce sempre meno la maggiore fonte di incertezza globale”
di Francesco Semprini


Sulle sorti economico-finanziarie del Pianeta, nel 2019, pesa più di ogni altra la “variabile Cina” e il suo rallentamento legato all’incapacità di Pechino di invertire le proprie spinte accentratrici». È il monito lanciato da Kenneth Saul Rogoff, guru di Harvard, già capo economista di Fmi e membro del Board della Federal Reserve.
Cosa preoccupa di più la congiuntura globale nel 2019?
«Il primo elemento di incertezza è la Cina, il cui rallentamento è evidente. In caso di una frenata, gli effetti ci saranno soprattutto sui mercati finanziari, le cui difficoltà sono emerse già nel 2018».
È una conseguenza della guerra commerciale scatenata dal presidente Trump?
«La guerra commerciale è un catalizzatore, ma non si può certo identificare come la causa principale del rallentamento cinese. In ogni caso è un elemento che riduce la fiducia degli operatori, specie in un sistema economico di crescita come quello asiatico che si basa soprattutto sulle esportazioni. Se l’Asia sarà costretta a una ristrutturazione in virtù del rallentamento cinese l’economia del continente necessariamente registrerà un rallentamento».
Chi altro ne pagherà le conseguenze?
«Alcune realtà europee come la Germania, mentre l’Italia non sarà penalizzata perché il suo interscambio con Pechino ha una buona tenuta».
Cosa c’è allora dietro il rallentamento cinese?
«L’incapacità di Pechino ci decentralizzare l’economia rispetto a un potere politico sempre più accentratore. Il vero interrogativo è capire quanto durerà il rallentamento».
Ne ha idea?
«L’istinto mi dice che le cose andranno molto peggio prima di migliorare».
Oltre alla Cina si aggiungono altri fattori di incertezza nel 2019?
«Uno riguarda la Federal Reserve e le sue scelte in materia di tassi, il secondo è legato invece alle tensioni geopolitiche globali».
Parliamo della Fed, ritiene che la politica monetaria sia troppo aggressiva?
«Ritengo che, specie nell’ultima riunione del 2018, Jerome Powell e gli altri governatori della Banca centrale Usa non avessero grandi alternative al rialzo dei tassi. Prima di tutto perché dovevano dimostrare la loro indipendenza rispetto ai reiterati attacchi da parte Trump. Avrebbero però potuto modificare il linguaggio utilizzato nel comunicato finale, ribadendo la loro attenzione alle incertezze sulla crescita economica globale. Il loro linguaggio è stato sicuramente quello che ha causato i ribassi sui mercati finanziari».
Anche sulle decisioni della Fed pesano le sorti della Cina?
«Certo. Nel caso una recessione cinese, legata in particolare a un crollo della produttività e a una riduzione del surplus, la conseguenza potrebbe essere quella di un aumento dei tassi di interesse a livello globale piuttosto che una riduzione come invece si verificherebbe nel caso di recessione degli Stati Uniti. Di questo, ancor prima di altri fattori interni, la Fed deve tenere conto».

La Stampa 2.1.19
L’opposizione in frantumi, Netanyahu ora può sorridere
di Giordano Stabile


L’opposizione va in pezzi e Benjamin Netanyahu vede sempre più vicina la possibilità di una vittoria alle elezioni del 9 aprile, e di un quinto mandato da primo ministro che ne farebbe uno dei politici più longevi della storia di Israele. Dopo la rottura con il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, e la nuova richiesta di incriminazione da parte della polizia, il premier conservatore sembrava all’angolo. Ma l’operazione contro i tunnel di Hezbollah nel Nord, e poi la decisione alla vigilia di Natale di andare al voto anticipato, lo hanno rilanciato. Ieri, a dargli una mano, è arrivata anche l’improvvisa rottura fra l’alleanza di centrosinistra, che in teoria doveva costituire il suo principale avversario.
In una conferenza stampa senza preavviso, il leader laburista Avi Gabbay ha deciso di rompere l’Unione sionista, il movimento che vedeva in lui e nell’ex ministro degli Esteri Tzipi Livni i principali esponenti.
Verso il voto
Il motivo della rottura sta nelle ambizioni dei due, che volevano entrambi correre come candidati alla guida del governo. L’Unione sionista aveva ottenuto 24 seggi sui 120 della Knesset alle ultime elezioni ma le rivalità interne l’hanno fatto precipitare nei sondaggi, e oggi otterrebbe soltanto nove deputati. Gabbay, già definito il “Blair israeliano” ma in rapido declino, ha spiegato che «ancora crede nella alleanza» ma «per un’alleanza di successo servono amicizia, tenere fede alla parola data e lealtà». Requisiti che evidentemente non vede in Tzipi Livni.
Con l’Unione sionista in frantumi, Netanyahu non ha in questo momento avversari credibili. Gli ultimi sondaggi assegnano al Likud dai 27 ai 31 seggi, contro i 30 nella Knesset attuale. Per il 37% degli elettori Netanyahu resta il miglior primo ministro possibile, anche se oltre la metà preferirebbe non vederlo ancora al governo. L’unico rivale serio non è un politico ma l’ex capo delle Forze armate, Benny Gantz, che non ha ancora deciso se scendere in campo. Un suo partito prenderebbe 16-17 seggi. Se si alleasse con il partito centrista di Yair Lapid, Yesh Atid, arriverebbe a 26-27 deputati e sarebbe forse in grado di formare una maggioranza alternativa a quella di centrodestra. Per ora Netanyahu si gode il periodo favorevole. Il viaggio in Brasile per l’insediamento del presidente Jair Bolsonaro si è trasformato in una sorta di luna di miele. L’asse con il leader brasiliano, che ha promesso di spostare l’ambasciata a Gerusalemme come già Donald Trump, ha rafforzato il premier.

La Stampa 2.1.19
La ricca Sardegna di 35 secoli fa che ispirò il mito di Atlantide
di Daniela Fuganti


La Sardegna fu, in epoca nuragica, per quasi tutto il secondo millenio, una della grandi protagoniste dell’Occidente mediterraneo. Ma rimane ancora poco studiata e quasi misteriosa. In quei tempi lontanissimi, tra il XVII e il XIII secolo a.C., ai navigatori che provenivano da Oriente alla ricerca dello stagno - del quale l’isola era un crocevia - la Sardegna, così lontana, doveva apparire leggendaria. E l’impatto con questa magnifica terra, costellata da migliaia di torri megalitiche, protetta dai temibili Shardana dagli elmi cornuti e dagli scudi tondi (identici ai bronzetti nuragici), ma popolata anche dai più abili metallurghi del Mediterraneo, doveva essere sconcertante. Era ricca di minerali, di acque, foreste e di ogni ben di Dio, il clima era dolce…
Equivoco nato con Eratostene
«La Sardegna non è Atlantide: è l’isola di Atlante»: è la scritta che si legge entrando nel nuovo museo di Sorgono, paese situato nel cuore della Sardegna, là dove negli anni 80 l’allora sindaco Francesco Manca scopriva una delle più importanti concentrazioni italiane di menhir - quasi duecento - nella campagna di Biru e’ Concas. Il curatore è il giornalista e scrittore Sergio Frau. A chi gli chiede di illustrare la frase, spiega come Atlantide sia nata da un equivoco risalente all’epoca in cui lo scienziato greco Eratostene, dopo le conquiste di Alessandro che nel III secolo a.C. avevano dilatato il mondo, traslocò dal Canale di Sicilia a Gibilterra le Colonne d’Ercole, trasferendo così nell’Oceano Atlantico di oggi i racconti «occidentali» degli autori antichi, da Omero a Platone, rendendoli inverosimili. Fu allora che scomparve davvero l’isola di Atlante. E nacque Atlantide, l’isola delle mille fantasticherie.
Il primo libro di Frau (Le Colonne d’Ercole, un’inchiesta, ed. Nur Neon.o), che dimostrava attraverso un solido e minuzioso studio dei testi antichi come il mare conosciuto e solcato dai primi Greci, dagli Egizi e dai Fenici dovesse avere le sue Colonne d’Ercole nel mare di Sicilia, ha ricevuto il plauso dell’Accademia dei Lincei e di illustri archeologi come Andrea Carandini. La seducente tesi chiarisce in effetti la portata di numerose fonti antiche. Ma ha anche un corollario di grande importanza, che coinvolge il famoso mito platonico dell’Atlantide.
Il filosofo racconta che uscendo dalle Colonne d’Ercole si arrivava alla grandissima isola di Atlante - terra del tramonto, sorella della roccia di Prometeo, il Caucaso dell’alba greca - e che da lì si raggiungevano altre isole, e la terra che tutto quel mare circonda. Il filosofo narra inoltre che quest’isola era stata felice, ricca di metalli e di tutto, fino al giorno in cui venne travolta dai cataclismi marini inviati da Zeus per punire i suoi abitanti. Ossia - nella tesi di Frau - da un megatsunami, compatibile secondo i geologi soltanto con la caduta di un grosso meteorite (ipotesi ancora da dimostrare) nel golfo di Cagliari, che avrebbe sommerso il Campidano nel XII secolo a.C. spingendo i sardi ad abbandonare l’isola.
Cento nuraghi ancora sepolti
Una parte di quei profughi li ritroveremmo in seguito, secondo il giornalista, sulle alture umbre e toscane, agli albori della civiltà etrusca. Lontanissimi dal mare, incontriamo onde, delfini e bronzetti sardi nelle loro tombe.
Al museo di Sorgono numerose immagini fotografate da un drone mostrano più di cento nuraghi ancora sepolti a Nord del golfo di Cagliari: quasi tutti sotterrati quelli situati nel Campidano sotto l’altopiano della Giara di Gesturi, generalmente intatti quelli posizionati più a Nord. Con Omphalos, il suo secondo libro pubblicato dallo stesso editore, Frau ci racconta ancora della centralità dell’isola di Atlante, trasfigurata nei miti di civiltà anche lontane. «Di Atlante al centro del mondo», segnala il giornalista, «parlano Omero, Euripide, Aristotele, Eschilo, Diodoro…». Insieme alle attestazioni degli antichi, Frau conta su un testimone eccellente che proverebbe il primitivo ruolo cosmologico del gigante: è l’Atlante Farnese, copia romana di un bronzo ellenistico: «Sostiene sulle spalle una sfera celeste, frutto di millenni di conoscenze, con i segni zodiacali al posto giusto, intorno a una Terra già sferica chissà da quanto…».

Repubblica 2.1.19
Londra città aperta: Khan sfida Corbyn
di Antonello Guerrera


REGNO UNITO, LONDRA La ruota panoramica London Eye colorata come la bandiera europea, il cerchio blu con le stelline (le cabine) gialle. Una colonna sonora eloquente, «della migliore musica continentale»: Don’t Leave me Alone di David Guetta, Stay di Zedd e All You Need is Love dei Beatles. E poi il mantra della serata, «London is open», «Londra è aperta», recitato in inglese e altre sei lingue: italiano, francese, tedesco, polacco, romeno e spagnolo. Il messaggio non poteva essere più chiaro. Perché nella notte di Capodanno 2019, il sindaco di Londra Sadiq Khan ha convertito i tradizionali fuochi d’artificio sul Tamigi in un maestoso inno alla gioia per restare in Europa.
Una decisione, presa da settimane, che ha ottenuto molte lodi ma anche critiche, soprattutto da parte dei Brexiters. Al parlamentare conservatore Andrew Bridgen proprio non è andato giù lo show europeista: «È davvero misero politicizzare in questo modo un evento internazionale. Abbiamo assistito a un tradimento della democrazia». Ma il sindaco di Londra insiste: «La forza e la bellezza di Londra derivano dalla diversità e dal milione di cittadini europei che ne sono parte integrante. Spero proprio che i parlamentari lì, dall’altra parte del fiume, a Westminster (che per l’occasione ha riesumato anche il Big Ben, in ristrutturazione, ndr), si rendano conto di quanto poco rispetto abbiano sinora mostrato verso gli europei. Noi siamo una città europea e continueremo a essere quello che siamo sempre stati, qualsiasi cosa accada. Gli europei qui saranno sempre i benvenuti». Sulla Brexit, da tempo Khan sta sfidando Downing Street ma anche il suo stesso partito, visto che il leader laburista Jeremy Corbyn, già ambiguo sul tema, ha detto di recente che l’uscita del Regno Unito dall’Ue è oramai inevitabile. Il sindaco non ci sta e pretende un secondo referendum, ipotesi cassata dalla premier May e molto remota anche per Corbyn, che sinora ha sempre ignorato Khan. Ma lo scontro vero tra le due colonne del Labour è destinato ad arrivare molto presto.

Corriere 2.1.19
La nuova via della seta, un’occasione per venezia
di Antonio Armellini


Annunciando nel settembre 2013 la Nuova Via della Seta verso Occidente, il presidente Xi Jinping ne ha tracciato un percorso ideale che, partendo da Pechino, giunge sino a Venezia. L’indicazione non è stata casuale, né tantomeno frutto di suggestioni estetiche. Il personaggio di Marco Polo ha un ruolo fondamentale (ben più che da noi) nell’immaginario cinese: dichiarando di voler ripercorrere a ritroso il cammino da lui fatto più di ottocento anni fa, Xi ha inteso ribadire la determinazione della Cina di affermare un ruolo di grande potenza, e di mercato imprescindibile, al cuore della ritrovata centralità geopolitica dell’Asia. Un messaggio che Marco Polo e Venezia dovevano rendere chiaro.
La Nuova Via della Seta, dapprima marittima dall’Oceano Indiano verso il Mediterraneo, si è rapidamente ampliata in altre direzioni, passando dall’hinterland caucasico verso l’Europa centro-settentrionale, dirigendosi verso l’Africa e da ultima anche l’America Latina. Da una, le Vie sono diventate tante e hanno preso il nuovo nome di Obor («One Road One Belt Initiative»), ma la destinazione è rimasta la stessa. Spinti dalla generosità finanziaria apparentemente illimitata di Pechino, molti paesi si sono lasciati attrarre da faraonici progetti di investimento che rispondevano ai piani cinesi ben più che alle loro priorità di sviluppo e che in più occasioni — dallo Sri Lanka al Pakistan — li hanno portati sull’orlo della bancarotta. Sono in parallelo cresciute le preoccupazioni di europei e americani che, sotto il mantello della cooperazione, Pechino nascondesse un disegno egemonico pericoloso, rispetto al quale era necessario fare molta attenzione nel valutare costi e benefici reciproci. Tutto ciò ha indotto prudenza e qualche pausa di riflessione in più, ma non ha arrestato il cammino di Obor che ha continuato ad andare avanti nella sua strada.
La Via della Seta si presenta oggi come un sistema complesso ancora in evoluzione: fra i tanti, al momento attuale i punti d’arrivo marittimi vanno, nel Mediterraneo, dal Pireo a Marsiglia e ai porti italiani di Savona e Trieste; nel Mare del Nord, da Rotterdam ad Amburgo, mentre Francoforte dovrebbe essere il terminale terrestre da Est. Per ciascuno di essi si porranno delle esigenze diverse che richiederanno una disciplina specifica, ma per le sue dimensioni, le ramificazioni internazionali e le implicazioni politiche Obor nel suo complesso non potrà prescindere in Europa da uno strumento unitario per la gestione coordinata degli aspetti logistici, amministrativi e delle strategie commerciali. Lo pensano i cinesi e a maggior ragione dovremmo volerlo noi, specie alla luce dell’esigenza di correlarne il funzionamento a una visione coerente dei nostri interessi.
Partita aperta
All’interesse di Xi non ha fatto seguito una risposta immediata e ora altri cercano di approfittarne
C’è folla di candidati per un simile compito. Dal Pireo — ormai a tutti gli effetti un porto cinese — a Rotterdam, Amburgo e Francoforte. Xi però ha parlato di Venezia e non di altro. Il forte valore simbolico del richiamo al personaggio di Marco Polo gli dà l’occasione di porsi come elemento di continuità fra tradizione classica e innovazione, nella rivendicazione di un ruolo di leader incontrastato in grado di guidare la Cina sulle ali della storia verso la sua nuova dimensione globale. Vi sono molte città europee — o italiane — più strutturate e competitive di Venezia, ma essa è la sola in grado di consentirgli una consacrazione cui mostra di tenere personalmente.
Non possiamo lasciar cadere l’occasione. Per l’Italia, si tratterebbe di recuperare centralità non solo nei confronti della Cina — dove ci siamo trovati spesso più a rincorrere che a fare da guida — ma soprattutto in relazione a uno sviluppo chiave per il futuro delle relazioni con l’Asia. Quanto a Venezia, si lamenta sempre il degrado dovuto a una monocultura turistica devastante. Eppure resta un punto di contatto privilegiato verso Oriente. Farne il riferimento politico, amministrativo e commerciale del sistema Obor vorrebbe dire restituirla al suo ruolo storico, sviluppando al tempo stesso la sua vera via di salvezza, di centro di servizi avanzati con forte caratura internazionale. Oltretutto, Venezia non sarebbe per le sue caratteristiche in concorrenza con altre scelte, ma rappresenterebbe un valore aggiunto utile a tutti.
Nella mappa che accompagnava la prima presentazione del progetto, Venezia appariva con chiara evidenza. Si sarebbe pensato che la risposta sarebbe stata immediata a livello di governo e invece non è successo granché, a parte qualche occasionale accenno, mentre Venezia non ha perso l’occasione di confermare la sua albagia. La destinazione è stata sommersa nelle mappe successive da altre, sempre nuove, ma non è ancora troppo tardi per recuperare. Per quanto altri si stiano muovendo aggressivamente, il vantaggio della Serenissima resta incolmabile. A condizione, s’intende, di volerlo cogliere .

Repubblica 2.1.19
Brasile
Le voci dell’opposizione
Il popolo di Lula fugge dalla festa "Sarà una svolta barbara e crudele"
La casalinga, il portiere, la professoressa. Lontani da piazze e tv, temono per il futuro. "Il Pt ci ha strappato alla povertà"
di Mariana Branco


Brasilia Mentre i sostenitori di Jair Bolsonaro sono arrivati anche da molto lontano per assicurarsi un posto alla sua cerimonia d’insediamento , gli elettori di sinistra e i sostenitori dell’ex presidente Lula da Silva hanno cercato di tenersi quanto più possibile lontani dal centro di Brasilia. Critici delle misure di sicurezza senza precedenti volute da Bolsonaro — che prevedono tra l’altro l’impiego di cecchini e missili antiaereo — hanno scelto di trascorrere il Capodanno con le famiglie o in vacanza.
Alle elezioni del 2018 Deusdália Xavier, casalinga di 36 anni, aveva votato per Fernando Haddad, il candidato di Lula arrestato in aprile per scontare una condanna di 12 anni per corruzione. La sua famiglia, dice, ha sempre votato per il Partito dei Lavoratori ( Pt) dell’ex presidente. «C’è vita prima e dopo del Pt. Soprattutto per i poveri » . Deusdália e la sua famiglia attribuiscono il peggioramento della loro situazione economica alla politica di Lula nei confronti delle persone meno fortunate. «Siamo arrivati da Bahia nel 1991 per sfuggire alla povertà. La casa di mio padre era una topaia e lui lavorava come uno schiavo. Faceva il muratore e noi lo vedevamo solo nei fine settimana. Mangiavamo carne una volta ogni 15 giorni » , ricorda la donna. Adesso, aggiunge, i suoi genitori hanno una casa più confortevole e possiedono due automobili.
Deusdália abita con il marito e il figlio a circa 25 chilometri dal centro di Brasilia. Durante la cerimonia di insediamento di Bolsonaro resteranno tutti a casa dei suoi genitori, dove pranzeranno e si godranno il giorno di festa. « Forse » , dice la donna, accenderanno il televisore per assistere alla cerimonia. « Pregherò per Bolsonaro. Spero che dimostri buon senso e veda la cose dal punto di vista dei poveri».
José Heleno da Conceição, un usciere di 47 anni, dichiara invece che non accenderà il televisore. Se ne starà a casa e farà una grigliata con la moglie, i due figli e la suocera. Fervente ammiratore di Lula, che considera "il presidente dei poveri", José Heleno ritiene che i brasiliani che hanno beneficiato delle politiche di Lula e hanno dato il proprio voto a Bolsonaro abbiano « morso la mano che li sfamava » , ed è anche critico delle imponenti misure di sicurezza messe in atto per l’insediamento. « È una beffa. Credete che sprecherò il mio tempo a guardarla? La gente si è fatta illudere da questo Bolsonaro. Non sarà un buon presidente. È stato eletto per migliorare l’economia e creare posti di lavoro, ma non fa altro che parlare di armi». José Heleno vive a Santo Antônio do Descoberto, un comune a 55 chilometri da Brasilia.
Marcia Marques, una professoressa universitaria di 61 anni che risiede nel centro di Brasilia, è attualmente ospite di amici a João Pessoa, cittadina costiera del Nord-est del Paese. Si è allontanata di proposito per sfuggire ai preparativi per l’insediamento. «Sono arrivata qui per non dover vedere nulla. Le elezioni sono state una truffa, a causa della profusione di fake news. Ho appena scritto un articolo al riguardo. Lula è un prigioniero politico, e non so cosa ne sarà di lui. Mi addolora vedere un progetto come il suo distrutto in modo così barbaro e crudele, soprattutto per quanto riguarda l’istruzione».
I principali partiti di sinistra del Paese hanno deciso di non presenziare alla cerimonia di insediamento di Jair Bolsonaro: oltre al Pt di Lula, anche il Partito comunista del Brasile ( PCdoB) e il Partito Socialismo e Libertà ( Psol) hanno annunciato infatti che non prenderanno parte all’evento. Dallo scorso 31 dicembre un gruppo di sostenitori di Lula sta tenendo una veglia in suo onore nei pressi del quartier generale della Polizia federale di Curitiba, nel Sud del Paese, dove l’ex presidente sta sc

Repubblica 2.1.19
Brasile
Donne, neri, gay e indigeni bersagli dell’odio vincente
di Monica Benicio


Il Brasile inaugura una stagione politica mai vissuta prima nella sua storia. Il nostro è un Paese segnato dalle disuguaglianze sociali, razziali e di genere. È uno Stato che ha subito un colpo di Stato militare durato 21 anni, dal 1964 al 1985, e un colpo di Stato politico nel 2016 con l’ascesa al governo di Michel Temer che, succedendo alla presidente Dilma Rousseff, ha dato il via al mandato di Jair Bolsonaro.
Le posizioni del nuovo governo — seppure arrivato al governo con un’elezione democratica e non con un colpo di Stato militare come nel 1964 — sono un affronto ai principi di uno Stato democratico. Le disuguaglianze sociali in Brasile sono la conseguenza del processo di esclusione degli schiavi e delle schiave di colore nel periodo coloniale, 318 anni di schiavitù durante i quali le donne nere e indigene sono state regolarmente vittime di violenze e stupri. Il genocidio della popolazione indigena è conseguenza delle dispute per la terra cominciate con la scoperta del Brasile e la colonizzazione europea, e mai cessate. Si stima che gli indigeni fossero 5 milioni nel 1500. Oggi la loro popolazione sparsa tra centri urbani e zone rurali, si aggira tra gli 800mila e i 900mila individui.
Più di 250 gruppi etnici vivono sotto perenne minaccia e in situazioni di vulnerabilità sociale.
Le donne, che sono la maggioranza della popolazione brasiliana, lo sono anche nelle università. Le loro giornate lavorative sono triplicate — tra mansioni domestiche e lavoro all’esterno, ma nonostante questo stanno facendo nascere nuovi modelli di famiglia e si battono per l’esercizio dei loro diritti di cittadine.
Parallelamente al processo di emancipazione femminile, il tasso di femminicidi è cresciuto nel Paese a un ritmo spaventoso. Per contrastarlo lo Stato fa poco, al punto che il Brasile è diventato il quinto paese al mondo per numero di donne uccise. Non è possibile quantificare ufficialmente il numero di omosessuali, bisessuali o transgender, persone Lgbti, che hanno un lavoro, sono impegnati nelle università o nelle scuole, possiedono proprietà. Né esistono statistiche su quante di queste persone siano vittime di violenza.
In assenza di politiche pubbliche statali, sono le organizzazioni non governative a farsi carico della rappresentanza di questa parte della popolazione nel momento in cui rimane vittima di atti di intolleranza. Il Brasile è il Paese in cui vengono uccise più persone Lgbti nel mondo. Due eventi di barbarie hanno segnato una violazione della democrazia in questo periodo. Il primo è stata l’esecuzione di matrice politica della consigliera Marielle Franco, il 14 marzo 2018. Eletta con più di 45 mila voti nello stato di Rio, Franco era nera, lesbica, abitante di una favela e socialista. Sono passati quasi 300 giorni dalla sua uccisione e le autorità non hanno ancora individuato né mandanti né esecutori. L’altro evento immediatamente successivo è stata l’incarcerazione, anche questa di matrice politica, del presidente Lula (Partito dei lavoratori, Pt) senza prove e in maniera discriminatoria. Lula è ancora in carcere senza che si conosca alcuna scadenza per un processo coerente con le normative giudiziarie brasiliane.
Siamo di fronte a violenze che il governo rende volutamente invisibili. Durante i governi del Pt, erano state attuate politiche di azioni positive in parte mirate a questi gruppi sociali storicamente subalterni. Di tali politiche, che hanno avuto ricadute positive su tutti in generale, dobbiamo ringraziare le lotte dei movimenti sociali. L’elezione di Bolsonaro è invece il risultato di rancori contro il Pt e contro Lula, dell’apologia dell’odio contro le donne, i neri, gli indigeni e gli Lgbti. Si sta configurando così uno scenario d’insicurezza politica ed economica che poggia su un conservatorismo morale e religioso e su discorsi discriminanti di chi sta in cima alla piramide della disuguaglianza sociale brasiliana.
Noi attivisti per i diritti umani abbiamo una sola opzione: resistere, continuare a vivere e mantenere attivi i nostri diritti in modo da poter occupare tutti gli spazi. Il nostro compito è riscoprire e ravvivare la speranza per un Paese giusto, diversificato e amante della libertà e seppellire una volta per tutte il fascismo che sta iniziando.
- Traduzione di Marina Parada
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Un successo politico nato sull’intolleranza: è l’allarme lanciato dalla compagna di Marielle Franco, attivista Lgbt uccisa l’anno scorso
L’opposizione messa a tacere
Un murale che raffigura Marielle Franco, consigliera comunale e attivista Lgbt, uccisa il 14 marzo 2018 a Rio de Janeiro. L’omicidio rimane ad oggi irrisolto. In alto, Monica Benicio, attivista, vedova di Marielle e autrice dell’articolontando la sua pena.
Traduzione di Marzia Porta

Corriere 2.1.19
Rinascita
Terminato lo straordinario lavoro di recupero degli affreschi danneggiati. Previste visite guidate ogni giovedì
A Pompei riapre la Schola
Dopo il crollo del 2010 da domani il pubblico rientrerà nella sede dei gladiatori
di Gian Antonio Stella


«Al posto di questa sorta di club dove si custodivano le armi dei gladiatori — scrisse traumatizzato Gimmo Cuomo sul «Corriere del Mezzogiorno» — c’è ora solo un ammasso di macerie che evoca le immagini di un sisma, di un bombardamento, dell’abbattimento con le ruspe di un manufatto abusivo o un villino palestinese nella Striscia di Gaza».
E così appariva davvero, dopo il collasso del novembre 2010, la Schola Armaturarum di Pompei: il simbolo d’una sconfitta storica. La metafora, denunciarono i giornali stranieri a cominciare dal «New York Times», dell’incapacità del nostro Paese di custodire con cura e amore i tesori ricevuti dal passato. Non mancarono le citazioni di Alphonse de Sade: «Ma in quali mani si trova, gran Dio! Perché mai il Cielo invia tali ricchezze a gente così poco in grado di apprezzarle? Che cosa direbbero questi maestri, questi amatori delle arti belle, se bucando lo spessore delle lave che li hanno inghiottiti potessero tornare alla luce e vedere i loro capolavori affidati a mani così…».
E ci fu chi, come Jennifer Kester su «Traveller», si spinse a scrivere: «Se avete un viaggio a Pompei nella vostra lista, fareste meglio a prenotare ora il vostro biglietto per l’Italia». Titolo: «Andate ora a visitare Pompei prima che crolli». Non bastasse, saltò fuori che l’edificio, nella mappatura delle aree a rischio dell’antica città sepolta, era «gialla»: basso rischio. «Se è per questo», sospirò Pier Vittorio Guzzo, sovrintendente fino a pochi mesi prima, «nel ’97 era bianca. A rischio nullo».
«Una vergogna per l’Italia», tuonò Giorgio Napolitano chiedendo «spiegazioni immediate e senza ipocrisie». Una vergogna scaricata, a ragione o a torto, addosso al ministro dell’epoca Sandro Bondi, che se la prese con la cattiva sorte e forse era colpevole più che altro d’avere scelto (o di essersi fatto imporre) come commissario l’ex funzionario dell’Acea Marcello Fiori, reo d’aver buttato 102.963 euro, per fare un solo esempio, anche nel censimento (non la cattura: il censimento) di 55 cani randagi. Una vergogna rimasta per anni tra i sensi di colpa collettivi di chi ama il nostro patrimonio.
Incubo finito: dopo la delicata rimozione delle macerie appesantite dal carico pauroso della «copertura piana in cemento armato» voluta a fine guerra da Amedeo Maiuri (un errore: allora si lavorava così) in seguito al bombardamento alleato alla fine di agosto del ’43, dopo un paziente recupero di ogni pezzetto di affresco non polverizzato e dopo un minuzioso lavoro di ricostruzione, la «Schola» sta per essere riaperta. Certo, gli affreschi trovati all’epoca degli scavi con cui Vittorio Spinazzola nel 1915-16 riportò alla luce l’antica casa dei gladiatori, una sorta di sede di rappresentanza di un’associazione militare, sono andati in gran parte perduti. Prima sotto le bombe alleate, poi nel crollo del novembre 2010 attribuito allo «smottamento del terrapieno a ridosso della costruzione per effetto delle abbondanti piogge». Per non dire dei danni ulteriori aggiunti da leggi e leggine che almeno in questi casi avrebbero dovuto tener conto dell’errore enorme a lasciar lì sotto la plastica per quattro anni, di perizia in perizia, quella massa di macerie dalle quali si sarebbe probabilmente potuto recuperare molto di più.
Detto questo, non tutto è andato perduto. Anzi: Massimo Osanna, l’archeologo che da quattro anni guida la soprintendenza di Pompei, sottolinea che «quasi a voler rendere giustizia dell’autenticità della materia antica» il crollo di otto anni fa interessò «in maniera preponderante la ricostruzione moderna di Maiuri e in misura minore le pitture originali». Via: la Schola Armaturarum sarà aperta a partire da domani, tutti i giovedì, alle visite guidate.
L’intervento
Il soprintendente Massimo Osanna: «Il cedimento di otto anni fa ha colpito soprattutto la copertura messa dopo il ’43»
Di più: la riapertura avviene nella scia della scoperta di nuove domus, nuovi mosaici come «il Mito di Orione» e nuovi affreschi come quello subito famoso «Leda e il cigno». Ma soprattutto nella scia del ritrovamento due anni fa, quasi accanto alla sede della soprintendenza, di una tomba che, secondo il direttore, «probabilmente apparteneva al personaggio più importante della colonia». Gnaeus Allieus Nigidius Maius.
Contenevano, le rovine, «la scoperta più importante degli ultimi decenni fatta agli scavi archeologici di Pompei». Cioè un’iscrizione lunghissima, quattro metri su sette righe, che racconta la vita dell’uomo «a partire da quando indossò la sua “toga virile”, quindi raggiunse la maggiore età, e diede un grande banchetto per il popolo pompeiano, per il quale furono allestiti 456 triclini». Per capirci: 6.840 ospiti. Con le tavole coperte di ogni ben di Dio.
Uomo generoso, prosegue l’iscrizione, «poiché la sua munificenza era coincisa con una carestia», per quattro anni si fece carico di aiutare la gente del posto e «la cura per i suoi concittadini fu superiore a quella per il suo stesso patrimonio» e arrivò a comprare a caro prezzo frumento rivenduto sottocosto e a distribuire «alla cittadinanza individualmente attraverso i suoi amici una quantità di pane cotto equivalente a tre vittoriati». Una gran somma, evidentemente...
La parte più interessante di queste memorie di vita, però, è quella dedicata allo splendore con cui «offrì uno spettacolo gladiatorio di tale grandiosità e magnificenza che (...) poteva esser confrontato con qualsiasi spettacolo di Roma poiché parteciparono 416 gladiatori». E non fu neppure un caso isolato perché organizzò in altre «due occasioni grandi spettacoli senza onere alcuno per la comunità».
Andavano matti, gli abitanti di Pompei, per quei giochi anfiteatrali. La parte più impressionante, scrive Osanna in un saggio dedicato alla tomba, doveva esser «la venatio vera e propria, il confronto tra uomini e animali, dove i venatores intervenivano vestiti di semplice tunica e armati solo di lancia. Tra le fiere si annoveravano felini (tigri, leoni, leopardi) orsi e financo elefanti…».
Certo è che i combattimenti eccitavano la gente oltre ogni limite. Al punto che nel 59 d.C., ricorda la stessa iscrizione, scoppiò una rissa tra i tifosi di Pompei e quelli di Nocera, passata alla storia. Scriverà Tacito che «come avviene di solito nei piccoli centri, si cominciò con dei lazzi alquanto pesanti, poi volarono pietre, e si finì col giungere alle armi. La plebe di Pompei ebbe la meglio. Molti nocerini furono portati a casa mutilati nel corpo; non pochi piangevano la morte di un figlio o di un padre». Informato dei fatti, il Senato decise per una punizione esemplare. E vietò a Pompei le amatissime sfide tra i gladiatori per dieci lunghi anni. Altro che i Daspo negli stadi nostrani…

Repubblica 2.1.19
L’incontro
"Io, figlio di 1984 e di un padre di nome Orwell"
Mentre il grande scrittore inglese, tra fake news e populismi, è al centro di un nuovo boom di vendite, parla Richard Blair, adottato dall’autore e rimasto nell’ombra per molto tempo. Ecco i ricordi di una vita da romanzo
di Antonello Guerrera


LEAMINGTON SPA (INGHILTERRA) Appena entrati nella sua graziosa villa inglese con giardino, mentre rintocca l’orologio a pendolo, in corridoio ci saluta una statuetta. A osservarla bene, è la miniatura di quella all’ingresso degli studi della Bbc in Portland Place, a Londra, dove alle sue spalle sul muro c’è inciso: "Se libertà significa ancora qualcosa, questa è il diritto di dire alle persone ciò che non vogliono sentire". Firmato: George Orwell. «Sì, tempo fa ne ho chiesto una copia per me», spiega Richard Horatio Blair, unico figlio del leggendario scrittore, che lo adottò nell’autunno del 1944 da una povera donna inglese col marito al fronte. «Così Martin Jennings», lo scultore della statua di Orwell alla Bbc finanziata tra gli altri da Ian McEwan, Ken Follett e Tom Stoppard, «ha acconsentito ed eccolo qui, mio padre George».
Va bene la statua, ma nel nome del padre, quello no. Richard Blair, 74 anni, non ha mai voluto chiamarsi Orwell, con il quale l’autore di 1984 rimpiazzò il suo vero nome Eric Arthur Blair, per due motivi: suonava bene e soprattutto per non "sporcare" il cognome di famiglia mentre faceva il vagabondo per documentare alla Dickens le condizioni degli ultimi in Inghilterra. «Non mi sentivo all’altezza», dice Richard Blair, «e poi ho sempre preferito vivere dietro le quinte, mi andava benissimo la mia vita di agricoltore prima e poi di rappresentante marketing».
A proposito di 1984. Richard Blair vive in questa casa nello Warwickshire proprio dall’anno del capolavoro in cui Orwell aveva predestinato il trionfo del totalitarismo in Occidente. Non solo: suo padre scrisse 1984 proprio dopo aver adottato Richard, nella remota isola di Jura, in Scozia. «È una storia molto triste», avverte il signor Blair, capelli lisci bianchi, occhi densi e occhiali retti e leggeri, oggi a capo della Fondazione Orwell che gestisce diritti ed eredità letteraria di uno degli scrittori più amati e letti di sempre. Primi anni Quaranta, piena Seconda guerra mondiale. Orwell è un patriota, vorrebbe andare al fronte. Ma le pessime condizioni di salute glielo impediscono: dopo la Guerra civile in Spagna (dove si è beccato pure una pallottola in gola) e il suo Omaggio alla Catalogna, lo scrittore scopre di avere la tubercolosi, che non lo abbandonerà più. Viene afflitto da bronchiti e altri gravi acciacchi. Almeno però, l’Observer l’arruola per qualche reportage di guerra, ha sempre il lavoro a tempo pieno alla Bbc (radio e contropropaganda antinazista) e poi La fattoria degli animali, il suo primo grande successo planetario, arriva di lì a poco, il 17 agosto del 1945. Cinque mesi prima però, mentre Orwell è nella tedesca Colonia per un articolo, muore l’amata moglie Eileen per le complicazioni di un’isterectomia. «Allora molti amici di papà cominciano a dirgli "Molla quel bambino adottato", "Non puoi tenerlo nelle tue condizioni, senza tua moglie", "Lascialo perdere!"…», ricorda Richard. «Ma lui mi adorava, mi aveva voluto fortemente perché sapeva di non poter avere figli e, nonostante stesse molto male, mi disse che non mi avrebbe mai lasciato. Anzi, abbandonò la Bbc per tenermi con sé.
Certo, sempre a debita distanza: le famiglie inglesi all’epoca molto difficilmente cedevano al contatto fisico e poi papà aveva paura di attaccarmi qualche malattia.
Avrei voluto qualche abbraccio in più. Ma se oggi sono in salute, è anche per merito di mio padre».
Father and son. È il cammino doloroso di un papà malato e del suo piccolo figlio, come La strada di Cormac McCarthy, in un mondo malvagio e tormentato. Anche qui il tempo stringe. Orwell sa di non averne molto. Rifiutato da diverse donne cui si era proposto e dopo la morte della sorella maggiore Marjorie, nella primavera del 1946 Orwell decide di mollare tutto a Londra e trasferirsi nella sperduta Jura, dove può concentrarsi sulla scrittura di 1984. Porta con sé la sorella minore (e unica rimasta) Avril, suo marito Bill Dunn, i figli della coppia e ovviamente il piccolo Richard. «Ricordo i ticchettii continui della macchina da scrivere nella stanza di sopra», racconta oggi Blair, «quando stava bene papà scriveva per tutta la mattina, e scendeva a pranzo con noi. Altrimenti non lo vedevo fino a sera e questo mi spiaceva».
Le memorie di Richard sono poche, ma custodite con cura.
Come quando il 19 agosto del 1947 rischiano di annegare tutti nel vorticoso golfo di Corryvreckan: «La barca si capovolge», riarrotola il nastro Richard, «papà riesce a spingerci verso un isolotto e intanto mi protegge con il suo corpo fino a quando non ci salva un pescatore», e ci mostra la sua foto. «Un’altra volta ho rischiato di spaccarmi la testa cadendo dal seggiolino mentre papà mi faceva un giocattolo di legno, adorava costruirli, ho ancora la cicatrice in fronte».
Poi, l’ultimo vero incontro tra padre e figlio. Orwell ha già terminato il suo romanzo, quello finale. Gli trova il titolo definitivo, invertendo le ultime due ultime cifre dell’anno corrente 1948.
Lo scrittore è stremato dalla malattia. A metà 1949, durante la traversata da Jura a un ospedale della terraferma, «la nostra macchina buca, Avril e Bill cercano di riparare la gomma, e io rimango da solo con papà. Nell’attesa mi parla e mi recita poesie, probabilmente improvvisate. È il mio ultimo vero momento insieme con mio padre».
George Orwell muore in ospedale il 21 gennaio 1950, a 46 anni, Richard lo viene a sapere dalla Bbc. Lascia la sua eredità letteraria a Sonia Bromwell, editor e archivista, forse la Julia di 1984, sposata tre mesi prima di spirare, a condizione che paghi gli studi del figlio adottivo. «Ma lei non voleva occuparsi troppo di me», spiega Richard, il quale va così a vivere con gli zii Avril e Bill. Dopo la morte di Sonia, poi, tutta la fondazione e il patrimonio letterario di Orwell finiscono a Richard Blair. Ancora oggi è una miniera d’oro. Il signor Blair non vuole rivelarci le cifre, ma nota che, per esempio, «in America gestirò i diritti delle opere di mio padre per almeno altri venti anni e proprio negli States, dopo che la consigliera di Trump Kellyanne Conway nel gennaio 2017 ha parlato di alternative facts le vendite di 1984 sono schizzate del 10.000 per cento in sei mesi. In questi tempi di manipolazioni e fake news, le cose andranno bene a lungo…». In casa, Richard ha molte carte ereditate dal padre. Innanzitutto il suo certificato di nascita, dove George Orwell ha bruciato con la sigaretta il vero cognome di suo figlio adottivo, per poi ritagliarlo e gettarlo via: «Per questo ho avuto enormi difficoltà a risalire ai miei genitori naturali», osserva Richard, «ma, lo vede, quanto mi voleva bene papà e quanto voleva che restassi con lui?
Sono il figlio ordinario di un uomo straordinario».
Poi ci sono decine di lettere, ancora inedite, dello scrittore ad alcune ragazze. Ma a Richard manca qualcosa: i diari e le foto di Orwell durante la Guerra civile spagnola: «Gliele rubarono gli agenti sovietici del Nkvd», racconta Richard, «e da allora non ne abbiamo saputo più nulla. Sappiamo che sono a Mosca, ma la Russia non vuole farci accedere agli archivi. A me basterebbero anche solo le fotocopie. È l’ultima cosa che vorrei sapere di mio padre, l’ultima cosa che mi manca di lui. Ma ottenerla sarà impossibile, lo so».SUR
Sopra, una lettera di George Orwell che fa parte dell’archivio custodito dal figlio; in alto Richard Blair, oggi 74 anni, adottato da Orwell nel 1944, davanti alla statua dello scrittore.
Nella foto grande, George Orwell porta in passeggino Richard

Repubblica 2.1.19
Così il terrorismo nacque nel cuore dell’Occidente
Il saggio dello storico Francesco Benigno su radici e sviluppo di un fenomeno globale
Le foto e i diari della Guerra civile spagnola furono rubate dai sovietici. Sogno di trovarli
di Benedetta Tobagi


Il terrorismo è uno dei codici fondamentali della modernità, influenza la nostra esperienza, il nostro modo di pensare. Prevale, oggi, la sua rappresentazione come "sfida barbara alla civiltà occidentale e alla democrazia", discrimine di un presunto "scontro di civiltà" o addirittura male assoluto, quasi un Satana secolarizzato. Una visione plasmata dalla politica, in particolare dai noecons che hanno egemonizzato le amministrazioni Bush. Ma la prospettiva storica (forse per questo la più trascurata, nei terrorism studies recenti) ci dice tutt’altro. È un libro importante, Terrore e terrorismo dello storico Francesco Benigno, perché al valore storiografico unisce un forte afflato etico.
Contro le rimozioni ideologiche o interessate, infatti, ricompone un quadro in cui il terrorismo torna a mostrarsi come un figlio, per quanto perverso, dell’Occidente contemporaneo.
Contro chi — per forzare il legame col radicalismo religioso anziché con la politica — ne cerca le radici nell’antichità mediorientale, tra sicari (ebrei) e assassini (musulmani), in «una sorta di teoria esotica della reincarnazione terroristica», Benigno pone il termine là dove il vocabolo "terrorismo" nasce: nel grembo della Rivoluzione francese. Data la natura intrinsecamente valutativa — dunque controversa — del termine (gli studiosi hanno riconosciuto l’impossibilità di una definizione univoca e onnicomprensiva), cerca di individuare una tradizione culturale imperniata sull’uso politico del terrorismo, utilizzando «i discorsi che si sono succeduti fin da quando i termini terrorista e terrorismo sono stati coniati». Tradizione che dall’Europa contemporanea si propaga all’autocrazia zarista, agli Stati Uniti e all’America Latina, per attecchire poi in Asia e Medio Oriente durante i conflitti per la decolonizzazione, e che nelle sue diverse manifestazioni (rivoluzionaria, indipendentista, internazionale, islamista) presenta forti tratti di continuità lungo due secoli. La genealogia si muove attraverso un’ampia costellazione di fenomeni, dalle guerre patriottiche ai tentativi insurrezionali, alle rivoluzioni, seguendo l’idea centrale del terrorismo rivoluzionario, che sia possibile promuovere azioni violente «al servizio degli oppressi e in nome della rigenerazione della società»: non l’alterità assoluta, dunque, semmai il lato oscuro della purezza. Affonda le radici nel magma di un Risorgimento non sterilizzato dalla retorica e nella galassia degli anarchici (altra categoria gemmata dal 1789), che, prima di essere usati come capri espiatori, sono inventori e interpreti principali della «propaganda del fatto». Col loro repertorio di azioni, il mito degli "uomini nuovi", l’enunciazione del principio che "non esistono innocenti", insieme ai terroristi populisti russi imprimono un segno durevole nell’immaginario.
La stampa alimenta il mito di "madonne" del terrorismo come Vera Zasulic e Marija Spiridonova, che rivive in icone come la palestinese Leyla Khaled le cui foto, giovane e ridente, abbracciata al kalashnikov, hanno fatto il giro del mondo. A quella stagione Benigno fa risalire una caratteristica centrale, e spesso misconosciuta, del terrorismo, ieri e oggi: agire sul gruppo di riferimento quanto, se non più, che all’uditorio bersaglio, la «comunità di vita e destino» per cui i martiri, laici o religiosi, rappresentano oggetto di culto.
Sebbene rinunci a trattare le forme innumerevoli del terrore di Stato, Benigno include nella ricerca quello che definisce «terrorismo d’intelligence» finalizzato alla «manipolazione di una sfera pubblica pensata come plasmabile» da parte del potere, per «fare l’ordine con il disordine». Si manifesta tra le due guerre mondiali come strumento di provocazione (l’incendio del Reichstag) o vera e propria azione politica, occulta o palese (gli omicidi ordinati da Mussolini).
Risorge al tempo della Guerra fredda, strettamente connesso alle dottrine della "guerra psicologica" (il campo in cui ricade la nostra "strategia della tensione") e resta strumento di condizionamento occulto degli equilibri politici, interni o internazionali. In parallelo alla genealogia del terrorismo Benigno traccia quella del controterrorismo, dalle strategie repressive all’uso di provocatori e infiltrati, tecnica già a tal punto raffinata nel XIX secolo che il segretario di Mazzini, coinvolto nella fondazione della Prima Internazionale, era un agente sotto copertura francese.
La capacità di sintesi, unità a chiarezza e agilità di scrittura, rende la lettura godibile anche ai non addetti ai lavori; per chi mastica il tema, particolare fascino ha la rete dei collegamenti che Benigno fa affiorare. Il terrorismo fu un fenomeno precocemente globale: così, gli indipendentisti indiani divoravano i testi dei combattenti irlandesi, l’uso del terrore per una "guerra totale" si lega alle strategie elaborate nella Guerra civile nordamericana e poi nelle guerre indiane per sterminare i nativi, perché con la guerriglia «50 uomini potevano tenerne in scacco 3000». L’asimmetria — altra costante — non ha fatto che crescere: gli attentati suicidi costano al massimo qualche decina di migliaia di dollari, le campagne in Iraq e Afghanistan 4,3 trilioni. Una delle tante ragioni per cui il quadro storico del terrorismo è un ritratto di Dorian Gray nascosto in soffitta, con cui è urgente confrontarsi.

Corriere 2.1.18
«Caramelle» di Carone e Dear Jack
«Cantiamo l’orrore della pedofilia ma Sanremo ci boccia»


«Questo è il nostro piccolo miracolo di Natale». Pierdavide Carone descrive così il successo di «Caramelle», la canzone che ha scritto con i Dear Jack. Parla di pedofilia dal punto di vista di due vittime di 10 e 15 anni: immediatamente candidata per Sanremo, nonostante i numerosi apprezzamenti arrivati da più parti, non ha passato la selezione.
«Delusi dall’eliminazione, abbiamo deciso di farla uscire subito, senza programmare un lancio, nulla... E nonostante fosse un brano assolutamente anti natalizio», esordisce Carone. Quindi, il miracolo: non solo le persone l’hanno amata, ma anche molti colleghi, in modo spontaneo («di tanti non ho nemmeno il telefono») l’hanno sostenuta pubblicamente: i Negramaro, Giorgia, Bennato, i Nomadi, J-Ax, Ermal Meta, Elisa, i Tiromancino. Solo per citarne alcuni. «Non lo potevamo prevedere — riprende Pierdavide —. Il nostro intento non è certo speculare su un trauma, ma denunciare un orrore, qualcosa che d’improvviso può sconvolgere la vita di chiunque». Peccato non poterlo fare dal palco del Festival: «Sono molto deluso, in primis da Claudio Baglioni. Con il direttore artistico di Sanremo c’era un rapporto di stima, abbiamo anche duettato insieme. È un cantautore e mi sarei aspettato più empatia visto il tema del brano».
I commenti
Apprezzamenti sul brano sono arrivati da Negramaro, Giorgia, Bennato, J-Ax, Elisa
Carone con Lucio Dalla aveva cantato di prostituzione all’Ariston: «È più facile dire di sì a un argomento scottante quando c’è il patrocinio di un gigante della musica. Se avessi portato “Caramelle” con una star della musica, l’avrebbero presa. So che era piaciuta, dunque il problema era in chi la presentava: è grave e anche un po’ razzista. Servono gli abiti giusti per fare i monaci?». E parla di «censura. Forse è perché sia io che i Dear Jack veniamo dai talent: al Festival puoi andare ma con cose più frivole. Per un certo establishment una canzone così va bene per un artista che le somiglia anche fisicamente, con il taglio di capelli giusto, la barba giusta... Molto triste».
Sono molto deluso da Claudio Baglioni:
da parte sua mi sarei aspettato più empatia visto il tema del brano
Lorenzo Cantarini dei Dear Jack è d’accordo con Pierdavide: «Mai come questa volta c’è un senso di appartenenza attorno a un brano. Le cose non accadono mai per caso». Non essere in gara al Festival è stato brutto «non perché credevamo di avere già il biglietto d’ingresso in mano, ma perché abbiamo avvertito davvero una censura, anche da parte dalla Rai. Avremmo dovuto presentare “Caramelle” in altri programmi. Forse non era adatta per certi orari? Per un certo tipo di pubblico? A riprova che la pedofilia è ancora un tabù».
È brutto non andare al Festival perché abbiamo avvertito davvero una censura da parte della Rai
Il dispiacere, spiega Cantarini, è più fitto perché legato a una canzone «diversa dalle altre: abbiamo deciso di vestire una responsabilità, raccontando una parte di umanità costretta a portarsi appresso dei pesi enormi. Quando l’ho cantata dal vivo, la gente era attentissima. Era importante rompere il tabù».

Repubblica 2.1.19
Kenneth Branagh "Folgorato dal Bardo a 16 anni e finalmente oggi lo interpreto"
Intervista di Silvia Bizio


Irlandese, 59enne, è considerato uno dei più grandi attori shakespeariani viventi. Oggi (ri)porta la sua passione al cinema con "All is true", che dirige anche e in cui recita accanto a mostri sacri come Judie Dench e Ian McKellen

LOS ANGELES A16 anni feci l’autostop per andare da Belfast a Stratford-upon-Avon e scoprire Shakespeare: da allora non mi sono più separato da lui». Per Kenneth Branagh l’amore per il Bardo è la storia della sua stessa vita, da quando era un adolescente curioso e con la passione della recitazione, fino a oggi: 59 anni, cinque volte candidato agli Oscar, è considerato uno dei più grandi attori shakespeariani viventi, il degno erede di Sir Laurence Olivier. Branagh torna al cinema con All is true — che ha anche diretto — in cui interpreta proprio William Shakespeare negli ultimi anni di vita, quando, dopo il rogo che rase al suolo il Globe Theatre nel 1613 proprio nel bel mezzo dell’Enrico VIII, tornò a casa a Stratford a vivere con la moglie Anne Hathaway, nove anni più anziana di lui (interpretata dalla divina Judi Dench), e la figlia (sopravvissuta alla morte a soli 11 anni del gemello Hamnet, adorato dal padre). Il grande attore shakespeariano Ian McKellen è il duca di Southampton, a detta di molti innamorato — ricambiato — di Shakespeare. Abbiamo incontrato Kenneth Branagh a Los Angeles per il lancio del film in previsione della corsa all’Oscar.
Possiamo considerare "All is true" il culmine del suo amore per Shakespeare?
«In parte sì, perché stavolta mi calo nei suoi panni. Sono nato a Belfast, nell’Irlanda del Nord, e a 16 anni invece di andare a Londra come facevano tutti i miei coetanei, mi diressi a Stratford. Al Globe c’era una rappresentazione della Royal Shakespeare Company. Non potevo perdermela. Ci arrivai in autostop, un viaggio per me epico, dall’Irlanda all’Inghilterra. Mi segnò sia il tragitto che l’"incontro" con Shakespeare. Ne rimasi posseduto».
L’esplorazione del luogo ha ispirato il film?
«Sì, fin da allora mi aggiravo per Stratford cercando di dare un volto reale a Shakespeare: che possedeva case, era una persona vera, non una figura leggendaria come alcuni ritengono. Volevo scoprire come quei luoghi e i suoi abitanti avessero ispirato il suo lavoro».
L’incendio del Globe segna l’inizio di un rapido declino, giusto?
«Da lì siamo partiti. Un momento traumatico per lui, che morirà tre anni dopo. In seguito al rogo ci sarebbe stato il famoso incontro con l’altro drammaturgo Ben Jonson. Si ubriacarono al punto che Shakespeare si ammalò e morì. Ma è una delle tante dicerie a proposito di Shakespeare».
In una bellissima scena, lei e McKellen declamate entrambi un sonetto di Shakespeare: quasi una sfida di grande recitazione.
«Sapevamo che sarebbe stata magnifica. Lo sceneggiatore Ben Elton ha fatto un grande lavoro.
Quella scena riassume l’arco esistenziale di un eterosessuale e padre di famiglia, che scopre tante cose di se stesso mai immaginate. E tutto in un sonetto recitato da Ian che ha una voce straordinaria: sarebbe piaciuto molto a Shakespeare. Ian canta senza musica. Lo guardavo, e imparavo».
E poi c’è la signora del teatro britannico: Judi Dench. Com’è stato essere suo marito?
«Divertente. La vera Anne era più vecchia di William. Ora, non voglio rivelare l’età di Judi, ma insomma tutti sanno che è più grande di me.
Del resto abbiamo passato anni in cui sullo schermo veniva rappresentata la disparità di età con un lui molto più anziano di lei. A Judi piacciono le sfide, e a me pure.
La nostra amicizia trentennale avrebbe di sicuro contribuito a dare un sentore di vita domestica nel film».
Quanto c’è di vero nella misteriosa morte del figlio di Shakespeare, Hamnet?
«Abbiamo molte certezze su alcuni fatti capitati a Shakespeare, ma su Hamnet non esiste un atto pubblico. Solo cinque bambini morirono quell’estate, e tre erano neonati. Non c’erano epidemie in quella zona. E le ipotesi sulla morte del bambino vengono dagli stessi drammi del Bardo. Sui gemelli ne ha scritti una mezza dozzina, altrettanti su bambini che muoiono. Pensi ad Arthur in King John. O a momenti in drammi come Winter’s tale, La tempesta, Cimbelino, Pericle, principe di Tiro tutti su bambini, a volte gemelli, persi. E la magia viene spesso usata alla fine per dare un attimo di sollievo. Insomma senti tutta la disperazione di un padre che ha perso un figlio».
Cosa pensa delle "teorie della cospirazione" intorno a Shakespeare? Che fosse solo un prestanome e così via?
«Non ci credo. Son tutte cretinate.
Ci sono molte persone colte e intelligenti che hanno dedicato tempo per capire la verità sul drammaturgo. Io mi considero aperto mentalmente, ma finora non ho trovato prove che confermino la non esistenza di Shakespeare. Ma è un soggetto affascinante. Confesso di essermi molto divertito guardando Anonymous (il film di Roland Emmerich del 2011, ndr) ».
La preoccupa la Brexit?
«Molto. Sono pro Europa e credo in confini più aperti. Ascolto tutti e so che in molti non sono d’accordo col distacco dalla EU. E tuttavia un voto c’è stato. Si respira un’atmosfera di incertezza e confusione. Si litiga troppo, lo stesso succede in altri paesi europei: questo mi preoccupa ancor di più».

Corriere 2.1.19
Concerto a Vienna
Silvia, la flautista (prima italiana) dei mitici Wiener
di Valerio Cappelli


Il Flauto magico parla italiano. Se il nostro Paese con Sanremo ha perso gli addobbi floreali del concerto di Capodanno dal Musikverein, ora passati al Comune di Vienna, guadagna però una presenza preziosa: quella di Silvia Careddu, 41 anni, flautista cagliaritana, prima donna italiana a militare nei leggendari Wiener Philharmoniker. In sala ieri, per il consueto concerto, c’erano il tenore Juan Diego Florez e il sovrintendente della Staatsoper Dominique Meyer. Silvia è stata tra i primi dell’Orchestra a cui il berlinese Christian Thielemann ha chiesto di alzarsi in piedi, in segno di distinzione, prima dei bis. Per entrare ha sostenuto 4 selezioni, giudicata da 25 membri dei Filarmonici, ha ultimato il «rodaggio» alla Staatsoper (l’orchestra è la stessa). Fino al 1997, i Wiener erano soltanto uomini. Ora le donne sono undici. Thielemann era al suo debutto viennese (rinviato per la concomitanza con il suo concerto da Dresda) con i valzer della famiglia Strauss. Amatissimo, erede della tradizione germanica, Thielemann non ha mai fatto mistero delle sue idee politiche (profonda destra) e questo lo ha penalizzato nella corsa alla guida dei Berliner Philharmoniker.



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