sabato 29 dicembre 2018

il manifesto 29.12.18
Il crepuscolo di un sogno comunitario
Amos Oz. La scomparsa dello scrittore nato a Gerusalemme nel 1939. Nella sua monumentale autobiografia «Una storia d'amore e di tenebra» aveva narrato tre generazioni israeliane in cent'anni, un incrocio inestricabile di esperienza personale e destini collettivi
di Massimo Raffaeli


Non si può scrivere in Israele senza essere degli autori politici, per etimologia, né si può essere scrittori in Israele senza sentire la politica nel senso primordiale, fondativo, di un termine che abbraccia sia una radice storica sia, nello stesso tempo, una coazione ormai così protratta e dolorosa da somigliare a un destino.
Amos Oz, pseudonimo dell’ebreo di origini ashkenazite Amos Klausner (nato a Gerusalemme nel 1939 e mancato ieri nella sua città), è stato scrittore politico nel senso pieno per un decorso familiare e poi per una scelta che lo ha reso testimone di un mondo lacerato, presto diviso in due, dentro e fuori di sé, dalla tragedia del popolo palestinese la cui vicenda replicava e dilatava immensamente ai suoi occhi, nei termini della esclusione e di una crudele persecuzione, gli incubi di una vita domestica letteralmente esplosa dopo il suicidio di sua madre e il tenace sanguinoso conflitto che subito lo divise da suo padre, un intellettuale dell’estrema destra nazionalista.
OZ È UNO PSEUDONIMO che significa «forza» e il termine dice molto di questo giovane adottato la cui vera famiglia diviene il kibbutz di Hulda, diretta filiazione del Partito laburista cui il futuro scrittore aderisce appena quindicenne. Politica è dunque per lui non solo e non tanto una esigenza di engagement quanto un fervore collettivo, un progetto civile di edificazione dal basso e di riscatto dalla persecuzione che rende fattiva, condivisa e alla fine si direbbe «naturale» l’utopia del socialismo.
Oz dirà più volte, specie nel romanzo autobiografico che lo ha universalmente consacrato, Una storia di amore e di tenebra (2002), di essere negato al lavoro manuale ma di avere appreso nel kibbutz le nozioni fondamentali dell’essere al mondo e, prima ancora, dell’essere con gli altri nel mondo. Anche quando se ne andrà dal kibbutz, non prima dei pieni anni ottanta, al crepuscolo del socialismo israeliano e in un drammatico passaggio di fase che vede il paese stravolto dalla aggressività sciovinista delle destre ascese al potere, ne parlerà con nostalgia nei termini di un sedimento profondo e di una definitiva immunizzazione.
Qui va detto che Amos Oz, benché educato da bambino in una scuola religiosa (dove ebbe insegnante una poetessa celeberrima in Israele, Zelda) non sarà mai un credente ma un laico refrattario al credo dei padri come alle religioni secolarizzate che nel Novecento a lungo sono state le ideologie politiche. Egli fu semplicemente un socialista democratico ma nondimeno un radicale come può esserlo chi crede in una elementare, inscalfibile, eguaglianza tra gli esseri umani.
QUANTO A QUESTO, fra le decine di saggi e romanzi che costellano la sua longeva e ricchissima bibliografia (da In terra di Israele a Contro il fanatismo del 2004, da, circa la narrativa, Michael mio a Il monte del cattivo consiglio, del ’76) spicca alla maniera di un baricentro e di un retrospettivo romanzo di formazione Una pace perfetta concepito nel 1970, redatto fra il ’76 e l’’81 e pubblicato in patria solo nel 1982 (poi in Italia da Feltrinelli nel 2009).
L’opera risale appunto alla prima maturità di Oz, perciò agli anni immediatamente successivi alla guerra dei Sei Giorni, e la scrive il kibbutzim poco più che trentenne ma già anziano militante laburista in fuga dalla sua cupa vicenda familiare. Una pace perfetta anticipa la materia autobiografica di Una storia di amore e di tenebra e appare se possibile un racconto ancora più compiuto, nel senso della compattezza e di una ispirazione che non scende dal suo apice nonostante la struttura comporti continui cambi della prospettiva e sbalzi nell’assemblaggio linguistico-stilistico.
PROTAGONISTI non sono individui singoli ma ancora una volta la comunità, il kibbutz, la cui dinamica si estende dal Bildungsroman vero e proprio a un romanzo di formazione collettivo, mentre il contrasto fra ideale e reale, tipico di ogni romanzo, si traduce nella lotta fra la generazione dei pionieri (la stessa di Ben Gurion e Golda Meir) e quella dei figli irrequieti e perplessi ovvero fra i vecchi ebrei immigrati nella Palestina del Mandamento inglese e i giovani cittadini israeliani che ormai portano con orgoglio la divisa di Tzahal.
Il clima da catastrofe incombente, un inverno rigido e eternamente piovoso schermano la matrice solare e originaria del kibbutz, il suo ideale laico e pauperista. Tale, e una volta per sempre, è comunque l’universo di Oz, uno spazio di radure strappate al deserto in cui convivono operai e contadini, dove si utilizzano macchine rudimentali ma non mancano una biblioteca e un quintetto musicale, mentre non vi esistono né una sinagoga né un rabbino, nonostante tutti sappiano citare a memoria la Bibbia.
LE FIGURE CHE EMERGONO dal coro testimoniano di una nuda umanità ma rigettano qualsiasi credo identitario: lo stesso ricordo della Shoah è una terribile ipoteca che rimane per costoro sullo sfondo, è il finale apocalittico di una vicenda chiusa non l’innesco di una storia paradossalmente trionfale quale invece sarà per le classi dirigenti successive alla guerra dei Sei Giorni, come rilevano, con sgomento e d’accordo con Oz, i nuovi storici israeliani, da Idith Zertal a Tom Segev, l’autore di Il settimo milione.
IN TUTTA LA SUA OPERA, l’autore accompagna il ricordo della epopea del kibbutz nei modi di una severa elegia dove si affacciano di volta in volta i miti, anonimi, volti del sogno comunitario. Oz, scrittore la cui pagina allude alla cadenza della riflessione, li osserva e dà loro la parola quasi con sgomento, come scrivesse da un tempo irrimediabilmente postumo rispetto a un presente viceversa armato fino ai denti dove la violenza è acclamata, la protervia giustificata nel senso comune con stoltezza temeraria. Diversamente da alcuni suoi pari (per esempio David Grossman e Abraham Yehoshua, che volentieri ricorrono nei loro romanzi al mito e persino al sostrato folclorico di Israele), Oz guarda da sempre nella sua narrativa alla dinamica degli esseri più semplici, a individui chiusi e talora imprigionati nel ciclo di vivere, lavorare e morire.
ELENA LOEWENTHAL, traduttrice elettiva di Amos Oz, fedelissima alla polifonia delle sue partiture originali, di lui ha parlato (in Scrivere di sé. Identità ebraiche allo specchio, Einaudi 2007), come di «un incrocio inestricabile di esperienza personale e collettiva» o meglio ancora di una «immedesimazione fra i destini individuali e destino collettivo che tracciò in quegli anni la nascita della coscienza nazionale».
Oggi è molto triste rammentare che una simile epopea è da decenni cancellata, in Israele: i politici di estrema destra e i rabbini bigotti cui sono delegati il governo e la manutenzione dell’identità spirituale del paese ritengono ovviamente che la storia del kibbutz sia il prodotto di un’epoca nefasta, morta e sepolta con i suoi ideali di uguaglianza fra gli esseri umani.

La Stampa 29.12.18
Amos Oz, la luce nel deserto
La morte del grande scrittore israeliano
di Elena Loewenthal


Amos Oz ci ha lasciato ieri, a settantanove anni. «Se n’è andato nel sonno, serenamente, circondato dai suoi cari», ha scritto sua figlia sui social, poco dopo. Era malato da tempo ma al suo tumore, alle lunghe e sfiancanti cure e alle limitazioni che gli imponeva, alludeva solo ogni tanto con un sorriso quasi ironico, mai vinto. Lui era tutto in quei suoi meravigliosi occhi celesti, penetranti eppure carezzevoli, così profondi, così sapienti, così luminosi: in quegli occhi c’era il bambino timido che viveva in una piccola casa addossata alla roccia di Gerusalemme insieme a madre, padre e una montagna di silenzi, c’era lo sgomento di un tredicenne di fronte al suicidio di colei che l’aveva messo al mondo, c’era l’adolescente ribelle che abbandona il suo mondo e va a costruirne uno nuovo in kibbutz, c’era il giovane uomo che sta scoprendo la propria storia e comincia a scrivere alla fine del turno di lavoro, dopo la mungitura. C’era il grandissimo scrittore che divenne ben presto, fra un turno di lavoro in kibbutz e l’altro, animato da una vocazione che non lo tradì mai, in sessant’anni e più, e migliaia di pagine. In quei suoi occhi si leggevano anche le passeggiate che faceva la mattina prestissimo, prima dell’alba, nel deserto che cominciava proprio accanto a casa sua, ad Arad, nel Neghev, dove si era trasferito nel 1986, «per andare a vedere se c’è qualcosa di nuovo nel deserto». Perché solo così, diceva, prendeva le misure di ciò che conta veramente e di ciò che invece passa come neve al sole.
Poi si sedeva alla scrivania, dove teneva sempre due penne di diverso colore. A seconda dello stato d’animo in cui si trovava, usava una o l’altra: «Quando sono al cento per cento d’accordo con me stesso, mi dedico a un saggio, un articolo di giornale, un’invettiva politica». Ma quando era animato dai dubbi, dalle contraddizioni, dalla consapevolezza di quanto la vita sia complessa, e ricca, allora scriveva una storia.
Era nato a Gerusalemme il quattro maggio del 1939, figlio di Yehudah Arieh Klausner e Fania Mussman. Illustre famiglia di eruditi quella del padre, originari della Lituania, profondamente «urbani» e lontani dal sionismo socialista ed egualitario, calda e lontana quella della madre, in gran parte travolta dalla Shoah. Figlio unico e prezioso, ma anche fragile parafulmine di dolori inesprimibili, un giorno sua madre decise che vivere non aveva più senso: «Se fossi stato laggiù accanto a lei in quella stanza che dava sul cortile... avrei pianto avrei implorato senza pudore avrei abbracciato le sue gambe e forse fatto finta di svenire e picchiato e graffiato me stesso fino al sangue come avevo visto fare a lei nei momenti di sconforto», scrive alla fine di Una Storia di Amore e di Tenebra, il suo capolavoro più grande, la storia dei suoi primi tredici anni ma anche l’epopea di una Paese che stava nascendo e di una storia, quella ebraica, che stava cambiando drasticamente.
Ci aveva messo cinquant’anni, Amos Oz, per raccontare questo dramma e il se stesso che era diventato dopo di allora, ma sua madre Fania abita in quasi tutti i suoi libri, è la figura femminile vaga e indecifrabile, sempre sfuggente, più un’ombra che un personaggio, che a un certo punto della storia, come ne Il Monte del Cattivo Consiglio, prende e se ne va per l’eternità, chissà dove. Sono la rabbia e il dolore e la nostalgia del bambino abbandonato che hanno dato vita a tanta, tanta poesia fra le sue pagine. Come in quello che è certamente il suo romanzo più atipico, Lo stesso mare, un’elegia in forma di narrazione, un po’ in versi e un po’ no, in cui si narra, anche qui, di una donna che non c’è più, e di tanti amori dove però c’è sempre una distanza insormontabile fra chi ama e chi è amato: nel tempo, nello spazio, nel ricordo, nel rimpianto.
Poco dopo la morte della madre, il giovane Amos se ne va di casa e si lascia alle spalle tutto il suo mondo per abbracciare una vita nuova nel kibbutz, gli ideali socialisti così invisi alla famiglia del padre e alla sua erudizione. Cambia nome, da Klausner diventa Oz, che in ebraico significa «forza» ma non nel senso di sopraffazione. È la forza dell’animo, della volontà e dell’amore che trovò ben presto laggiù. La sua primogenita l’ha chiamata Fania, come la madre. È diventato scrittore presto, ma a poco a poco: ci ha messo anni ad abbandonare del tutto i lavori manuali che faceva come tutti gli altri membri del kibbutz di Hulda, al centro d’Israele.
A poco a poco ha lasciato i campi e la stalla, per restare alla scrivania. E ha scritto tanto, tanti di quei romanzi indimenticabili, pieni di storie e di sentimenti, di quella sapienza di vita che faceva parte del suo straordinario armamentario stilistico. Una prosa sempre perfetta, di una lucidità e di efficacia che colpisce a prima vista e va sempre dritta al cuore: una meraviglia continua, per chi da vent’anni accompagna i suoi libri in italiano. Perché la sua scrittura è proprio come quei due meravigliosi occhi celesti che ti guardavano con una gentilezza intelligente, per dirti: guarda che tante cose le capisco anche se non me le dici. È stato uno scrittore generoso come pochi, perché ha regalato ai suoi lettori tanti libri indimenticabili: dall’ultimo suo romanzo, Giuda a Una pace perfetta, dallo strabiliante La scatola nera a Finché morte non sopraggiunga, due novelle scritte tanti anni fa e solo ora apparse in traduzione italiana. Amava profondamente le parole, ma sapeva abitare anche il silenzio, che cercava la mattina nel deserto ma anche a Tel Aviv dove ha vissuto negli ultimi anni, che incastonava fra una riga e l’altra delle sue storie. «Veniamo dal silenzio e al silenzio siamo destinati a tornare», diceva. Ma quanto, quanto sarà triste per noi il suo, di silenzio, da oggi in poi.

Corriere 29.12.18
Amos Oz Addio a un gigante della letteratura
Amava Israele, voleva la pace
È stato uno degli scrittori fondamentali della letteratura (non solo) israeliana: pittore di silenzi, di amori e di tenebre. Amos Oz aveva 79 anni. Con i suoi libri combatteva l’odio e il fondamentalismo.
di Alessandro Piperno


Certe volte mi domando come mai i pochi romanzieri contemporanei che amo abbiano scritto i loro libri migliori (almeno quelli che considero tali) intorno ai sessant’anni. Mi chiedo cos’abbia di speciale un’età che da ragazzo mi sembrava così venerabile tanto quanto oggi mi pare la meta ambita per qualsiasi narratore serio. Immagino (ma è un’ipotesi piuttosto aleatoria, lo ammetto) che mezzo secolo e passa di vita doni alla voce di uno scrittore la quieta solennità, e al suo sguardo l’olimpico distacco retrospettivo, indispensabili per affrontare il capolavoro per cui sarà ricordato.
Amos Oz non fa eccezione. Pressapoco all’inizio degli anni 2000 pubblicò Una storia di amore e di tenebra : una delle opere capitali della giovanissima (e in un certo senso antichissima) letteratura israeliana, che mi è sempre parsa la chiusura di quel magico cerchio ideale aperto parecchi anni prima da Appena ieri di Shemuel Y. Agnon. (Temo che quest’ultima notazione sarebbe dispiaciuta a Oz: il suo giudizio nei confronti dell’opera di Agnon era decisamente più severo del mio).
Intendiamoci, Oz ha scritto parecchi altri libri formidabili. Personalmente ho un debole per uno dei suoi romanzi giovanili, peraltro il primo che lessi poco più che adolescente: Michael mio . Sebbene notarlo possa suonare un po’ banale, quando uno scrittore maschio si cimenta con un personaggio femminile, e lo fa in prima persona e con risultati artistici così ragguardevoli, be’, è lecito gridare al miracolo. Non a caso molti critici, all’epoca dell’uscita, definirono Hannah, la protagonista di Michael mio , una specie di Bovary israeliana. L’idea non era tra le più originali, certo, ma coglieva nel segno.
Chi ha una certa consuetudine con la narrativa di Oz sa che non c’è da stupirsi. Lui è il poeta delle sfumature, l’allusivo pittore dei silenzi. Anni fa ebbi il piacere di ascoltare una conferenza in cui Abraham Yehoshua esprimeva la sua sorpresa e la sua ammirazione per il modo di lavorare di Oz, il suo amico-rivale, così contiguo, così diverso. A quanto pare, Oz scriveva i suoi romanzi senza un solido piano di lavoro, procedendo per accumulazione, guidato dall’istinto e dal caos. Il che spiega forse perché i suoi romanzi migliori, pur così eloquenti, abbiano la naturalezza dell’improvvisazione jazz. Penso a Fima , a Conoscere una donna , a Lo stesso mare . Non solo, questo chiarisce, qualora ce ne fosse bisogno, come l’ombra, la tenebra siano per Oz un privilegiato, ossessivo territorio di esplorazione. Tanto per fare un esempio, si pensi all’ambiguità di un personaggio come Alec Gideon de La scatola nera .
A questo punto non deve stupire che Oz abbia intitolato il suo capolavoro Una storia di amore e di tenebra . Perché, ok, si tratta di un’autobiografia, ma in realtà è molto di più e molto di meno: è una radiografia che fa luce sul cuore della sua ispirazione e della sua vocazione. Parliamoci chiaro: non tutte le biografie sono interessanti. Anche per fare gli scrittori ci vuole un bel po’ di fortuna. Non basta mica il talento, non basta l’ambizione, non bastano la cultura e il lavoro. Devi essere nato nel posto giusto, al momento giusto, nella famiglia giusta. Be’, è difficile immaginare un predestinato più predestinato di Amos Oz. La sua infanzia, la sua adolescenza, la sua giovinezza, nella loro tragicità, sono una specie di straordinaria epifania sionista, un grido alle stupefacenti contraddizioni israeliane. È il primo ad ammetterlo: «A Gerusalemme, in quell’epoca, quasi tutti erano poeti o scrittori o studiosi o filosofi o letterati o rivoluzionari». Era decisamente più difficile trovare un barbiere o un idraulico come si deve. Tutti, intorno al piccolo Amos, erano émigré poliglotti, geniali e idealisti.
Il ritratto del padre appare, date le circostanze, particolarmente emblematico. Il suo amore per la nuova patria era corroborato dall’odio per la terra natale che aveva dovuto abbandonare. «Come molti ebrei sionisti suoi contemporanei, mio padre era un po’ cananeo, sotto sotto: il borgo ebraico e tutto ciò che a esso apparteneva, e financo i rappresentanti di questo mondo nella nuova letteratura, Bialik e Agnon, lo imbarazzavano, se ne vergognava. La sua ambizione è che tutti noi, rinascessimo da capo, fieri, robusti, abbronzati, europei-ebrei, non più giudei-est-europei».
Ben presto, tale scriteriato ottimismo progressista avrebbe dovuto fare i conti con un evento inaudito, imponderabile, incomprensibile: il suicidio della madre di Oz. «Per settimane e mesi dopo la morte di mia madre non pensai nemmeno un istante alla sua sofferenza. Mi negai categoricamente a quell’inaudito grido di soccorso che aveva lasciato dietro di sé e che forse non aveva mai smesso di passare tra le stanze di casa. Nemmeno una goccia di compassione, c’era in me. Nemmeno di nostalgia. E nemmeno lutto per la dipartita di mia madre: ero così offeso e in collera, che non rimaneva posto per nessun altro sentimento». Eccola qui la tenebra, ecco l’amore nella sua forma più crudele e spaventosa.

La Stampa 29.12.18
Quel dialogo a Milano con Barenboim
“Per la pace ci vuole più coraggio”
“Sì Daniel, ma serve anche prudenza”
di E. LO.


Una colazione a casa Feltrinelli in una torrida Milano di fine giugno. Gli ospiti vagano tra il buffet e i divani. Sono seduta a tavola accanto ad Amos Oz - «Il caldo del mio deserto - dice con un sorriso sudato di stanchezza - è una brezza al confronto di questo». Ma il peso dell’afa svanisce: sarà merito dei libri tutt’intorno, della storia che queste pareti raccontano, delle non meno storiche (e tiepide, per fortuna!) cotolette formato scottadito. Amos Oz e Richard Ford, entrambi ospiti della Milanesiana, chiacchierano da vecchi amici. Gli altri commensali ascoltano - perché questa casa sa la magia di insegnarti quand’è giusto tacere, sentire. Com’è duro il mestiere di scrittore. Altro che divertente! È dolore puro. Dice Oz, Ford ascolta e assente.
Da due anni non produco più, confessa Ford dopo una pausa, sto meglio se non scrivo. E leggere?, continua Oz. Mai! Se leggo qualcosa di mio, è garantita la frustrazione: o mi piace tanto e penso che non sarò mai più capace di scrivere così; o lo detesto e mi dico: come ho potuto scrivere una cosa del genere? Ford ride con rassegnazione convinta. Torna al buffet. Mentre Oz e Ford discorrono dell’ingrato destino di scrittore costretto a reinventarsi - e a reinventare - ogni volta daccapo (un bravo falegname fa sempre la stessa sedia, lo scrittore che si ripete è inutile), ecco il colpo di scena. La sorpresa travolge la padrona di casa, ma c’è da giurarci che l’ha orchestrata lei, con la perfezione dell’entusiasmo. Orchestrata nel vero senso della parola, ché di Daniel Barenboim si tratta. Inge Feltrinelli lo accoglie in un misto di italiano e tedesco, «Non sembra arghentino?» (in effetti, è nato a Buenos Aires). «Tutto bianco! - prosegue Inge - Ma il panama no, mi raccomando, niente panama, da quando lo mette anche...». Il maestro parla italiano, ma quando vede Oz nessuno lo scosta più dal suo, dal loro ebraico.
È una lingua densa e profonda, va al ritmo dei pensieri e delle battute da lasciar depositare, prima di afferrarle. Intorno al tavolo, nessuno (a parte me) capisce che cosa i due stiano dicendo, eppure tutti continuano a tacere, e ascoltare. Oz: «Daniel, hai sentito il discorso del marito di Carla Bruni, l’altro giorno alla Knesset? Ma sì! I giornali israeliani non parlavano che di lei - Carla». (Oz mette l’accento sulla prima e non sull’ultima «a». In un romanzo di tempo fa giocava con questo nome addosso a un personaggio, perché in ebraico Car-lah significa «lei ha freddo») Barenboim: «Sì. Mi è piaciuto. Molto. Profondo. Molto umano». (Il presidente francese ha usato parole molto equilibrate: no al terrorismo ma anche no agli insediamenti. Ha toccato il cuore degli israeliani parlando dell’importanza di Israele per gli ebrei).
Oz: «E poco politico. È piaciuto molto anche a me. Meqawwim...». (Significa «speriamo», in ebraico. Ma è seguito da una sequenza infinita di puntini di sospensione). Barenboim: «Amos, perché non vieni a parlare ai ragazzi della mia orchestra? Ci faresti un grande regalo. Quando vuoi. Sai che con me ci sono palestinesi, siriani, libanesi, persino dei ragazzi iraniani. Questa estate, che dici?». Oz: «Mi piacerebbe molto, ma l’estate è per me, sai, periodo di clausura. Sono in clausura di scrittura». (Sta lavorando a dei racconti). Barenboim: «Amos, come vedi la situazione? Io sono preoccupato. Non pensi che noi israeliani dovremmo avere più coraggio?». Oz: «Guarda, Daniel, io sono convinto che la gente sia rassegnata. Da una parte e dall’altra, sa che il nostro e loro destino è quello di vivere vicini, uno accanto all’altro. Credo che questa consapevolezza sia ormai scontata. Come quando si decide che un paziente è da operare: bisogna tagliare e fare due Stati, che piaccia o no».
Barenboim: «Hai ragione. Ma io penso che ci vorrebbe più coraggio da parte nostra. Dovremmo aprirci di più. Penso che tocchi a noi, lo slancio. Mi sembra come se ci mancasse qualcosa, senza questa volontà, da parte nostra, di fare il primo passo. Aprire, in tutti i sensi». Oz muove le mani. Le accosta, le incrocia: «Con prudenza. Dopo tanto scontro, prima di abbattere le barriere ci vuole pazienza. Bisogna imparare a vivere vicini. Bisogna prima abbattere le paure reciproche». Barenboim ha un eloquio più andante. Ascoltarli insieme è come salire e scendere lungo lo spartito. «Ma la situazione è quella che è. Non mi convince. Tu vedi la reale possibilità che questa classe dirigente faccia dei passi avanti?». Oz: «Daniel, sottovaluti l’effetto sorpresa della storia. Secondo te, se qualcuno avesse detto a Gorbaciov, solo qualche anno prima, tu sarai la glasnost, lui ci avrebbe creduto? E che Sadat sarebbe venuto a Gerusalemme, chi l’avrebbe mai detto? Nemmeno lui, no di certo, fino a poco prima! Chi fa la storia non ne è quasi mai consapevole!». Barenboim: «Hai ragione, hai ragione... speriamo. Ma quando vieni a parlare ai miei ragazzi?».

Il Fatto 29.12.18
Addio Oz, soldato “di amore e di tenebra”
Se ne va il grande scrittore, voce critica di Israele
“Contro i fanatismi”. Amos Oz nel film “Censored Voices”, costruito intorno alle sue interviste ai soldati israeliani dopo la Guerra dei Sei Giorni
di Silvia Truzzi


Si scelse un cognome impegnativo il giovane Amos, ancora 15enne, quando decise di disfarsi di Klausner, nome con cui era nato da una famiglia di sionisti di destra fuggiti dall’Europa più buia dell’antisemitismo: “Oz” in ebraico vuol dire “forza”, e per noi il nome di un grande scrittore, scomparso ieri all’età di 79 anni dopo una lunga malattia. A 13 anni perse l’adorata madre Fania, morta suicida: una ferita mai rimarginata, raccontata in quello che è certamente il suo capolavoro, Una storia di amore e di tenebra (tradotto in italiano per Feltrinelli da Elena Loewenthal, come la maggior parte delle sue opere sia di narrativa che di saggistica). Scelse la via del kibbutz, dove guidava il trattore e serviva a mensa e dove incontrò la moglie Nili da cui ebbe due figli.
Si laureò in lettere e filosofia all’Università ebraica di Gerusalemme, la città protagonista dei suoi racconti, e poi si specializzò ad Oxford; nel 1968 pubblicò il romanzo che gli avrebbe dato fama internazionale, Michael mio. Fu soldato dell’esercito israeliano durante la Guerra dei sei giorni e durante la Guerra del Kippur, ma non scrisse mai un romanzo di guerra, come nota Susanna Nirenstein in un affettuoso ricordo sul sito di Repubblica, perché gli era difficile “parlare o scrivere di un campo di battaglia”. L’indicibile non si può spiegare: “Non credo che potrei comunicare quest’esperienza a qualcuno che non l’ha vissuta. Lo scontro consiste soprattutto in un orribile odore. Non è immaginabile. Un misto di gomma, metallo, carni umane che bruciano. E merda. Qualsiasi descrizione non dia conto di quel fetore e della paura non serve a niente. Io non posso”. Aderì al movimento “Pace ora”, insieme ad Abraham Yehoshua e David Grossman, altre due grandi voci della letteratura israeliana contemporanea.
Sulla scrivania teneva due penne, una politica che impugnava quando si “arrabbiava, ma tanto e davvero”, una naturalmente da narratore: “Quando ero piccolo, da grande volevo diventare un libro. Non uno scrittore, un libro: perché le persone le si può uccidere come formiche. Anche uno scrittore, non è difficile ucciderlo. Mentre un libro, quando anche lo si distrugga con metodo, è probabile che un esemplare comunque si salvi e preservi la sua vita di scaffale, una vita eterna, muta, su un ripiano dimenticato in qualche sperduta biblioteca”, ha scritto in Una storia di amore e di tenebra. Oltre alla vasta opera letteraria (in cui non mancano titoli per ragazzi – Soumchi, Una pantera in cantina – e una favola, D’un tratto nel folto del bosco) Oz lascia un importante contributo al dibattito pubblico. E non solo sulla questione israelo-palestinese, di cui si è occupato con numerosi saggi e interventi sulla stampa internazionale. Fermo sostenitore della soluzione dei due Stati, rifiutava lo stato binazionale perché “non occorre ricordare cosa è capitato nella ex Jugoslavia. Basti vedere gli eventi del Medio Oriente negli ultimi anni. Iraq, Siria, Libano, Afghanistan, con le minoranze discriminate, se non derubate e massacrate.
Oggi è difficile essere minoranza sotto una maggioranza musulmana, con i fanatici che dettano la politica”. La lotta al fanatismo è un tema ricorrente, sin da Contro i fanatismi (2004) fino al più recente Cari fanatici (2017). In una delle ultime interviste al Corriere aveva dichiarato: “Più di tutti temo i fanatici, che purtroppo da noi sono di casa, compresi gli ebrei. Ci sono certi operatori umanitari delle Ong europee che sono più fanatici degli stessi estremisti arabi. I fanatici sono dovunque, dannosi per tutti, che parlino in nome di Dio o delle diete vegetariane. Con loro non si ragiona. L’ho scritto anche in Cari fanatici, che vorrei fosse letto come una sorta di mio testamento politico”.
Amos Oz ha vinto importantissimi premi (tra cui il Premio Principe de Asturias de Las Letras, il Premio Primo Levi e il Premio Heinrich Heine nel 2008, il Premio Salone Internazionale del libro nel 2010, il Premio Franz Kafka a Praga nel 2013), eppure, candidato più volte, non ha mai vinto il Nobel. Lo scorso giugno a Taormina (dove aveva ricevuto il Taobuk Award for Literary Excellence insieme a Elizabeth Strout) disse che “mentre si scrive è come essere nella condizione di una donna incinta e una donna in attesa di partorire non dovrebbe mai essere sottoposta ai raggi X”: stava lavorando a un libro, che speriamo tanto di poter leggere.

Corriere 29.12.18
Il suo capolavoro:  entrare nel cervello dei fanatici
di Pierluigi Battista


Mentre piangiamo, con la morte di Amos Oz, la scomparsa di uno scrittore straordinario, mentre registriamo sgomenti la crudeltà di un anno che si è portato via due vette della letteratura mondiale come Oz e Philip Roth, sarebbe il caso di ricordare che la grandezza somma di Amos Oz, ciò che lo ha reso un interprete sottile della sensibilità morale contemporanea e persino del pensiero politico, è rappresentata da uno scritto apparentemente «saggistico», la meno letteraria di tutte le opere di Oz: Cari fanatici che gli italiani possono leggere nella traduzione di Elena Loewenthal pubblicata da Feltrinelli (2017).
Oz ha voluto entrare nel cervello, nel cuore, nelle vibrazioni profonde che agitano il fanatico: il fanatico di tutti i tempi, il fanatico del mondo moderno. Non lo demonizza, non ne fa la caricatura del Male, ma ne svela le pieghe più impensabili attraverso l’arma della letteratura. Un’arma devastante, lucida, penetrante. Lo scopo del suo libro, ma in fondo questo progetto è presente nelle pagine di tutti i suoi lavori migliori, a cominciare da Una storia d’amore e di tenebra, è stato così formulato: «Immaginare il mondo interiore, le idee e anche le emozioni dell’altro da sé: farlo pure nel momento dello scontro».
Farlo sempre: immaginare non è un esercizio della fantasia sbrigliata, è mettersi al posto di chi ti odia, interpretarne ogni trasalimento omicida, lasciarsi scottare dal fuoco devastatore che gli sta consumando l’anima. Immaginare per capire. Per capire che cosa muova un essere umano alle peggiori abiezioni allo scopo di morire per un assoluto che lui vive come il «Giusto», per capire che cos’è la devozione disumana a un’Idea non negoziabile che porta ai peggiori massacri, allo sterminio, alla persecuzione di chi è vissuto come il Nemico da abbattere, sradicare, annientare, singolarmente e in massa.
Oz ha vissuto in Israele, in una terra che di quel fanatismo è teatro permanente. Era ebreo, bersaglio primo del fanatismo omicida. Sapeva di che cosa parlava e parlava per mettere in guardia gli esseri umani dall’orrore della deriva fanatica. Le sue parole ci mancheranno per sempre.

Corriere 29.12.18
«Era cosciente»
Gitai: fece tanto
Noa: io affranta


È stata la figlia, Fania Oz-Salzberger, ad annunciare la morte di suo padre Amos Oz su Twitter: «Il mio amato padre, Amos Oz, un meraviglioso padre di famiglia, autore, uomo di pace e moderazione, è morto oggi in pace dopo una breve battaglia con il cancro. Era circondato dai suoi cari, e ne era cosciente fino alla fine. Possa la sua eredità buona continuare a cambiare il mondo». Tra i primi a ricordare la figura di Oz vi è il regista israeliano Amos Gitai, ieri in Italia al festival «Capri, Hollywood»: «Era un grande scrittore, un grande intellettuale e un grande cittadino di Israele. Per il suo Paese ha fatto tantissimo». Il regista ha dedicato la proiezione del suo film A Tramway in Jerusalem allo scrittore scomparso e a Bernardo Bertolucci, «due grandi artisti e amici». A Capri era presente anche la cantante Noa: «Sono affranta, ho avuto l’onore di chiamare questo grande uomo mio amico, volevo andarlo a trovare la prossima settimana. Raramente riusciva a venire ai concerti, organizzavamo piccole performance a casa sua. Riposa in pace, grande uomo, mi mancherai moltissimo». Anche Simon Schama, storico dell’arte inglese, gli ha reso omaggio: «Uno dei miei eroi, un gigante morale e letterario, una luce per Israele e tutti coloro che amano verità e giustizia». Un omaggio anche dal movimento Shalom Achshav (Pace adesso), di cui Oz era uno dei fondatori: «Israele — afferma un comunicato — saluta oggi uno dei grandi della sua cultura. Sarà ricordato per sempre perché con le sue parole ha tracciato la strada del grande movimento pacifista».

Repubblica 29.12.18
David Grossman “Addio mio saggio amico eroe della letteratura”
Fa male. Fa molto male. Continuava a dire che avrebbe vinto lui. E noi non potevamo non credergli
Ricordava la nascita del nostro Stato, tutte le guerre, tutte le speranze che oggi

Intervista di Francesca Caferri
«Fa male. Fa molto male.
Continuava a dire che avrebbe vinto lui. Era un combattente coraggioso e stava combattendo la sua battaglia: tutti noi accanto a lui non potevamo non credergli.
Nonostante quello che i medici dicevano della sua malattia: non importa quanto sapessimo, la notizia della morte di Amos è uno shock». La voce di David Grossman arriva dalla California spezzata dall’emozione e dalla ripida scalinata che sta percorrendo, inseguito dai giornalisti americani: si ferma spesso, e si fatica a capire se sia per mandare indietro le lacrime o per riprendere fiato.
Grossman, che vuoto lascia Amos Oz sulla scena culturale e sociale di Israele?
«Un vuoto enorme. Amos era una delle persone più sagge che io abbia mai conosciuto: solo sedere accanto a lui per un’ora, ascoltarlo formulare pensieri e mettere in fila idee era un insegnamento costante. Non solo noi, gli amici, e la sua famiglia, ma milioni di lettori in tutto il mondo e Israele tutto intero hanno perso una guida».
Non tutti in Israele lo amavano…
«Lo so bene. Ma Amos ha mostrato a noi israeliani chi siamo: contro tutti gli stereotipi e i cliché ha raccontato al mondo e a noi stessi la complessità di Israele. E la sua meraviglia. Non tutti amavano le sue opinioni, lo so bene: ma questo non significa che avesse torto. Significa piuttosto che in una realtà sempre più dominata dalla paura e dall’odio, la gente si aggrappa a questi sentimenti per sentirsi sicura: e non vuole avere dubbi.
In una situazione così avere opinioni come le sue e non arrendersi di fronte alle pressioni, continuare a scrivere letteratura come la scriveva lui è ancora più eroico. E Amos era un eroe vero».
Cosa intende?
«Nel giugno del 1967, quando tutto Israele era preso dall’euforia della vittoria nella Guerra dei Sei giorni, fu una di quelle due o tre persone che si alzarono per dire che dovevamo stare attenti. Era un momento euforico, entusiasmante: un piccolo Paese che sconfigge da solo le potenti nazioni arabe. Ma a lui non bastava. Questo giovane uomo ci mise in guardia dalla situazione pericolosa che avevamo creato, dicendo che l’occupazione avrebbe portato alla militarizzazione del Paese, a una tensione permanente, all’assenza di pace. Era impopolare e pericoloso parlare così: ma lui lo fece, senza paura».
Quale sarà l’eredità di Oz a suo giudizio?
«Ci ha lasciato un’agenda per il futuro, un’agenda molto semplice, ma fondamentale nella complicata situazione che il nostro Paese vive. Viviamo un altro momento pericoloso della nostra storia: sappiamo di non essere amati dai nostri vicini, sappiamo che molti non vogliono l’esistenza del nostro Stato nella regione. Ma Amos ci ha ricordato che se contiamo solo sulla forza militare e non cerchiamo invece di migliorare i nostri rapporti con i vicini non saremo in grado di sopravvivere. Che senza una pace duratura e giusta non andremo lontano. Voleva che Israele sopravvivesse, a lungo.
Apparteneva a una generazione che ricordava la nascita del nostro Stato, tutte le guerre, tutte le difficoltà che abbiamo attraversato e le speranze che abbiamo avuto e che oggi sono deluse: non ci sono tante voci come la sua».
Lei, Oz e Yehoshua siete stati chiamati i Tre tenori: un soprannome che vi perseguita da anni e che non sempre avete amato. Siete il volto della letteratura israeliana nel mondo, ma anche di quella parte di Paese che da sempre chiede pace. Da oggi siete rimasti in due: cosa cambia?
«È vero, i Tre tenori è da anni è il nostro soprannome. Ma ci tengo a dire che noi siamo prima di tutto tre amici veri, uniti da un sentimento reale e molto forte.
Amos era sempre stato generoso con noi, c’era sempre per parlare di letteratura e anche di politica.
È troppo presto per dire che cosa faremo: ma so che sarà difficile, qualunque cosa sarà. Amos mi mancherà moltissimo, fatico ancora a capire quanto».

Repubblica 29.12.18
Nathan Englander “Non serve il Nobel per essere un gigante”
Intervista di Anna Lombardi


«Pace: sì, pace. Quando stamattina ho letto la notizia, appena sveglio, è letteralmente la prima parola che mi è venuta in mente e che continua a ronzarmi nella testa.
Perché Amos Oz era un uomo estremamente intelligente e di grande morale: e quello che più d’ogni altro mi ha insegnato è il dovere che hanno gli scrittori di scrivere libri che servano a tessere legami. Che contribuiscano a costruire la pace. In modo che anche in una trappola infinita come la guerra fra israeliani e palestinesi la gente possa trovare modo di comprendersi. E provare a scrivere insieme un futuro diverso». Nathan Englander, 48 anni, lo scrittore newyorchese che ha raccontato al grande pubblico l’esperienza ebraico-americana in libri come Il ministero dei casi speciali ricorda l’amico annodando riflessioni e memorie in un unico concitato discorso.
Oz aveva quasi trent’anni più di lei. Cosa vi legava?
«Lo incontrai per la prima volta una ventina di anni fa, su un aereo da Israele all’Italia dove eravamo ospiti del Festival di Mantova. Io ero un ragazzino che aveva appena pubblicato il suo primo libro. Lui era già una leggenda. Non ricordo bene di cosa parlammo: ma ricordo perfettamente il suo calore. Mi trattò alla pari e mi colpì fin da subito, perché non aveva nessun obbligo di essere così aperto e affettuoso. Da allora l’ho sempre considerato un vero maestro. Per la sua umanità e naturalmente per quella sua scrittura, così unica, così acuta, così chiara. Abbiamo continuato a sentirci: l’ultima volta appena un paio di settimane fa».
Il grande pubblico conosce Oz soprattutto per “Una storia d’amore e di tenebra” da cui Natalie Portman ha tratto un film.
«A Gerusalemme ho vissuto proprio nello stesso quartiere che apre quel libro, quello dove era cresciuto lui. E infatti per meglio comprendere la città giravo con quel romanzo in tasca: la descrizione era così accurata che mi faceva letteralmente vedere il passato. Fino a farmi sentire io stesso come un vecchio capace di percepire ancora la città che ama sotto i numerosi strati di novità e cambiamenti».
Qual è il libro che un lettore oggi dovrebbe riprendere in mano per onorarlo?
«Quello che ho amato di più è Il monte del cattivo consiglio dove ricorda gli anni in cui lo Stato di Israele muoveva i primi passi. C’è qualcosa in quel libro che mi ha fatto sempre sentire di appartenere a quel mondo. Ma se dovessi suggerirne uno direi senz’altro Michele mio. Uno dei suoi primi romanzi: amaro e molto forte».
Oz ha segnato la storia della letteratura ebraica moderna: ha segnato anche lei?
«Credo in molte delle cose in cui credeva lui. Ora dobbiamo raccoglierne il testimone: come scrittori, scrivendo storie potenti. E come lettori: onorarlo significa tornare a leggere le sue opere e farle scoprire agli altri. Leggerlo è raccoglierne l’eredità: quel suo costante sforzo personale nel lavorare a costruire la pace».
Ora tutti tornano a parlare del Nobel mancato. Il suo nome sempre in lista: ma invano.
«Certo che il Nobel è un grande riconoscimento: ma averlo ricevuto o meno incide poco sul valore del lavoro di uno scrittore. Anche perché puoi non averlo vinto per mille motivi: i tempi, le opportunità, la politica. E tanto più se sei un autore ebreo israeliano.
Ma i libri di un gigante come Amos Oz non hanno bisogno di premi o di conferme per essere riconosciuti nella loro grandezza. Parlano da soli».

il manifesto 29.12.18
Militari, fascisti e neoliberisti. Si insedia l’incubo Bolsonaro
Brasile anno zero. All’evento presente gran parte della destra mondiale. E - incredibile - c’è anche Morales
di Claudia Fanti


L’insediamento di Jair Bolsonaro alla guida del Paese avrà luogo, il primo gennaio, in mezzo a una ondata di ottimismo record: secondo un sondaggio di Datafolha, è addirittura il 65% dei brasiliani a credere che la vita migliorerà sotto il nuovo governo, quasi il triplo rispetto a cinque mesi fa (prima, cioè, della vittoria del candidato neofascista).
POCO IMPORTA SE SIA L’EFFETTO della luna di miele che solitamente accompagna la nascita di ogni nuova presidenza o il perdurante effetto della realtà parallela creata dalle reti sociali, già risultata decisiva per l’esito del voto. Quale che sia la ragione, il dato non potrebbe apparire più sconcertante, di fronte alle gaffe, agli annunci puntualmente seguiti da smentite, all’improvvisazione e all’incompetenza di cui sta dando prova la ribattezzata «armata Bolsoleone».
Sono soprattutto i passi compiuti finora sul terreno della politica estera a risultare più disastrosi, rischiando di condurre il paese sulla via dell’isolamento internazionale: dalle infelici dichiarazioni nei confronti della Cina, primo socio commerciale del Paese, fino al ritiro della candidatura del Brasile a ospitare nel 2019 la Cop25 (la Conferenza Onu sul cambiamento climatico) – con tanto di possibile rottura dell’Accordo di Parigi -, passando per l’annunciata intenzione di trasferire l’ambasciata in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, misura poi parzialmente smentita, confermata, rismentita.
MA È STATA LA STESSA SCELTA dei ministri a rendere inspiegabile il sonno della ragione in cui sembra piombato il popolo brasiliano, a cominciare proprio da quella del ministro degli Esteri Ernesto Araújo, impegnato a dipingere Trump come una sorta di messia destinato a salvare la civiltà occidentale dal «marxismo culturale globalista» e Bolsonaro come il prescelto da Dio per porre fine al regime «corrotto e ateo» in vigore nel paese.
È l’intera composizione del governo, del resto, a riflettere, da una parte, la piena continuità con le misure ultraneoliberiste dell’impopolarissimo governo Temer (garantita in particolare dal ministro dell’economia Paulo Guedes e dal capo della Bndes, la Banca nazionale di sviluppo, Joaquim Levy) e, dall’altra, i tratti di neofascismo politico e di fondamentalismo religioso tipici dell’équipe di Bolsonaro.
Tratti espressi, oltre che dalla nutrita schiera di militari – guidata dal vicepresidente Antônio Mourão, deciso sostenitore della dittatura -, da personaggi come il ministro dell’educazione Ricardo Vélez, convinto che il golpe del ‘64 abbia liberato il paese dal comunismo e che i brasiliani siano «ostaggi» di un sistema di insegnamento mirato a «imporre alla società un indottrinamento radicato nell’ideologia marxista».
O, ancora, come la pastora evangelica Damares Alves, ministra della Donna, della Famiglia e dei Diritti Umani, la quale, oltre a opporsi all’aborto anche in caso di violenza sessuale, ha destato grande ilarità annunciando di aver visto Gesù ai piedi di un albero di goiaba.
UN COCKTAIL MICIDIALE, insomma, fatto di «autoritarismo, intolleranza, dilettantismo, ultraneoliberismo, subordinazione agli interessi imperialisti e, soprattutto, fanatismo», secondo le parole del sociologo Marcelo Zero.
Neanche si può ricondurre la speranza riposta nel nuovo esecutivo alla bandiera della lotta alla corruzione: se il numero di ministri indagati è già piuttosto consistente, è la stessa famiglia Bolsonaro a essere stata travolta da uno scandalo di indubbia rilevanza. Quello, cioè, delle transazioni sospette riscontrate sul conto dell’ex autista di Flávio Bolsonaro (nonché amico di tutta la famiglia presidenziale) Fabrício Queiroz – per un totale di 1,28 milioni di reais incompatibili con le sue modeste entrate – tra cui un versamento di 24mila reais a favore della moglie del presidente eletto.
UN CASO DESTINATO – probabilmente – all’insabbiamento, considerando come l’organo giudiziario abbia finora permesso a Queiroz di posticipare – a data da destinarsi – la sua deposizione, a causa di presunti motivi di salute.
È in questo clima che Bolsonaro si appresta ad assumere la guida del paese, in una cerimonia a cui saranno presenti solo 12 capi di Stato e di governo, tra cui, oltre a Netanyahu, illustri rappresentanti dell’estrema destra come Viktor Orbán, Ivan Duque, Sebastián Piñera e Juan Orlando Hernández, a cui faranno compagnia Tabaré Vázquez e – incredibile – Evo Morales.
Assenti il suo idolo Donald Trump, rappresentato dal segretario di Stato Mike Pompeo, e il suo nuovo amico Matteo Salvini, che, malgrado le reciproche dichiarazioni d’amore, ha fatto sapere che lo seguirà «da lontano, per non essere frainteso dalla stampa italiana».
Scontata l’assenza di Miguel Diaz-Canel e, soprattutto, di Nicolás Maduro, dal cui governo – in risposta a un invito prima spedito e poi ritirato – è giunta la seguente nota: «Si informa il ministero degli Esteri brasiliano che il Venezuela non assisterà mai all’insediamento di un presidente che è espressione dell’intolleranza, del fascismo e della sottomissione a interessi contrari all’integrazione latinoamericana e caraibica».

il manifesto 29.12.18
Più che gli evangelici poté la carne halal. «Storica visita» di Bibi a rischio flop
Bibi in Brasile. Dopo le sparate iniziali ora il neo presidente dice: «Non ho ancora deciso»
di Michele Giorgio


Benyamin Netanyahu ha iniziato ieri la sua «storica visita» in Brasile incontrando a Rio de Janeiro il presidente eletto Jair Bolsonaro. Nei prossimi giorni parteciperà alla cerimonia di insediamento. Cattolico diventato evangelico e innamorato di Israele, Bolsonaro durante la campagna elettorale ha ripetuto di voler spostare l’ambasciata brasiliana da Tel Aviv a Gerusalemme sulle orme del presidente americano Donald Trump.
Netanyahu in Brasile premerà sull’acceleratore, per rafforzare le relazioni bilaterali, nei settori della tecnologia e della sicurezza, e per ottenere da Bolsonaro il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele. «Questa visita porterà anche importanti notizie diplomatiche: un’inversione di tendenza nei rapporti di Israele con il più grande paese dell’America Latina…Passo dopo passo, metodicamente e con persistenza, stiamo trasformando Israele in una potenza globale in crescita», ha previsto Netanyahu prima di decollare per il Brasile, sottolineando le vaste opportunità economiche legate a legami più stretti con il paese più grande dell’America latina.
«È un mercato enorme» ha notato il premier israeliano «quasi 250 milioni di persone; è un mercato che creerà nuovi posti di lavoro in Israele». L’obiettivo più immediato del premier però è politico, volto a conquistare nuovi consensi in patria in vista delle elezioni legislative del 9 aprile. Ieri perciò ha esortato il presidente brasiliano a mantenere le sue promesse su Gerusalemme. Un obiettivo reso più urgente dopo la mezza delusione per Netanyahu legata alla recente decisione presa dal premier australiano Scott Morrison di riconoscere solo Gerusalemme Ovest come capitale dello Stato ebraico e non tutta la città.
Un passo che conferma l’appoggio australiano alla soluzione a Due Stati (Israele e Palestina) e a Gerusalemme Est come capitale dello Stato palestinese. Non è certo quello che cerca Netanyahu. Bolsonaro è pronto a muovere subito il passo che desidera il premier israeliano? Non è chiaro. All’inizio il neo presidente brasiliano era stato esplicito. Gerusalemme è la capitale di Israele e il Brasile vi sposterà la sua ambasciata al più presto, aveva affermato perentorio.
Quindi ha attaccato i palestinesi e annunciato che chiuderà l’ambasciata palestinese aperta sotto la presidenza Lula. Poi, all’improvviso, ha rallentato precisando «di non aver ancora preso una decisione».
Bolsonaro avrebbe scoperto che la lobby brasiliana degli agricoltori e allevatori è molto più potente di quella evangelica che vuole Gerusalemme capitale di Israele. Almeno un terzo dei parlamentari fanno capo al cosiddetto «Fronte Parlamentare Agricolo» che potrebbe rivelarsi determinante alle prossime elezioni politiche e non vuole scossoni nei rapporti con il mondo islamico. Il Brasile è il maggiore esportatore mondiale di carne halal (macellata secondo i riti islamici), le cui esportazioni totali nel 2015 sono state valutate in oltre15 miliardi di dollari. Nel 2016, il Brasile ha esportato pollo, manzo e soia in Arabia Saudita per oltre un miliardo di dollari. Si prevede che le esportazioni brasiliane verso i paesi arabi potrebbero raggiungere i 20 miliardi di dollari entro il 2022.
Bolsonaro perciò deve tenere conto delle crescenti proteste della Lega araba e di vari paesi islamici per il possibile trasferimento dell’ambasciata brasiliana a Gerusalemme. La mossa infatti rischia di spingere gli Stati arabi a rivolgersi ad altri fornitori di carne halal con effetti catastrofici per allevatori e agricoltori brasiliani. Netanyahu rischia di tornare a casa con in tasca solo promesse e nessuna decisione concreta.

La Stampa 29.12.18
Netanyahu da Bolsonaro
“Felici di aprire una nuova era”
di Emiliano Guanella


Il mare di Copacabana a Rio de Janeiro ha fatto da sfondo all’incontro storico fra Jair Bolsonaro e Benjamin Netanyahu, il primo premier di Israele a partecipare alla cerimonia d’insediamento di un presidente brasiliano. I due si sono riuniti per un’ora e hanno riaffermato la volontà di migliorare le relazioni commerciali e politiche fra i due paesi. «Bolsonaro – ha detto Netanyauh – sta portando avanti un grande cambiamento per questa grande potenza mondiale che è il Brasile e noi siamo felici di poter aprire una nuova era nelle relazioni tra i nostri due paesi». Durante la campagna elettorale Bolsonaro ha citato Israele, assieme all’Italia e agli Stati Uniti, come un punto di riferimento della politica estera del suo futuro governo, che entra in carica il primo gennaio. Un’alleanza che rivoluziona la tradizionale equidistanza della diplomazia brasiliana nelle questione mediorientali e che potrebbe essere sancita dallo decisione di spostare, come ha fatto Trump, l’ambasciata a Gerusalemme, una scelta criticata dagli allevatori di carne locali che temono un boicottaggio dei paesi arabi, verso i quali esportano il 40% della loro produzione. Il Brasile, secondo quanto anticipato dal futuro ministro degli Esteri Ernesto Araujo, dovrà d’ora in avanti pendere a favore di Israele nelle votazioni presso le Nazioni Unite riguardanti il conflitto con i palestinesi. I continui riferimenti a Israele sono serviti a Bolsonaro per accattivare il voto degli evangelici pentecostali, che coltivano il mito della terra promessa, mentre per Netanyauh questa visita di cinque giorni è utile per allontanarsi dalla crisi politica interna, con le accuse di corruzione contro di lui, lo scioglimento del Parlamento e la convocazione di elezioni anticipate ad aprile. Per molti analisti brasiliani, tuttavia, non sono affatto chiare le ragioni e i benefici concreti di questo avvicinamento così accelerato con Israele.
La tecnologia israeliana
Bolsonaro ha più volte citato il programma di desalinizzazione dell’acqua marina israeliano come un modello da seguire per le regioni aride del Nordest brasiliano, dimenticando però che esistono attualmente centinaia di progetti di questo tipo che riescono a portare acqua potabile a più di 230.000 persone. Alcuni esponenti del suo partito e del suo clan famigliare hanno elogiato la tecnologia militare israeliana, auspicando una maggiore collaborazione in futuro in questo ambito. Di sicuro c’è la volontà di seguire la politica adottata da Trump, ammirato profondamente da Bolsonaro. Alla cerimonia d’insediamento del primo gennaio sarà presente il premier ungherese Orban, mentre da Washington viaggerà il segretario di Stato Mike Pompeo.

La Stampa 29.12.18
il germe dell’antisemitismodivide la marcia delle donne Usa contro Donald Trump
di Christian Rocca


Il 19 gennaio prossimo, due anni dopo la grande marcia delle donne contro Donald Trump del 21 gennaio 2017, si terrà una seconda Women’s March che si annuncia ancora più rilevante grazie alla sollevazione popolare di questi anni contro il presidente repubblicano, sfociata in un numero record di candidature femminili alle elezioni di metà mandato del novembre scorso. Ma, questa volta, il fronte delle donne non marcia unito e in alcuni casi, come a New York, ci saranno due manifestazioni concorrenti a causa delle accuse di antisemitismo nei confronti delle organizzatrici della marcia principale. Un’inchiesta di prima pagina del New York Times, successiva a una dettagliata denuncia del magazine di cultura ebraica Tablet, ha svelato che le due leader della Women’s March, una afroamericana e una ispanica, hanno escluso l’ideatrice originaria della mobilitazione perché in quanto ebrea sarebbe portatrice di una responsabilità collettiva del popolo ebraico nello sfruttamento delle persone di colore e, in particolare, nella tratta degli schiavi. La panzana sul coinvolgimento degli ebrei nello schiavismo è uno dei pilastri della dottrina politica di Louis Farrakhan, il leader della Nation of Islam, un gruppo suprematista afroamericano che ha fornito indirettamente il servizio d’ordine della marcia delle donne del 2017. Farrakhan è considerato uno dei più grandi pensatori contemporanei da Tamika Mallory, una delle due leader della Women’s March, nonostante i suoi scritti siano universalmente riconosciuti come «la Bibbia dell’antisemitismo».
In questi stessi giorni, ha fatto scalpore un’altra accusa di antisemitismo, questa volta nei confronti della scrittrice Alice Walker, premio Pulitzer e autrice del best-seller Il Colore Viola, la quale ha detto al New York Times che tiene sul comodino il libro di uno screditato saggista britannico, David Icke, noto perché sostiene la veridicità dei Protocolli dei Savi di Sion, accusa gli ebrei di tutti i mali del mondo, svela che dietro l’Olocausto ci sarebbero proprio gli ebrei e anzi nega che ci sia mai stata la Shoah al punto che le teorie negazioniste, secondo lui, dovrebbero essere insegnate a scuola. I lettori del Times hanno tempestato il giornale di mail e di telefonate, ma Walker ha ribadito che per lei l’autore del volume antisemita è «coraggioso». Nel frattempo sono riemerse altre posizioni imbarazzanti della Walker: poesie contro gli ebrei, Israele paragonato alla Germania nazista, il no alla traduzione in ebraico de Il Colore viola e applausi vari al pensiero di Farrakhan.
Ovviamente Walker e le organizzatrici della marcia negano di essere antisemite, ma è abbastanza evidente che nella sinistra americana sta emergendo una nuova tendenza, a cominciare dall’elezione al Congresso di due donne, Ilhan Omar e Rashida Tlaib, note tra le altre cose per chiedere a gran voce il boicottaggio di Israele. Tutto questo in un contesto che a ottobre ha assistito a una strage di ebrei in una sinagoga di Pittsburgh, a una maggiore presenza della destra antisemita nel dibattito politico, all’ambigua retorica contro il finanziere ebreo George Soros e, in generale, all’aumento del 60 per cento, secondo l’Anti Defamation League, di incidenti contro gli ebrei. Ci sono, insomma, molti elementi per temere che la sinistra radicale americana possa fagocitare quella liberal fino a farle seguire l’esempio di una parte della sinistra europea, quella inglese di Jeremyn Corbyn e quella francese di Jean-Luc Mélenchon, in preda a un preoccupante tic antisemita, soprattutto tra gli odiatori di Israele. Molto dipenderà dalla tenuta del leader Bernie Sanders, al momento lontano da queste posizioni scabrose. Quanto a noi, per una volta, possiamo vantarci della sinistra italiana, finora immune al virus razzista.

Corriere 29.11.18
A Budapest
La statua di Nagy via dalla piazza per far posto ai «veri martiri»
di Maria Serena Natale


Guardava il Parlamento da un piccolo ponte, gli occhiali con la montatura rotonda, il cappello calato sulla fronte, i baffi in ordine e l’aria triste. Da ieri la statua dell’eroe della rivolta ungherese del 1956 Imre Nagy non è più lì, a pochi passi dalla piazza dedicata a un altro rivoluzionario, Lajos Kossuth che nel 1848 proclamò l’indipendenza dall’Impero asburgico.
Sono arrivati prima dell’alba. La rimozione del monumento è cominciata alle 4 ed è durata non più di un’ora. Prima hanno smontato il ponte di bronzo, che si racconta rappresentasse la strada per la libertà percorsa da Imre Nagy solo a metà. Nel ’56 il primo ministro che cercava un nuovo corso all’interno del sistema comunista con aperture ai principi della liberaldemocrazia occidentale fece in tempo a vedere i carri armati sovietici entrare a Budapest il 4 novembre e a rifugiarsi nell’ambasciata jugoslava. Nagy fu condannato a morte, ucciso e sepolto in una tomba senza nome il 16 giugno 1958.
Oltre trent’anni dopo, il 16 giugno 1989, al funerale di Stato che ormai alla vigilia del crollo del comunismo sancì la riabilitazione di Imre Nagy, i 200 mila raccolti sulla Piazza degli Eroi ascoltarono le parole infuocate di un giovane liberale filoeuropeo. Chiedeva libere elezioni e il ritiro delle truppe russe dal territorio ungherese. Era Viktor Orbán.
È stato il governo Orbán, la scorsa estate, ad annunciare il trasferimento della statua, nell’ambito di un più ampio progetto di riqualificazione urbana. Entro il 2020 al posto del ponte di Nagy sorgerà un Memoriale dedicato alle vittime del Terrore rosso del 1919. Efficace sintesi del percorso di Orbán, che guida incontrastato il Paese dal 2010. Negli anni il dissidente diventato premier si è assestato su posizioni sempre più nazionaliste e autoritarie, tanto da teorizzare l’avvento di un nuovo modello di democrazia illiberale e accreditarsi come leader di fatto di quella controrivoluzione populista che ha trovato il primo bastione europeo nel blocco centro-orientale di Visegrád. Traiettoria inconciliabile con una figura come Nagy, definito in ambienti governativi «comunista dei peggiori» e collaborazionista con il Kgb. Guerra ideologica a liberalismo e socialismo, politiche anti-migranti, individuazione di nemici pubblici come Soros, stretta su media e giustizia sono i volti del sistema Orbán, che di recente ha affrontato le prime proteste per l’innalzamento del limite degli straordinari annuali a 400 ore.
L’opposizione denuncia l’ultima operazione di revisionismo storico, insieme al tentativo di riabilitare il regime filonazista di Miklós Horthy. La memoria, nell’Ungheria di Orbán, è un campo di battaglia.

Repubblica 29.12.18
Ungheria
Orbán fa rimuovere la statua di Nagy eroe di Budapest ‘56


All’alba, quasi in segreto, è stata rimossa dalla piazza del Parlamento a Budapest la statua di Imre Nagy, capo della rivolta ungherese del 1956 contro l’Unione Sovietica. A seguito del fallimento della rivolta, dovuto all’intervento delle forze armate di Mosca, Nagy fu imprigionato e poi giustiziato. Gli esponenti del governo di Viktor Orbán più volte hanno bollato Nagy come “un comunista dei peggiori”, accusandolo di essere collaboratore del Kgb sovietico durante lo stalinismo, mentre nella memoria storica degli ungheresi Nagy, condannato a morte nel 1958, è un martire della rivolta. Le autorità ipotizzano il trasferimento della statua in un altro sito di Budapest, meno visibile, dopo un’operazione di restauro.
Trasferimento che ha finora trovato la contrarietà della famiglia Nagy. Dure critiche a Orbán dall’opposizione.

Corriere 29.12.18
La svolta siriana: Assad in aiuto dei curdi
La protezione del regime per fronteggiare i turchi: è il primo effetto del prossimo ritiro Usa
di Lorenzo Cremonesi


L’esercito siriano posiziona le proprie truppe attorno alla cittadina curda di Manbij, un centinaio di chilometri a est di Aleppo ed estremo avamposto occidentale della regione di autogoverno curdo in Siria, meglio nota come Rojawa. Da Ankara il presidente Recep Tayyp Erdogan replica che si tratta di «un’azione di pressione psicologica» da parte del regime di Bashar Assad. A suo dire «la situazione resta incerta». Nel frattempo l’esercito turco posizionato da quasi un anno all’interno del territorio siriano assieme alle sue milizie alleate sunnite locali rafforza gli avamposti. Ancora Erdogan lascia però capire che, se i regolari siriani dovessero completare il loro dispiegamento lungo tutto il confine internazionale tra i due Paesi, allora la tensione si scioglierebbe, visto che le forze militari curde diventerebbero irrilevanti e non ci sarebbe «più lavoro da fare» per le unità turche e i loro alleati.
Sono queste le conseguenze più dirette del recente annuncio di Donald Trump per il ritiro dei circa 2.000 soldati scelti americani, che dalla fine del 2014 operavano assieme alle forze curde per debellare Isis in Siria. Rispecchiano fedelmente uno dei principi fondamentali delle relazioni internazionali, per cui non può esistere un vuoto di potere: nel momento in cui un attore rilevante lascia il teatro, altri inevitabilmente prenderanno il suo posto. Principio particolarmente pregnante per quest’area contesa del Medio Oriente. Se ne vanno gli americani che sino a ieri hanno aiutato i curdi? La reazione è che i curdi cercano protezione a Damasco per fronteggiare i turchi, loro nemici storici, oggi ben più minacciosi dello stesso Isis. Del resto la mossa era scontata. Anche nei periodi di massima debolezza del regime siriano i curdi hanno evitato lo scontro frontale. I soldati di Bashar sono sempre rimasti presenti nei loro presidi nel centro di Qamishli, la città più importante di Rojawa. E i loro posti di blocco controllano gli accesi sui tre punti di passaggio tra la regione curda e la Turchia. «Noi con Damasco vogliamo l’intesa. Speriamo in una forte autonomia, magari in una confederazione. La nostra bandiera resta siriana», spiegano i dirigenti curdi. Per loro è da guardare come ad un severo monito l’esempio dei «fratelli» curdi del nord Iraq, i quali, a causa del loro miope insistere per la scissione totale da Baghdad mirando ad uno Stato separato, hanno oggi perso quasi del tutto la loro forte autonomia sia politica che economica maturata sin da dopo la guerra del 1991. Ma le speranze dei curdi siriani paiono mal poste. Forte delle recenti vittorie contro gli oppositori, grazie all’aiuto determinate di Russia, Iran e le milizie sciite libanesi dell’Hezbollah, Assad sembra propenso a tornare col pugno di ferro alla situazione pre-rivolte del 2011, senza fare alcuna concessione ai curdi, che erano sempre stati duramente repressi nelle loro aspirazioni autonomistiche, da lui e da suo padre Hafez.
A guadagnare nettamente dal disimpegno americano è nel frattempo Vladimir Putin. Non a caso il presidente russo si è affrettato ad applaudire la mossa di Trump. Nei prossimi giorni il Cremlino sarà al centro di una intensa serie di colloqui. Già domani arriverà a Mosca una rappresentanza di alti dirigenti turchi. La diplomazia russa mira a un compromesso tra Ankara e Damasco. Se ci riuscisse, per Putin sarebbe un successo, con buona pace dei curdi, ormai orfani degli alleati occidentali e costretti a fare buon viso a cattivo gioco.

Repubblica 29.12.18
Dopo l’annuncio del ritiro Usa
I curdi chiedono aiuto alle truppe di Assad
di Giampaolo Cadalanu


Con le truppe turche decise ad andare avanti nel territorio del Rojava, dopo l’annuncio della partenza degli americani, per i curdi della zona autonoma c’erano poche alternative: restava solo la possibilità di guardare dall’altra parte, per chiedere aiuto a Bashar al Assad.
E l’esercito governativo siriano ha già risposto, mostrando le bandiere dentro Manbij, la città che secondo Erdogan sarebbe stata presto al centro di un’operazione delle forze turche. L’avanzata delle truppe di Erdogan era già avviata. Il governo di Ankara considera terroristi alla pari dei militanti del Pkk, i miliziani delle Ypg, le unità di protezione popolare che costituiscono la componente più robusta delle Sdf, le forze curdo-arabe che hanno compiuto le operazioni di terra contro il sedicente Stato Islamico. I convogli di mezzi blindati turchi che superavano il confine siriano non promettevano nulla di buono. La decisione della Casa Bianca, con il ritiro annunciato delle truppe Usa dai “posti di osservazione” nel Rojava, significa nei fatti che i curdi sono stati ancora una volta abbandonati dopo aver fatto gran parte del lavoro più difficile. Fra l’altro è dovuta al loro intervento, e secondo alcune fonti proprio degli uomini del Pkk, la sopravvivenza di buona parte della comunità cristiana della provincia di Ninive.
Stavolta però la situazione sul terreno - e con tutta probabilità anche qualche suggerimento da Mosca - ha imposto alle comunità curde di rivolgersi a Damasco. Lo stesso ministro degli Esteri Sergheij Lavrov aveva indicato nei giorni scorsi che le zone lasciate dalle truppe Usa sarebbero dovute tornare sotto il controllo del governo siriano. In altre parole: se per il momento uno stato autonomo non è realizzabile, per i curdi è comunque meglio vivere sotto il governo di Damasco che morire sotto le bombe di Ankara.
Decisa a non mollare e a colpire le forze del Pkk e delle Ypg, la Turchia contesta il diritto dei curdi di rivolgersi a Damasco, e annuncia l’invio di una delegazione a Mosca per discutere le mosse del governo siriano. Secondo il presidente turco, quella di Damasco a Manbij è solo “un’operazione psicologica”. Ma Ankara ammette che se i terroristi non sono più nella città, allora l’offensiva non è più necessaria.

il manifesto 29.12.18
Capolavori da restituire all’Africa, oppure no
Intervista. Dopo il rapporto che invita a rendere ai paesi africani le opere d'arte sottratte in epoca coloniale, in Francia infuria il dibattito. E i musei tremano. Parla l’antropologo Jean-Loup Amselle
di Anna Maria Merlo


La Francia restituirà al Benin 26 oggetti artistici che erano stati rubati dalle truppe coloniali nel 1892 nel saccheggio del palazzo del re Behanzin a Abomey. È il primo gesto, simbolico, che fa seguito a un impegno preso da Emmanuel Macron un anno fa, in un discorso a Ouagadougou, e che segue le raccomandazioni di un rapporto appena pubblicato, redatto dalla storica dell’arte Bénédicte Savoy e dall’economista senegalese Felwine Sarr, che sta suscitando ampie discussioni. La restituzione, difatti, apre questioni etiche, legislative, giuridiche, artistiche. «È come sempre con Macron, che va avanti con un colpo a destra e uno a sinistra, è un modo per recuperare sul terreno delle questioni sociali rispetto alla politica liberista, di cui vediamo oggi gli effetti con i gilet gialli», afferma Jean-Loup Amselle, antropologo ed etnologo, direttore di studi emerito alla prestigiosa Ehess (di recente ha pubblicato, con Souleymane Bachir Diagne, En quête d’Afrique(s): Universalisme et pensée décoloniale, ed. Albin Michel. E nel 2014, Les Nouveaux Rouges-bruns. Le racisme qui vient, ed. Lignes, aveva aperto un’ampia discussione).
Il rapporto Savoy-Sarr suggerisce la restituzione. Lei cosa ne pensa?
Il testo è impregnato di filosofia del post-colonialismo, nel senso positivo del termine. Andando però più in profondità, vediamo che la maggior parte degli oggetti sono frutto di saccheggi realizzati durante spedizioni militari, che trasportati in Francia hanno cambiato di senso. Degli oggetti rituali sono stati trasformati in opere d’arte. Alla base avevano un valore estetico, ma in Africa non erano considerati opere d’arte in quanto tali, è l’occidente che li ha trasformati. La restituzione può aver luogo se è fatta a dei musei africani, ma non come un’azione di richiesta di perdono rivolta ai discendenti di chi li ha realizzati. Questi oggetti sono testimonianze di un passato, sono prodotti di società animiste, ma oggi le società sono cambiate, si sono islamizzate, cristianizzate, non ha senso affermare che vengono restituiti a delle comunità.
L’occidente vuole avere buona coscienza?
La nuova etica della restituzione è legata alla tematica della riparazione. Si cerca la riconciliazione per la schiavitù, la colonizzazione, restituendo oggetti che sono stati saccheggiati in modo brutale. Non sono contrario a questo, ma al modo in cui vengono presentate le cose. Non si possono restituire gli oggetti nel modo in cui sono stati saccheggiati, perché nel frattempo questi oggetti hanno cambiato senso. È stato usato il termine «diaspora», ma questa nozione è contestabile, ha un lato razzialista.
Ci sono già state delle restituzioni, ma si trattava di resti umani, come le spoglie di Saartjie Baartman, la cosiddetta Venere ottentotta, restituita nel 2002 al Sudafrica, o le teste maori, nel 2012 alla Nuova Zelanda. È possibile restituire senza cambiare le leggi? E a chi, visto che gli stati attuali sono frutto di confini coloniali?
Per esempio, Jacques Chirac aveva dato una statuetta al Mali, saccheggiata da soldati nel delta centrale del Niger. Ma era un regalo, non una restituzione. Si può restituire allo stato attuale ciò che corrisponde al luogo dove sono stati saccheggiati. Ma la questione resta: le comunità non sono più le stesse, sono evolute in modo diverso, in differenti stati.
I musei francesi non sono molto entusiasti. Hanno paura che si apra una voragine? Per Stéphane Martin, direttore del Quai Branly, la questione del patrimonio si pone in modo universale e non in maniera nazionale. Cosa pensa di questa reazione?
Nei musei francesi c’è un numero elevato di opere, ci sono riserve molto ricche. Sull’universalismo, il Quai Branly dovrebbe interrogare se stesso, perché, a differenza del Musée de l’Homme da cui viene gran parte della sua collezione, non è universale, visto che non c’è più una collezione europea, divisa tra il Musée des traditions populaires e il Mucem di Marsiglia, ma si limita dall’alto a far dialogare altre culture tra loro, estraendo l’Europa dal confronto. È un museo post-coloniale nel cattivo senso del termine. Il Quai Branly potrebbe fare una grande mostra sul modo in cui sono arrivate le opere, comprate a basso prezzo, saccheggiate durante gli anni coloniali, rubate. Permetterebbe di distendere le relazioni tra Francia, Europa e Africa. Un modo per riflettere sulla colonizzazione, quindi, non solo restituzioni ma anche un lavoro per ricordare al mondo come questi oggetti sono stati acquisiti.

Corriere 29.12.18
Oggi in edicola con il quotidiano parte la serie sulla storia dei grandi capolavori raccontata da Philippe Daverio. Un’attività che ha mutato più volte modalità e scopi attraverso il contributo di geni come Botticelli, Caravaggio e Michelangelo. Fino alla dimensione concettuale e alle moderne tecniche digitali
Colpisce e incanta ma sa far riflettere
La magia dell’arte
di Pierluigi Panza


Che cos’è l’arte? Nel corso della storia, il termine «arte» è stato utilizzato per definire tante cose diverse, come la nuova iniziativa del «Corriere della Sera» consentirà al lettore di osservare. E per capirlo basta ripercorrerne le vicende.
Alla fine del Medioevo l’arte è stata due cose: un’attività artigianale — e qui il termine arte era corrispettivo del greco téchne, ovvero «perizia», «saper fare» — e il sostitutivo di una reliquia. L’arte era dunque artigianato, un’operazione di maestri anonimi che realizzavano vasi, crocefissi, cassoni o portali delle cattedrali «a regola d’arte». Non ancora riuniti in gilde o corporazioni, questi artisti anonimi facevano parte della classe popolare, di coloro che «lavoravano con le proprie mani» e non studiavano; trasmettevano le loro conoscenze empiriche direttamente agli allievi. L’arte, però, specie le raffigurazioni dei santi e dei martiri, aveva anche la funzione di mostrare agli illetterati i misteri della fede. E ove non c’era un sacro osso o una qualsiasi reliquia portata dall’Oriente davanti alla quale inginocchiarsi e pregare, l’arte confezionava un sostituto su misura: l’immagine sacra.
L’arte divenne una sfida estetica con il Rinascimento, quando al principio aristotelico dell’arte come imitazione della Natura si affiancò quello del modo, della maniera con cui effettuare l’operazione: qualcuno eccelse nello stile, come Raffaello o Michelangelo, altri sprofondarono nell’oblio. Assunti a stipendio o donativi come artisti di corte, i pittori restavano a quel tempo degli asserviti al loro signore, salvo a raggiunta notorietà: allora aprivano una bottega in proprio e non si facevano pagare solo in base a tempo, dimensioni della tela, numero di teste o osto dei pigmenti, ma anche per la loro «arte».
Con il Rinascimento l’artista divenne uno scienziato dello spazio grazie alla scoperta e all’uso della prospettiva, il «metodo» che consentiva di rappresentare gli oggetti in una visione reale, non più accostati come faceva Giotto. Alcuni, come il tedesco Adam Elsheimer, riuscirono persino ad anticipare nei quadri le scoperte di Galileo sulla Via Lattea. Per raffigurare verosimilmente il corpo umano, gli artisti divennero anatomisti e l’arte una raffigurazione «scientifica» del corpo umano. Lo rimase per sempre: ancora oggi il dottor morte, Gunther von Hagens, realizza mostre presentando corpi umani trattati tramite la sostituzione dei liquidi con polimeri di silicone e a Genk il belga Vanmechelen crea galline geneticamente modificate. Leonardo — anatomista tra gli altri — pensò che la pittura fosse una psicologia: i personaggi dipinti dovevano manifestare le passioni dell’animo. La pittura divenne così una fisiognomica che — se vogliamo — anticipò la pseudoscienza di Cesare Lombroso. Il pittore del Re Sole Charles Le Brun disegnò 41 forme di sopracciglia che corrispondevano ad altrettante situazioni emotive. Secoli dopo Heinrich Füssli utilizzò la pittura per raffigurare i nostri incubi notturni: fu il Carl Gustav Jung del pennello.
La pittura divenne anche arte della memoria, ovvero un modo per ricordare concetti attraverso le immagini e la loro disposizione e sequenza esatta: le teste di Arcimboldo rappresentano il massimo esempio. Ovviamente — fino all’avvento della fotografia — la ritrattistica fu la forma testimoniale per eccellenza. L’arte trasmetteva alle generazioni future il nostro volto, era storia per immagini, documento. Van Dyck riempì l’Inghilterra degli Stuart di ritratti. Ancora oggi se uno entra a Wilton House (Wiltshire) sembra che re Carlo e i conti di Pembroke ti stiano aspettando per il tè. Ovviamente l’arte divenne testimonianza anche della realtà più oscura, dalle prostitute-modelle di Caravaggio ai poveri del Pitocchetto: in questo caso, l’arte si fece cronaca del presente. Di tanto in tanto l’arte divenne denuncia, una forma politica per «cambiare la società»: una tentazione ricorrente, molto forte dagli anni Sessanta del secolo scorso a oggi. È l’arte come manifesto politico, critica sociale. Inventata la fotografia come derivato della camera ottica, Canaletto fu mandato in pensione, ma arrivarono gli Impressionisti con la loro tavolozza en plein air, capaci di fissare sulla tela quello che vedevano, ma in maniera particolare: fu la scoperta della molteplicità della percezione. Poi arrivarono gli Espressionisti, e contò solo l’accentuazione caricaturale di ciò che si voleva esprimere.
«È del poeta il fin la maraviglia» sentenziava Marino e l’arte, nel Seicento, ebbe proprio la funzione dello stupefacente: doveva creare stupore attraverso un trucco o attraverso l’incessante ricorso alla novità. Doveva sottrarci dal quotidiano, stupirci. L’arte divenne intrattenimento, l’architettura berniniana un gioco prospettico, la pittura una scena illusionistica, teatro. Poi, nel XVIII secolo, si capì che l’incidenza estetica sulla nostra anima non aveva tempo, non richiedeva novità: un’opera antica riemersa dalle viscere della Terra poteva generare più commozione di una nuova. Nell’arte non c’è progresso e l’arte divenne eterna testimonianza della nostra identità: Apollo si ripresentò alle tavole dei ricchi come se non se ne fosse mai andato via. Quindi venne messo in museo.
Nell’Ottocento romantico l’arte era diventata una forma sintetica per esprimere l’infinito nel finito, la verità (conquistata gradino dopo gradino dalla scienza) in una forma simbolica, anticipatrice: nel Viandante su un mare di nebbia di Caspar David Friedrich l’arte è lo strumento per modificare la nostra coscienza, farci riflettere, generare quello che il filosofo Martin Heidegger avrebbe chiamato «disvelamento». L’arte crea nuovi mondi, possibilità alle quali non avevamo pensato. L’artista divenne un genio, ammirato e riverito, sebbene spesso uno spostato sociale (l’Albatros di Baudelaire), aspetto raramente presente nei secoli precedenti: Rubens faceva il diplomatico e Vermeer dipingeva come secondo lavoro.
Con la nascita della borghesia l’arte entrò nel mercato: si organizzarono Salon parigini, le Accademie d’arte vennero istituzionalizzate e gli artisti incominciarono a esporre opere realizzate su loro ideazione e non su richiesta del committente. Se piacevano, venivano rifatte. Il pittore orientalista francese Charles Landelle rifece lo stesso soggetto (la Femme fellah) 39 volte. L’arte era sempre stata anche merce in vendita sostenuta dai banchieri: ieri i Medici, oggi le finanziarie-sponsor. E spesso l’artista, a fianco delle opere più famose, aveva creato una gamma di sottoprodotti di bottega: un tempo crocefissi e cornicette, oggi, come fanno i vari Murakami o Hirst, delle vere e proprie produzioni brandizzate, magari per Louis Vuitton.
Oggi le cosiddette arti del disegno (pittura, scultura, architettura), così riunite insieme perché sfruttavano un analogo medium per tradurre l’idea in espressione sensibile, si sono nuovamente fuse con le cosiddette arti performative — quelle che chiamiamo spettacoli. Erano già unite dal Rinascimento, quando nacquero i primi sistemi delle arti, come quello dell’erudito Benedetto Varchi.
Questa storia non si fermerà qui. L’arte non è ancora morta per trasformarsi in filosofia, come sosteneva Hegel: nel frattempo diventata arte concettuale, che esprime delle idee, o pseudo tali. La sua storia andrà avanti oltre noi. Già è stata battezzata l’arte digitale. Poi si vedrà.

Repubblica 29.12.18
Gli atelier del pittore
Il tempo si è fermato nella tana di Miró
di Josep Massot


«Voglio che dopo di me tutto rimanga così com’era nel momento della mia scomparsa».
Le parole di Joan Miró (Barcellona, 1893 - Palma di Maiorca, 1983) risuonano ora con la voce di suo nipote, Joan Punyet Miró, nel video che prepara il visitatore che voglia scoprire il laboratorio maiorchino dell’artista, progettato dall’architetto Josep Lluís Sert nel 1956, e ora presentato al pubblico, restaurato e ricostruito al millimetro, proprio come l’artista lo lasciò quando morì.
«Non posso lavorare seriamente senza aver prima creato un ambiente favorevole a farlo», diceva Miró, e quell’ambiente lo ha restaurato un team guidato da Patricia Juncosa.
Raramente si ha occasione, quando si tratta di artisti di statura internazionale, di respirare la loro atmosfera.
Questo è stato realizzato nel laboratorio Sert: ogni goccia di pittura, ogni ritaglio di giornale appeso con puntine da disegno ai muri, ogni oggetto, ogni tela incompiuta, ogni fotografia e ogni pennello sono stati rimessi al loro posto, come se il tempo si fosse congelato.
Il sole, il mare, il silenzio, il cielo azzurro che tanto hanno ispirato l’artista ricevono il visitatore prima che penetri nei segreti custoditi dalla “grotta”, come Miró chiamava il suo studio, perché lì condensava tutti i suoi saperi per creare la magia delle sue opere. «Il laboratorio recentemente restaurato di Giacometti a Parigi ha il contenuto originale, ma non è nello stesso luogo. Quello di Le Corbusier, invece, è nello stesso edificio, ma non ha il contenuto originale», dice Juncosa. «Lo stesso vale per gli studi di Munch a Oslo o per la riproduzione dello studio di Gómez de la Serna a Madrid”, aggiunge Francesc Copado, direttore della Fundació Miró Mallorca, per sottolineare il fatto eccezionale di avere i due studi di Miró, quello di Maiorca e quello del Mas Miró a Mont-roig del Camp, ricostruiti e aperti al pubblico.
Copado spiega che l’iniziativa nacque quando i tecnici evidenziarono la necessità di intervenire per sanare diverse patologie dell’edificio, causate dall’umidità e dalla chiusura dei lucernari che Sert aveva progettato in modo che, oltre che la luce naturale, lasciassero entrare delle correnti d’aria, un’idea ispirata agli edifici dei climi tropicali. Miró, dice Patricia Juncosa, li fece chiudere, perché, ormai vecchio, aveva freddo ma, così facendo, ruppe gli equilibri della costruzione.
Quello che era un problema diventò un’opportunità. Si approfittò dello svuotamento dell’edificio per realizzare una mappatura e un inventario completo delle macchie di pittura sul pavimento, il che ha permesso di avere una visione globale del laboratorio e di ricostruire come Miró si muovesse in quello spazio e come lo usasse, oltre a identificare le macchie di pittura e associarle a opere concrete. Il Dipartimento delle Collezioni ha individuato, grazie a riprese e fotografie di allora, tutti gli oggetti, che, secondo l’inventario, assommano a circa 4.000 pezzi.
In questo modo, è stato possibile ricostruire fedelmente, senza concessioni all’artificio, lo spazio originale degli anni Settanta, l’epoca di maggiore fermento di Miró, e intraprenderne una rilettura. La differenza è che, per preservare le opere originali, le 65 tele esposte sono riproduzioni esatte, realizzate con il consenso e la supervisione della Successió Miró (l’ente fondato dagli eredi che amministra le sue creazioni), dopo aver selezionato, individuato e distrutto le prove.
Questa ricostruzione metodica è una novità di grande importanza, che consente ai ricercatori di approfondire lo studio delle fonti iconografiche di Miró. «La precedente disposizione non funzionava», afferma Juncosa. Si era occupato tutto lo spazio, impedendo di passeggiare tra le sue opere, un metodo essenziale nella procedura di lavoro di Miró. Si erano anche introdotti oggetti provenienti da altri luoghi, mentre mancavano delle opere, trasferite nel vicino laboratorio di Son Boter. «Per un artista che dava tanta importanza alla riflessione sull’equilibrio, al vuoto e al pieno, recuperare questo elemento era urgente, così come poter immaginare, grazie alla mappatura delle gocce di pittura, i suoi movimenti nel laboratorio», dice la conservatrice della fondazione.
La realizzazione dell’inventario ha permesso di scoprire che ci sono diversi oggetti duplicati nei laboratori di Mont-roig e Palma di Maiorca, che ci fanno comprendere le sue fissazioni: un ritratto di Pablo Picasso, un altro di Joan Prats, un sole di foglie di palma, una zucca, un pesce palla, un’altalena, diverse cartoline.
Quando Sert finì i lavori dello studio di Maiorca, nel 1956, Miró rimase paralizzato e per tre anni non dipinse a olio. Il motivo non era solo la sua dedizione al lavoro grafico e ai murales in ceramica, ma la stranezza del sentirsi in uno spazio disabitato. Per rimediare, si dedicò alla creazione di una sua pinacoteca, raccogliendo oggetti trovati sulla spiaggia, in campagna o per strada: scheletri di conchiglie, rane, ratti o pipistrelli; pietre; fil di ferro; strumenti per lavorare la terra... «Presto penseranno che sia un vagabondo», si preoccupava sua moglie, Pilar Juncosa.
– Traduzione di Luis E. Moriones ©Josep Massot/ EL PAÍS

Repubblica 29.12.18
Nick Nolte “Il cinema è l’unica salvezza per la Terra distrutta”
di Arianna Finos


PAESTUM Barba lunghissima e tunica chiara, Nick Nolte ha il physique du rôle da profeta biblico, ma con la giusta dose di ironia.
In Last Words di Jonathan Nossiter, favola ecologista tra poesia e apocalisse sugli ultimi sopravvissuti nell’anno 2085, interpreta il solitario Shakespeare, 124 anni e la voglia di andarsene dal pianeta sterile e senza più energia guardando i capolavori del cinema alla Cineteca di Bologna. «Solo che non puoi decidere tu quando far arrivare la morte. E così annaspa.
Ritrova, suo malgrado, uno scopo quando incontra Kal, un giovane africano a cui insegna a usare la macchina da presa per ritrarre, ultimo cineasta, quel che resta dell’umanità». Il film è tratto dal romanzo Mes derniers mots di Santiago Amigoreno, che co-firma la sceneggiatura con Nossiter, produce Donatella Palermo ( Fuocoammare, Cesare deve morire) con Rai Cinema. La troupe è stanziata vicino al mare, nel Parco Archeologico di Paestum.
Sotto il tendone comune Nolte mangia con diligenza il tacchino nell’allegria generale. Al suo fianco, bicchiere di vino in mano, siedono Alba Rohrwacher e Stellan Skarsgård, Charlotte Rampling è nella roulotte che si prepara al ciak e Kalipha Touray — il giovane rifugiato che Nossiter ha trovato nel centro di accoglienza di Palermo dopo aver provinato centinaia di attori a Londra — ha l’aria preoccupata: «Rispetto ai primi giorni va meglio, Nick mi aiuta e mi insegna tanto». Si gira una scena sulla spiaggia da post apocalisse. Il mare in tempesta, lamiere, falò accesi e un pesce enorme allo spiedo. «L’ultimo esemplare rimasto», spiegherà Nolte ai giovani del gruppetto che conoscono solo cibo in polvere. Ci viene chiesto di allontanarci dal set perché è prevista una scena di nudo collettivo, malgrado il vento freddo e l’umidità, che tutti hanno accettato senza problemi.
«Malgrado i nostri corpi, mio, di Charlotte e di Stellan, abbiano conosciuto maggiore splendore, non abbiamo problemi nel metterci al servizio del film». (Poi la scena è stata modificata perché «a restituire il profondo senso di intimità e condivisione bastavano i loro sguardi», Nossiter). Sono previste 12 settimane di riprese tra Italia, Francia, Croazia, Grecia.
E Nolte sarà in quasi tutte le scene. Una fatica che l’attore, 77 anni e una carriera lunga 200 film tra Hollywood e cinema indipendente, accetta in nome della causa ambientalista.
«Jonathan è venuto da me mentre giravo un film a Berlino. Abbiamo mangiato e parlato molto di quello che sta accadendo al pianeta.
Mi ha dato un’impressionante mole di documenti, studi, articoli.
Tutti concordi nel dire che abbiamo già passato il limite.
Non mi interessano i film di fantascienza che scommettono su quale sarà il futuro dell’uomo e della società. Ma questo è un film profetico e non c’è un regista migliore di Jonathan per girarlo.
Io, Stellan e Charlotte abbiamo voluto esserci». Una lunga pausa, poi aggiunge: «È passata l’era in cui lottavo per il successo. Non ho nessun traguardo materiale da raggiungere. Faccio scelte dettate dalla spiritualità e questo è un film che parla d’amore e di spirito».
Il personaggio che interpreta si chiama Shakespeare e sarà la guida del giovane Kal. «È uno Scrooge nel deserto. Ha perso tutto, la famiglia, gli amici, da tanto tempo. Prima scaccia Kal, ma poi lo aiuta a trovare uno scopo nella vita, lo trasforma nell’ultimo cineasta sulla terra, si mette in viaggio con lui e incontra l’ultimo residuo dell’umanità. È un film pieno di morte, ma anche di vita. Di speranza, malgrado tutto». Shakespeare custodisce gli ultimi spezzoni di pellicola dei grandi capolavori del cinema. Ed è di grande suggestione la scena ambientata al tempio di Paestum in cui, davanti a un centinaio di comparse vestite di stracci, vengono proiettate sul teatro le immagini. «È stato emozionante.
Guardando quei frammenti mi sono dimenticato che stavamo girando. Chaplin, Fellini… un’esperienza indimenticabile».
Se gli si chiede quale frammento di un suo film sceglierebbe taglia corto: «Ho la memoria a breve termine e per me l’ultimo film è sempre il più importante. E questa è una storia estrema». Ragiona su come potrà essere accolto il film in patria. «Immagino le reazioni: in America non può succedere... Ma abbiamo un presidente tutt’altro che consapevole sull’ambiente.
Trump ha ridefinito il concetto del ridicolo, non c’è umorismo che tenga di fronte a questa realtà. Ha tolto ogni dignità al suo ufficio.
Il mondo deve affrontare questa situazione, l’instabilità che ne consegue. Sono preoccupato per mia figlia». Con Sophie Lane Nolte, undici anni, ha girato Head full of honey, remake di un film tedesco firmato dallo stesso regista, Til Schweiger, il viaggio agrodolce di un nonno malato di Alzheimer con la nipotina, l’unica in famiglia che sembra in grado di comprenderlo: «Il personaggio mi ha ricordato mia nonna, che soffriva di demenza. Ero l’unico ad ascoltarla mentre parlava con le persone del suo passato.
E provavo a interagire con lei.
Sono state le mie prime prove di recitazione». L’idea di far recitare Sophie è arrivata quasi per caso: «Ha talento, spero che segua la sua passione. Per il mio paese spero invece in una politica che torni a parlare di gentilezza, condivisione compassione, generosità».

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