Repubblica 18.1.19
Il reportage
La Tunisia a sette anni dalla Primavera
Nella città ribelle Kasserine dove l’ombra della jihad oscura la voglia di riforme
di Giampaolo Cadalanu
Di che cosa stiamo parlando
Le
speranze suscitate dalla Rivoluzione del 2011 sono ormai scomparse: in
Tunisia la delusione è diffusa. I sindacati, che ieri hanno paralizzato
il Paese con uno sciopero, ormai rappresentano solo una fetta della
popolazione. E fra i giovani, con la disoccupazione alle stelle, si fa
largo la tentazione di gesti disperati
Nell’anniversario del sacrificio di Bouazizi si è dato fuoco un reporter. " La gente è stanca e disillusa"
Rabbia e sospetti
Qui
accanto, Abderrazek Zorgui, il giovane giornalista di Kasserine sul cui
suicidio ci sono dubbi. Nella foto a sinistra lo sciopero generale
indetto dai sindacati Ugtt che ieri ha paralizzato la Tunisia
KASSERINE
Avevano promesso che la piazza del Municipio sarebbe stata trasformata
in un salotto e dedicata ai Martiri della Rivoluzione. E che magari si
sarebbe riaperta anche la vicina stazione ferroviaria, togliendo
Kasserine dall’isolamento. Ma non è successo. Alla fermata del bus i
ragazzi rabbrividiscono nell’aria gelida: «Qualcuno si è mangiato i
soldi. Nulla è cambiato». Così lo slargo dove il 24 dicembre Abderrazek
Zorgui ha fatto gli ultimi passi della sua vita, avvolto dalle fiamme, è
ancora il luogo trascurato di sempre. Neanche i festoni di bandierine
rosse con la stella e la mezzaluna, esposte per l’anniversario della
Rivoluzione, riescono a rallegrarlo. E se a Tunisi le celebrazioni sono
poco seguite, a Kasserine gli entusiasmi sono scomparsi del tutto.
Sette
anni dopo il sacrificio di Mohamed Bouazizi, che fece partire la
rivolta in tutto il mondo arabo, giovani tunisini brandiscono ancora la
bottiglia di benzina per esprimere la rabbia.
Con i prezzi in
crescita rapida, il dinaro in caduta e la disoccupazione reale stimata
al 40 per cento, delle speranze suscitate nel 2011 resta ben poco. E
questa non è solo una delle zone più depresse, è anche quella dove la
percezione di abbandono è più forte. «Fra venti minuti mi immolerò nel
fuoco. Se solo un disoccupato di Kasserine troverà lavoro, il mio
sacrificio non sarà stato vano», proclamava Abderrazek in video.
Un
anziano avvolto nel burnus accelera il passo davanti al monumento per i
cinquant’anni dell’indipendenza nazionale, che il giornalista 32enne ha
usato come sfondo nel videomessaggio di addio alla vita. «Chiediamo
lavoro, e ci sentiamo rispondere che c’è il terrorismo. È come dire:
tacete e crepate di fame», diceva fra l’altro. Basta guardare i due
blindati "Kirpi", con tanto di soldato alla mitragliatrice, che avanzano
lenti fra le auto, per ricordarlo: a Kasserine l’ombra dei jihadisti
blocca ogni possibile ripresa. Siamo fra il monte Chambi e il Sammema,
roccaforte di gruppi come Okba ibn Nafaa, affiliata ad Al Qaeda nel
Maghreb islamico, o Jund al Khilafah, che fa riferimento all’Isis.
Ma
sulle reali intenzioni di Zorgui ci sono molti dubbi. Il giovane era
tranquillo, fumava, addirittura sembrava ripetere parole imbeccate da
qualcuno vicino a lui. «Al telefono mi ha detto: forse se mi do fuoco
qualcuno ci darà lavoro», racconta Safwa Guermazi, la collega precaria
di Telvza tv con cui Zorgui lavorava.
«Io non ci credevo, sapevo
che era una persona solare, sempre allegra. Per tutti noi era "Rzouga"’.
Aveva tanti progetti, amava il suo mestiere. Sul telefono mi ha
scritto: ho il cuore colmo, non ne posso più. L’ho richiamato, e mi ha
detto: è un gesto dimostrativo, non voglio andare fino in fondo».
Che
cosa è successo veramente, a Kasserine? Il suicidio simbolico, che
subito ha spinto altri giovani a darsi fuoco, e che poteva far ripartire
la rivolta, sembra non essere stato un suicidio, ma la fine sfortunata
di una messa in scena, o forse un atto preordinato, per riaccendere la
rivolta. Ma contro chi, se Ben Ali è in esilio e la Tunisia, fra passi
falsi e problemi degli inizi, è una democrazia?
Nel video girato
da un passante a piazza Municipio si vede il giovane versarsi la benzina
addosso ma poi sembra che sia qualcun altro a far scattare la
scintilla. Hamma, fratello maggiore di Abderrazek, rallenta il filmato e
indica un ragazzo che tiene ancora l’accendino in mano quando Rzouga,
coperto dal fuoco, corre verso di lui. La stampa tunisina lo identifica
come Youssef, un "rappeur" diciottenne. Ha confessato, dice la polizia:
volevamo fare una provocazione, ho fatto scattare l’accendino per
seguire la messa in scena, ma il fuoco è partito all’improvviso…
All’idea del suicidio, gli amici del bar Panorama non hanno creduto un
momento: «Rzouga era un’anima leggera, sempre allegro.
Una volta
ha preso in prestito la mia moto e poi mi ha chiamato: senti, la polizia
mi ha fermato, non avevo documenti, si sono tenuti la tua moto. Era
contento di lavorare. Se qualcosa si rompeva, lui aggiustava tutto con
cacciavite e fil di ferro: lo chiamavamo Rzouga made in China »,
racconta con gli occhi lucidi Anis. Anche il lavoro con la tv, pagato
poco e non sempre, lo entusiasmava.
«Quando dalla sede centrale
gli dicevano: non ci sono soldi per questo servizio, lui partiva lo
stesso, anche con mezzi di fortuna, dicendo: i soldi si troveranno»,
insiste Safwa.
Aveva tanti progetti: servizi non finiti per la tv, un viaggio in Francia. E un altro figlio in vista.
La seconda moglie di Rzouga, Hedia, al settimo mese di gravidanza, non crede ancora che Abderrazek l’abbia lasciata sola.
«Nell’ultimo periodo usciva con amici nuovi. Lui si fidava di tutti.
La
sera del 24 è rientrato dopo le 4 del mattino. Parlava in modo strano,
sembrava un robot. Gli ho chiesto: che hai? Mi ha risposto: sono stufo,
forse non mi vedrai più. Io: guarda che c’è un bambino in arrivo. E lui:
ci penserà Dio. Poi si è alzato, aveva sete, beveva e non riusciva a
placarla».
L’arsura incontenibile, dicono gli esperti, fa pensare
che Rzouga abbia assunto, forse senza saperlo, oppiacei o ansiolitici
forti.
Molecole che influiscono sul comportamento, fino a spingere
persone equilibrate ad atteggiamenti maniacali. Ma la polizia di
Kasserine non lo sa, perché stranamente non ha interrogato la donna. Il
fratello Bahri aggiunge altri elementi di dubbio, raccontando che
l’autopsia non è stata fatta perché le autorità mediche hanno accelerato
la sepoltura, dopo che i presunti amici di Rzouga avevano montato una
finta protesta all’ospedale, distruggendo i macchinari con il pretesto —
falso — che l’amico si era dato fuoco perché malmenato dalla polizia.
Un
suicidio che non è un suicidio: la passione tunisina per le teorie
complottiste suggerisce mille scenari più o meno plausibili, nella
guerra per bande che caratterizza la politica locale, a suon di dossier e
minacce, fra la scoperta di squadre armate di partito e il ritorno
delle bandiere salafite sull’avenue Bourghiba. «In Europa pensate che
non sia possibile bruciare vivo un giovane per poi strumentalizzare la
sua morte? Ma qui c’è gente pronta a dar fuoco al Paese», dice Zied el
Heni, commentatore di La Presse.
Chokri Baccouche, direttore di Le
Quotidien, spiega che c’è un solo motivo per cui, nonostante la
delusione per la scomparsa dei sogni del 2011, l’incendio di Kasserine
non è divampato in tutto il Paese: «Se il fuoco non si è diffuso, è solo
perché la gente è stanca e disillusa. Ma qui la fiamma cova sotto la
cenere».