La Stampa 18.1.19
L’Italia che non è stata
Nei programmi di don Sturzo una diagnosi dei mali che ci affliggono ancora oggi
di Alberto Mingardi
Il
18 gennaio di cent’anni fa, con l’appello ai «liberi e forti», nasceva
il Partito popolare. Nasceva nell’albergo Santa Chiara a Roma grazie
agli sforzi di un sacerdote siciliano, don Luigi Sturzo. Per anni
all’evento si è ripensato come fosse il primo passo della futura
Democrazia cristiana. Per poco meno di cinquant’anni pilastro del
governo nel nostro Paese, è difficile dire che la Dc non sia stato un
partito di straordinario successo. Ma l’eredità sturziana nella Dc è
stata in larga misura una questione cerimoniale. La politica di massa,
in un Paese in turbinoso sviluppo ma ancora diviso, scisso da fratture
economiche, politiche, geografiche, esigeva un conservatorismo
pragmatico, a suo agio con l’arte del compromesso.
Nell’appello
del 1919, don Luigi Sturzo parte invece dalla necessità di trovare
nientemeno che l’«equilibrio dei diritti nazionali con i supremi
interessi internazionali e le perenni ragioni del pacifico progresso
della società». Il dodicesimo punto del programma del partito chiama
addirittura in causa la Società delle Nazioni e tratteggia relazioni
internazionali in cui alla forza si sostituisce il solo diritto:
«arbitrato, abolizione dei trattati segreti e della coscrizione
obbligatoria, disarmo universale».
Violenza nera e violenza rossa
La
Prima guerra mondiale è appena finita, sfila il feretro delle
annichilite dinastie europee, il mondo del Congresso di Vienna sembra
lontanissimo e la sfida per tutti è quella di trovare una formula
politica all’altezza dei tempi della democrazia sulla cui forza
travolgente, dopo l’intervento statunitense, non ci sono dubbi.
In
Italia le cose andranno diversamente, il reducismo travolgerà le forme
della democrazia borghese, lo scontro tra violenza «nera» e violenza
«rossa» finirà con la vittoria del demagogo con maggior istinto
politico. L’appello ai liberi e forti è stata un’altra delle occasioni
perse della nostra storia, una porta che non si è mai aperta su un Paese
diverso.
Anche il suo promotore era un grande eccentrico: nato a
Caltagirone in una famiglia dell’aristocrazia locale, la vocazione di
Sturzo era stata l’abito talare e, con esso, la filosofia e
l’insegnamento. Con la lettura dell’enciclica Rerum novarum di Leone
XIII aveva scoperto i temi sociali e politici. Ci si immerse con
dedizione totale: le esperienze nell’associazionismo (fondò una Cassa
Rurale e una mutua, partecipò all’Opera dei Congressi e all’Azione
cattolica) e nell’amministrazione (fu consigliere provinciale e
pro-sindaco di Caltagirone) gli consentirono una conoscenza di prima
mano dell’economia e della società meridionale, che ne ispirarono
l’azione politica.
Libertà e autonomia
Nel 1919 provò a
costruire un partito aconfessionale, per «rappresentare laicamente gli
interessi ed i valori dei cattolici», come ha scritto Flavio Felice.
L’essenza dell’appello e del programma del Partito popolare è un
rovesciamento della piramide dello Stato. Non erano le istituzioni
pubbliche a dover «fare gli italiani»: semmai erano questi ultimi a
dover imparare a farsi carico dei bisogni sociali, organizzando
liberamente i propri sindacati, le proprie iniziative di beneficenza e
assistenza, riconoscendo la libertà dell’insegnamento e spezzando il
monopolio educativo.
Soprattutto, però, gli enti locali dovevano
trovare «libertà e autonomia», con un «largo decentramento
amministrativo» che affonda le sue ragioni nella storia dei territori
italiani e nella «necessità di sviluppo della vita locale». Ciò
soprattutto in quel Mezzogiorno che era al centro delle preoccupazioni, e
delle riflessioni, di Sturzo. L’Italia unita aveva preso a modello la
Francia, dove «le leggi scritte, stilizzate fino all’ultima virgola, i
regolamenti di esecuzione sino ai più minuti dettagli, partono dal
centro, dall’unità di dominio e di interessi» (così in un discorso del
1923). Ma un Paese plurale per geografia e economia era federalista per
vocazione, e non poteva che sentirsi soffocare in una rigida armatura
centralistica.
A tre anni dalla fondazione del Partito popolare,
in un discorso su «Crisi e rinnovamento dello Stato» Sturzo ci consegna
un’analisi che sembra strappata alla più stringente attualità. L’aumento
«esagerato, ipertrofico delle funzioni degli enti pubblici» ha fatto
del ceto burocratico «il vero e reale detentore del potere e
dell’amministrazione». Il potere è spartito e diviso tra «l’elemento
formalista, analitico, pedante dei ministeri e quello faccendiere,
procacciante, parassitario dei trafficanti sul pubblico denaro». Si era
compiuto «il fatale passaggio del potere legislativo e politico dal
parlamento al governo e dal governo alla burocrazia». Nel 1924 prende la
via dell’esilio: da una frequentazione di prima mano del mondo
anglosassone, il sacerdote cattolico trarrà conferma delle proprie
intuizioni.
Dopo la guerra, Sturzo parla delle tre «male bestie»:
la partitocrazia, lo statalismo e l’abuso del denaro pubblico. Da
senatore a vita siede nel gruppo misto, e non in quello della Dc.
L’appello
ai liberi e forti, dunque, e in generale l’opera di Sturzo, ci appaiono
oggi come una reliquia di un’altra Italia, un’Italia che non è
esistita. La diagnosi dei problemi dell’Italia esistente è valida oggi
come cent’anni fa, e oggi come cent’anni fa prevale il desiderio di non
trarne le conseguenze.