Corriere 18.1.19
Cento anni dopo
I cattolici e gli spazi in politica
di Ernesto Galli della Loggia
Chi
oggi legge l’«Appello al Paese» con cui esattamente cento anni fa, il
18 gennaio 1919, don Luigi Sturzo gettò le fondamenta del Partito
popolare, dando così avvio al pieno protagonismo nella vita politica
italiana da parte dei cattolici, che fino allora se n’erano tenuti fuori
a causa dell’antico contrasto risorgimentale tra la Chiesa e lo Stato
unitario, è colpito soprattutto da un aspetto: dal carattere
intrinsecamente politico di quel testo, tutto calato nell’immediatezza
dei problemi del momento.
Sul piano generale ad esempio nessun
accenno all’antico contrasto suddetto, nessuna evocazione di un qualche
non meglio precisato «bene comune» da perseguire e, nonostante che
fossimo a poco più di un mese dalla fine della guerra, nessun accenno
neppure al tema dell’«inutile strage» (saggiamente lasciato al
disfattismo suicida dei socialisti). Piuttosto, invece, la
rivendicazione dei «vantaggi della vittoria conquistata»,
un’identificazione sottolineata nella «nostra Italia che per virtù dei
suoi figli, nei sacrifici della guerra ha con la vittoria compiuta la
sua unità e rinsaldata la coscienza nazionale», e poi una lunga serie di
punti concreti: dall’appoggio all’internazionalismo di Wilson in
politica estera alla richiesta di una legge elettorale proporzionale,
«non escluso il voto alle donne» (allora non voluto da alcuna forza
politica).
A ncora: dalla rivendicazione della libertà religiosa e
d’insegnamento alla lotta contro l’analfabetismo, dalla difesa della
famiglia all’abolizione della coscrizione obbligatoria, dall’istituzione
delle regioni alla richiesta di una vasta legislazione sociale, dalla
libertà per «le organizzazioni di classe» alla tutela della piccola
proprietà.
Naturalmente non venivano certo taciute le radici
dell’appello nei «saldi princìpi del cristianesimo che consacrò la
grande missione civilizzatrice dell’Italia» (si noti l’insistenza sul
tema nazionale presente nel testo), ma esso, com’è noto, era rivolto «a
tutti gli uomini liberi e forti (…) senza pregiudizi né preconcetti,
perché uniti insieme propugnino nella loro interezza gli ideali di
giustizia e di libertà». In quanto tale il programma poi non aveva nulla
di specificamente cattolico (tranne forse per la «difesa della
famiglia» che sottintendeva un no al divorzio, allora del resto di là da
venire). Il suo, in definitiva, era un contenuto schiettamente
democratico-liberale. E chi si trova oggi a ripensare la vicenda
politica dei cattolici che cominciò un secolo fa, e che li vide per
circa mezzo secolo al governo con un loro partito dal 1945 al 1992, deve
riconoscere che in tale vicenda questa matrice si è conservata
fondamentalmente inalterata.
Nella sostanza, insomma, l’esperienza
del cattolicesimo politico italiano e del suo partito è stata
un’esperienza democratico-liberale: che peraltro si è trovata collocata
storicamente in una posizione marcatamente di centro per effetto della
forte radicalizzazione ideologica delle due ali estreme che ha
caratterizzato tradizionalmente lo schieramento politico italiano fin
dall’indomani della Grande guerra. Collocazione al centro rivelatasi
decisiva sotto due aspetti importanti: per l’autorappresentazione del
partito stesso, per la sua immagine, e perché proprio questo trovarsi
schiacciato così a lungo tra due estreme radicali, per giunta
istituzionalmente delegittimate come i neofascisti e i comunisti, ha
consentito, anzi ha reso in un certo senso obbligata, la convivenza nel
partito cattolico di posizioni che si volevano più o meno lontane
dall’ispirazione di fondo democratico-liberale, contribuendo quindi a
confonderne in parte l’apparenza.
È stato proprio il venir meno di
tale collocazione centrista, in seguito all’avvento della cosiddetta
seconda Repubblica e del suo tendenziale bipolarismo, che ha reso
impossibile la prosecuzione dell’esperienza politica cattolica in
Italia. È accaduto infatti come se l’ispirazione largamente
democratico-liberale che stava dietro il cattolicesimo politico e ne
aveva accompagnato l’intera vicenda non se la sentisse di sopravvivere
alla perdita del «centro» dove la storia l’aveva così a lungo collocata e
dove essa stessa si era così a lungo autorappresentata. Come se per
molte ragioni essa non se la sentisse, non potesse decidere di essere
«di destra» o «di sinistra», come invece le novità dei tempi esigevano.
Da
queste concrete considerazioni storiche più che da alati auspici credo
che dovrebbe partire la discussione riaccesasi di recente su un nuovo
impegno politico dei cattolici italiani: proprio perché oggi la
situazione è mutata. Oggi la morte delle antiche culture politiche di
destra e di sinistra, la crisi evidente del bipolarismo, l’emergere
prepotente di un orizzonte confusamente nazionalista-identitario dai
tratti populisti, mentre ancora sopravvive una Sinistra senz’anima e
senza idee, oggi, dicevo, tutto ciò apre nuovi spazi, ridà una nuova
prospettiva strategica e sembra riattualizzare in misura decisa
l’ispirazione democratico-liberale propria del cattolicesimo politico
italiano. Aggiungendovi un fondo di «popolarismo» il quale può ben
rappresentare il germe potenziale di un populismo «buono» da opporre a
quello cattivo del plebiscitarismo «russoiano» e della ruspa salviniana.
Senza
contare una speranza non irrilevante: che forse l’ambiente cattolico
ancora rappresenta strati della società italiana che per qualità e
preparazione personali, per cultura civica, sono in grado di dare ai
gruppi dirigenti politici del Paese un personale alquanto diverso dai
nani, dalle ballerine e dai capataz che oggi affollano le stanze del
potere.