Corriere 18.1.19
Shlomo nel Sonderkommando
Il destino che Primo Levi non capì
Auschwitz Addetto al trasporto dei corpi ai forni, testimone assoluto della Shoah. Sbagliato parlare di «zona grigia»
di Donatella Di Cesare
Svastiche
nere, impudenti e minacciose, erano comparse d’un tratto a segnare i
negozi degli ebrei lungo viale Libia e nelle strade attigue del
quartiere romano. Di là Shlomo ci passava ogni giorno per tornare a
casa. La vista di quelle croci uncinate lo straziò, lo afflisse. Era
all’inizio degli anni Novanta. Non voleva, non poteva crederci. Ma
qualche tempo dopo, mentre camminava, si trovò faccia a faccia con
alcuni fascisti che volantinavano sbraitando. La tensione era forte.
Qualche passante rifiutava il volantino, rispondeva per le rime. I
fascisti erano pronti alla violenza. Per un attimo ebbe l’impulso di
intervenire. Poi pensò che la risposta sarebbe stata un’altra. Nel 1992
Shlomo Venezia cominciò a parlare.
Dunque esisteva un membro del
Sonderkommando, di quelle Squadre speciali, costrette a operare tra la
camera a gas e il forno crematorio! Era, anzi, un ebreo italiano. Quel
nome, «Venezia», rievocava il tempo in cui i suoi antenati, espulsi
dalla Spagna nel 1492, si erano fermati nella città della laguna, prima
di proseguire per le coste greche. Shlomo era nato a Salonicco il 29
dicembre 1923. Il padre aveva trasmesso ai figli la cittadinanza
italiana, quasi fosse una difesa che avrebbe dovuto proteggerli. In casa
si parlava ladino, o meglio, giudeo-spagnolo, ricordo di quel
leggendario passato perduto. La famiglia tentò di fuggire durante
l’occupazione nazista; furono, però, catturati e deportati ad Auschwitz,
dove giunsero l’11 aprile 1944. A Shlomo fu «iniettato» il numero
182727. Passate le prime selezioni, gli fu proposto un «lavoro
supplementare» per una doppia razione di cibo. «Se avessi saputo che
quel lavoro consisteva nel tirar fuori i cadaveri e portarli al
crematorio, avrei preferito morire di fame; (…) quando compresi era
troppo tardi». Così ha confessato nel libro Sonderkommando Auschwitz,
pubblicato nel 2007 in Italia da Rizzoli e tradotto in moltissime
lingue.
Impossibile immaginare che cosa dovette provare un
ventenne costretto a vivere per mesi accanto ai forni crematori. Quando
scrive Shlomo non indugia su di sé, sulle sue emozioni, sul suo dolore.
Con «onestà irreprensibile» — come ha notato Simone Veil nelle pagine
introduttive dell’edizione francese — ricostruisce la catena
dell’annientamento: dalla discesa negli spogliatoi all’avvio nelle
camere spacciate per «docce», dal trasporto nei forni fino
all’incinerazione. Chi voglia capire che cos’è stata davvero la Shoah,
questa ignominiosa fabbricazione di cadaveri, questa degradazione della
morte, deve leggere la sua testimonianza che non può essere paragonata
ad altre.
Shlomo lo sapeva. Perciò aveva taciuto così a lungo. I
nazisti avrebbero voluto eliminare l’ebreo e il testimone. Lui invece
era sopravvissuto non solo per raccontare la rivolta del Sonderkommando,
la marcia attraverso la neve, la liberazione, ma anche per dire quel
che nessuno avrebbe mai dovuto sapere. Era consapevole di essere il
superstite assoluto. Perché era stato in quel luogo, tra la camera a gas
e il forno crematorio, peculiarità dello sterminio hitleriano, che
sarebbe stato sempre decisamente negato. Shlomo Venezia è il superstite,
non nel senso del testimone terzo, bensì in quello del superteste, in
grado di parlare, per sé e per gli annientati, perché è sopra-vissuto,
rimasto oltre — oltre la camera a gas, il crematorio, lo sterminio.
Unica e preziosa, la sua testimonianza sarebbe stata perciò la più
temuta dai negazionisti.
È tempo, però, anche di sollevare una
questione troppo a lungo tabuizzata. Shlomo Venezia ha rivelato il suo
«terribile segreto» solo dopo la morte di Primo Levi, che aveva puntato
l’indice contro i membri delle Squadre speciali ricorrendo a termini
molto duri, a verdetti non di rado sprezzanti. Proprio in quel contesto
aveva coniato l’espressione «zona grigia» con cui rinviava alla
«complicità» di coloro che erano stati costretti alla colpa.
Aveva
ragione quando scrisse che le Squadre erano state «il delitto più
demoniaco del nazionalsocialismo». Ma per il resto lui, che parlava da
Auschwitz-Monowitz, campo di concentramento, non di sterminio, avrebbe
forse dovuto rivedere il suo giudizio a partire dalla testimonianza di
Shlomo Venezia. Quell’industrializzazione della morte, che nelle
officine hitleriane ha evitato il faccia a faccia con le vittime, è
stato il sapiente trionfo dell’anonimato e l’intenzionale frantumazione
della responsabilità. Così i criminali tentarono in seguito di definirsi
innocenti. E oggi sappiamo che, se c’è stata resistenza, se c’è stata
rivolta, ciò è avvenuto grazie ai membri del Sonderkommando.
Chi
l’ha conosciuto, sa quanto soffrisse di un’angoscia tetra, di una
disperazione sorda, che rischiavano di logorarlo. Dopo il filo spinato
del lager, il pericolo era il silenzio in cui avrebbero potuto spegnersi
le sue parole. Eppure Shlomo, combattente instancabile, ha vinto la sua
battaglia.