Repubblica 18.1.19
Il debito pubblico
La nostalgia del 1789
di Thomas Piketty
Thomas
Piketty, economista francese, studia la disuguaglianza e la
distribuzione della ricchezza. Tra i suoi libri “Il capitale nel XXI
secolo” (Bompiani, 2014) e “Capitale e disuguaglianza.
Cronache dal mondo” (Bompiani, 2017)
Con
i gilet gialli, abbiamo visto sbocciare l’idea di un referendum
sull’annullamento del debito pubblico. Per alcuni, discorsi di questo
tipo, già sentiti in Italia, sono la dimostrazione dell’estensione del
pericolo «populista»: come si può immaginare di non rimborsare un
debito? In realtà la storia mostra che è abituale far ricorso a
soluzioni eccezionali quando il debito raggiunge livelli simili.
Tuttavia, un referendum non consente di regolare un problema tanto
complesso. Esistono tanti modi per annullare un debito, con effetti
sociali molto diversi. Fornirò qui due serie di informazioni, prima di
tutto sulle regole europee attuali e poi sul modo in cui debiti di
questa entità sono stati trattati nella storia.
Cominciamo dalle
regole europee, che suscitano confusione. Molti continuano a citare la «
regola del 3 per cento » e non capiscono perché l’Italia, che aveva
prefigurato un disavanzo del 2,5% del Pil prima di scendere a patti e
attestarsi sul 2%, si ritrovi messa all’indice. La spiegazione è che il
trattato di Maastricht (1992) è stato emendato dal nuovo trattato di
bilancio adottato nel 2012, il fiscal compact. Il trattato sulla
stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e
monetaria (questo il suo nome completo) prevede ormai che il disavanzo
non debba superare lo 0,5% del Pil (articolo 3), fatta eccezione,
tuttavia, per quei Paesi dove il debito è «significativamente inferiore
al 60%» del Pil, che sono autorizzati a far crescere il disavanzo fino
all’1 per cento. Salvo «circostanze eccezionali», il mancato rispetto di
queste regole comporta automaticamente penali. Precisiamo che il
disavanzo di cui si parla in questi testi è sempre il disavanzo
secondario, vale a dire dopo il pagamento degli interessi sul debito. Se
un Paese ha un debito pari al 100% del Pil, e il tasso di interesse è
del 4%, allora gli interessi saranno del 4% del Pil. Per realizzare un
disavanzo secondario limitato allo 0,5% bisognerà avere dunque
un’eccedenza primaria del 3,5% del Pil. Detta in altri termini, i
contribuenti dovranno pagare tasse più alte delle spese di cui
beneficiano, con uno scarto del 3,5% del Pil, forse per decenni.
L’approccio del trattato non è illogico: se si parte dal principio che
non si vuole procedere a un annullamento del debito, se l’inflazione è
quasi a zero e la crescita è limitata, allora solo eccedenze primarie
enormi possono ridurre debiti dell’ordine del 100% del Pil. Però bisogna
misurare le conseguenze sociali e politiche di una scelta del genere.
Anche se tenuti giù da tassi insolitamente bassi, gli interessi
attualmente sono del 2% del Pil nella zona euro: ossia più di 200
miliardi di euro l’anno, da confrontare, per esempio, con i miseri 2
miliardi l’anno destinati al programma Erasmus. È una scelta possibile,
ma siamo sicuri che sia la migliore per preparare il futuro?
Quel
che è certo è che la storia dimostra che esistono altri modi di
procedere. Viene citato spesso l’esempio dei grandi debiti del XX
secolo. La Germania, la Francia e il Regno Unito si ritrovarono con un
debito pubblico fra il 200 e il 300% del Pil nel Dopoguerra, che non fu
mai rimborsato. Venne eliminato nel giro di qualche anno con una
combinazione di annullamenti puri e semplici, inflazione e prelievi una
tantum sui patrimoni privati. La comparazione più pertinente è quella
che riguarda la Rivoluzione francese del 1789. Incapace di far pagare le
tasse ai suoi privilegiati, l’ancien régime aveva accumulato un debito
pari a circa un anno di reddito nazionale, addirittura un anno e mezzo
se si includevano le vendite di cariche e funzioni (che erano un modo,
per lo Stato, di ottenere denaro subito in cambio di redditi futuri
prelevati dalla popolazione). Nel 1790 l’Assemblea ottenne la
pubblicazione nominativa del Gran libro delle pensioni, che conteneva
sia rendite a cortigiani che pagamenti a ex dignitari, con versamenti
dieci o venti volte più alti del reddito medio, che fecero scandalo ( il
confronto con il salario della presidente della Commissione nazionale
del dibattito pubblico, che fa polemica in questi giorni in Francia,
salta agli occhi). Tutto si concluse con l’introduzione di una fiscalità
un po’ più equa, e soprattutto con la «bancarotta dei due terzi» e la
grande inflazione degli assegnati (la cartamoneta emessa dal Governo
rivoluzionario). Al confronto, la situazione attuale è più complessa
(ogni Paese detiene una parte del debito degli altri) e al tempo stesso
più semplice: disponiamo, con la Bce, di un’istituzione che consente di
congelare i debiti e si potrebbe adottare una fiscalità europea più equa
istituendo finalmente un’Assemblea sovrana. Ma se continuiamo a
spiegare che è impossibile far pagare gli europei più ricchi, e che solo
le classi immobili devono pagare, allora ci esponiamo inevitabilmente a
un futuro di rivolte gravi.
Traduzione di Fabio Galimberti