Repubblica 17.1.19
I condannati per lotta armata
Il tutore dei latitanti a Parigi "Qui ognuno adottava il suo italien"
Il barista, l’insegnante, l’imprenditore: così i fuggiaschi hanno costruito la loro seconda vita
L’uomo che li accoglieva per conto della Francia: "Per noi c’era quasi un dovere di soccorso"
di Anais Ginori
PARIGI
Non c’erano criteri prestabiliti. In teoria non dovevamo accettare le
persone accusate di reati di sangue, ma poi si è visto che in molti casi
abbiamo soprasseduto.
Veniva data priorità a chi era in Francia da più tempo, aveva una vita famigliare, un lavoro stabile».
L’uomo che parla è un alto funzionario della République, protagonista dell’ondata di regolarizzazioni degli italiens.
Dietro
alla cosiddetta "Dottrina Mitterrand" c’è stato un lavoro burocratico
meno spettacolare che ha trasformato i latitanti ricercati dall’Italia
in cittadini come gli altri, in grado di beneficiare dell’assistenza
sanitaria, dei sussidi pubblici, di versare contributi per la pensione e
rifarsi una seconda vita alla luce del sole. I fuoriusciti da decine di
formazioni terroristiche, non solo Brigate rosse e Prima Linea, sono
stati diverse centinaia all’inizio degli anni Ottanta. Oreste Scalzone,
icona degli "esuli" Oltralpe, sostiene che arrivarono a seicento.
Alla
fine degli anni Novanta, l’entrata in vigore degli accordi di Schengen è
stato uno spartiacque dal punto di vista amministrativo.
Molti
"esuli" avevano permessi di soggiorno scaduti e rischiavano di essere
espulsi come sans papiers al primo controllo di polizia.
Yannick,
non è il suo vero nome, era allora al ministero dell’Interno guidato da
Jean-Pierre Chevènement. Nella lunga lista di nomi da regolarizzare
venivano allegati dossier con rapporti di polizia su amici, lavoro,
abitudini.
Le autorità francesi sapevano tutto o quasi degli
italiens. Non erano certo fantasmi. Alcuni hanno un bar alimentari a
Parigi come Maurizio di Marzio, 58 anni, un figlio di dodici. Altri sono
stati traduttori e insegnanti di italiano come Giovanni Alimonti.
Roberta Cappelli, architetta, ha lavorato in una casa editrice di
fumetti ed è stata per anni rappresentante dei genitori nella scuola del
figlio.
Sergio Tornaghi, residente a Bordeaux, è stato arrestato
due volte per le richieste di estradizione, l’ultima nel 1998, mentre
accompagnava la figlia a scuola. Dei 94 italiani che dal 1982 sono stati
fermati Oltralpe solo Paolo Persichetti, docente a contratto in
sociologia politica a Paris VIII, è stato riconsegnato materialmente con
un blitz la notte del 24 agosto 2002.
Yannick mostra il biglietto di ringraziamento che ha ricevuto nel 1998 da Marina Petrella.
«Monsieur,
vorrei esprimere la mia gratitudine. Il permesso di soggiorno
permetterà a me e alla mia famiglia di avere una vita più "normale"».
Esattamente dieci anni dopo l’ex brigatista, ormai risposata e con una
seconda figlia francese, viene fermata per un controllo sul libretto di
circolazione. Il sistema elettronico fa tilt, esce la domanda di
estradizione italiana. In carcere Petrella arriva a pesare 40 chili di
fronte alla prospettiva di scontare l’ergastolo in patria. Alla fine,
dopo una lunga battaglia giudiziaria e politica, Nicolas Sarkozy
sospende la procedura per ragioni umanitarie. «La mia cliente fa una
vita ritirata, insieme alla sua famiglia» racconta l’avvocato Irène
Terrel, storico legale dei "rifugiati" Oltralpe.
«Riaprire oggi queste procedure sarebbe inaccettabile, vergognoso, non solo dal punto di vista giuridico ma anche umano».
Yannick
non conosceva molti degli italiani ai quali ha ridato una seconda
chance fornendo nuovi documenti e protezione dello Stato. Non c’era
niente di personale ma si sentiva nel giusto.
«È difficile capire
con lo sguardo di oggi» ripete diverse volte. Da giovane militante
trotzkista, negli anni Settanta aveva fatto un viaggio a Verona da altri
compagni dell’estrema sinistra.
Qualche mese dopo, alcuni autonomi italiani in fuga avevano bussato alla sua casa di Parigi.
«Nella nostra generazione c’era quasi un dovere di soccorso, ognuno adottava il suo italien ».
Senza
questa rete di amicizie, solidarietà politiche e generazionali, non si
può capire come centinaia di latitanti hanno potuto rifarsi una vita in
Francia.
«La dottrina Mitterrand ha funzionato, non ci sono stati
italiani che sono tornati nel terrorismo». Yannick ricorda nel 1997
quando era invitato a una riunione dietro nel decimo arrondissement.
Giorgio Pietrostefani annunciava agli amici la volontà di tornare in
Italia per affrontare l’ultimo processo per l’omicidio Calabresi. I
"compagni" francesi decisero di mobilitarsi, qualcuno ebbe l’idea di far
tradurre il libro di Carlo Ginzburg "Il giudice e lo storico",
pubblicato dopo pochi mesi dall’editore di sinistra Verdier. Tre anni
dopo Pietrostefani è tornato in Francia, un attimo prima che la Corte
d’appello di Venezia lo condanni a 22 anni di carcere per essere stato,
con Adriano Sofri, il mandante della morte del commissario Luigi
Calabresi. Al giornalista Giuseppe D’Avanzo, che lo aveva incontrato
qualche mese dopo, confessò: «La mia vita è ridicola. Ho 56 anni e gioco
ancora a nascondino come un bambino». Da quel momento Pietrostefani è
tornato nell’oscurità di una vita anonima, costruendo un’impresa edile a
Rouen, in Normandia. Oggi è in pensione, i suoi amici sostengono sia
malato. Yannick ci pensa un po’, mette a fuoco il ricordo.
«Credo che quella di Pietrostefani sia stata l’ultima regolarizzazione che abbiamo fatto».