giovedì 17 gennaio 2019

Repubblica 17.1.19
La corsa alla segreteria
Il cuore spento del Pd
di Piero Ignazi


Il bizantino processo di elezione del segretario del Pd ha iniziato il suo percorso con la votazione nei circoli (nuova denominazione di quelle che erano le sezioni; e non si è mai capito la ragione di questo rinnovamento lessicale visto che nella sostanza non cambiava alcunché). La competizione non sta appassionando l’opinione pubblica. Del resto, i due maggiori contendenti, il segretario uscente Maurizio Martina, e il presidente della regione Lazio Nicola Zingaretti, non presentano proposte molte diverse né sono figure con tratti personali divergenti. Il terzo, Roberto Giachetti, fedele alla linea renziana, sembra destinato ad un ulteriore ruolo da cireneo, dopo quello già rivestito nella sfida per il Campidoglio tre anni fa. Lo scarso coinvolgimento registrato fin qui non dipende però soltanto dalle caratteristiche dei leader in lizza. C’è qualcosa di più profondo che impedisce il sollevarsi di entusiasmi collettivi: l’assenza di messaggi emotivi e mobilitanti. All’epoca della sua sortita, Renzi disponeva di due drive potenti: la sua personalità di giovane leader arrembante e fuori da ogni schema precedente, e la sua volontà di far piazza pulita del passato, con lo slogan brutale quanto efficace della rottamazione. Nessuna di queste due risorse, efficacissime nel momento della competizione interna, si è poi trasformata in un progetto politico coinvolgente. Persino le proposte elaborate nel corso delle prime Leopolde, ricche di spunti innovativi al netto di alcune ingenuità, sono state dimenticate o disattese. E negli anni di governo il Pd ha gestito l’esistente. Dove poi ha tentato modifiche di ampio respiro — la "buona scuola" e la riforma costituzionale — ha suscitato più contrarietà che consenso. Alla fine della legislatura il Pd non aveva nulla in mano per farsi identificare con qualcosa di positivo e, allo stesso tempo, mobilitante. O meglio, poteva vantare una buona gestione della finanza pubblica e l’introduzione di importanti diritti civili, ma nulla che fosse paragonabile alla potenza di fuoco del reddito di cittadinanza o della retorica xenofoba-nazionalista. I meriti dei governi Pd sono tutti ascrivibili ad una logica " razionale" e gestionale. Quello che hanno fatto sempre le élite: indicare, e al limite imporre, una via stretta ma virtuosa all’opinione pubblica. In questo schema si cala perfettamente il governo Monti. Il sostegno del Partito democratico al governo Monti, probabilmente dovuto e indispensabile, rifletteva lo spirito di servizio e la logica istituzionale da tempo metabolizzati nel Pd e nei suoi antecedenti storici. La differenza, però, è che un tempo la "responsabilità" dei sindacati così come della sinistra veniva affiancata dalla prospettiva di un futuro diverso, in linea con le idealità e le aspirazioni dei ceti sociali che si identificavano con quelle strutture. Le contingenze che obbligavano a scelte dolorose e impopolari — si pensi agli accordi sulla politica dei redditi firmati dai sindacati nel 1993 — potevano essere accettate perché la sinistra conservava obiettivi di grande respiro: più giustizia, più diritti, più benessere. Quella convinzione che vi fosse un futuro migliore, e che il partito lo perseguisse, si è persa. Persino la rivoluzione renziana, il più grande terremoto culturale che il Pd abbia sperimentato, non è riuscita a riaccendere i cuori. Il Partito democratico si muove in un mare di ragionevolezza e concretezza; il ché è certamente ammirevole. Ma insufficiente. Manca un’idea, o quanto meno una visione, che appassioni. Senza suscitare emozioni il Pd rimane in un angolo. Assomiglia sempre più ad una sorta di grande partito repubblicano lamalfiano: un partito che contribuì grandemente al progresso di questo paese ma grazie al lavoro (sporco?) di altri che coinvolgevano le masse con retoriche infiammanti. In politica, la razionalità, necessaria e doverosa, non basta. Tutti i richiami alle irragionevolezze della maggioranza giallo- verde non servono a nulla se non gli si contrappone qualcosa al livello delle loro visioni — al di là di ogni giudizio su quelle, ovviamente.
Piero Ignazi è professore di Politica comparata presso l’Università di Bologna Il suo ultimo libro è "I partiti in Italia dal 1945 al 2018" (il Mulino, 2018)