Repubblica 17.1.19
Lezioni londinesi
La debole democrazia diretta
di Danilo Taino
La
democrazia diretta non è una semplificazione della politica. Spesso la
complica; e la può avvilire. L’avere posto la scelta sulla Brexit a
referendum, nel 2016, sta facendo vacillare l’opinione pubblica del
Paese culla del liberalismo e della democrazia; e rischia di spegnere la
brillante energia a cui ci aveva abituato la «madre di tutti i
parlamenti», Westminster. Avevamo sempre pensato che una caratteristica
invidiabile al Regno Unito fosse la capacità di produrre una classe
dirigente di buona qualità: l’averla disintermediata con la
consultazione diretta sull’appartenenza alla Ue ha aiutato a farla
sembrare la membership di un vecchio, eccentrico ma inutile club di St.
James. Il risultato è che la debole Theresa May appare, nella sua
testardaggine, come l’unica a pensare che la democrazia non sia la
scelta tra un sì e un no.
Lo strumento del referendum non è una
sciocchezza. Mettere nelle mani dei cittadini la decisione su questioni
rilevanti è un momento alto di democrazia. Può però essere fatto su
questioni risolvibili con una semplice scelta binaria: da una parte o
dall’altra e finita lì. Come si è visto nei mesi scorsi, l’essenza della
Brexit sta invece nel modo in cui Londra intende uscire dalla Ue, negli
accordi che può stipulare con Bruxelles, nel grado di libertà che
intende mantenere. Appunto: il grado. Cioè quel complesso di decisioni,
alcune lineari ma moltissime complicate e a soluzione multipla, che sono
poi le scelte politiche, quelle che non possono essere decise da un sì e
da un no.
I l referendum sulla Brexit è stato simile a un
genitore che avesse proposto alla famiglia di andare in vacanza senza
dire dove: i membri potevano rinunciare ma, se accettavano, solo una
volta in auto avrebbero conosciuto la destinazione. Se si fosse andati
al mare, chi ama la montagna avrebbe forse preferito rimanere a casa. La
scelta non era binaria, andare in vacanza o meno: sapere dove andare
sarebbe stata un’informazione necessaria per decidere se accettare la
proposta del genitore. E binaria non sarebbe nemmeno la scelta in un
nuovo referendum, se davvero i politici britannici dovessero
intraprendere l’avventura, forse più rischiosa di quella del 2016. Se il
primo referendum è stato l’annichilimento della politica, non si
capisce perché non dovrebbe esserlo anche il secondo.
Theresa May
ha fatto un disastro nella gestione del post-referendum. Non solo nella
trattativa con Bruxelles. Soprattutto, non ha dato al Paese un minimo di
visione su cosa sarà, o sarebbe stato, il Regno Unito dopo l’uscita
dall’Unione europea. Ha interpretato la sua leadership in un modo del
tutto difensivo e non era quello che ci voleva per unire un’opinione
pubblica divisa. La sua determinazione a sostenere la necessità di
trovare un accordo con i 27 membri della Ue e il suo rifiuto di navigare
verso un nuovo referendum vanno però a suo onore; e sono il segno che,
dopo un sì o un no, la necessità di fare scelte politiche riprende con
prepotenza il suo posto.
Non è facile stabilire quali materie è il
caso di ammettere al vaglio del referendum e quali no. La Costituzione
italiana prevede che i trattati internazionali non siano sottoposti alla
consultazione popolare diretta. Il clima politico europeo, lo spirito
dei tempi se vogliamo, è però formato anche da spinte che prevedono il
ricorso continuo alla cosiddetta democrazia diretta.
Sono tensioni
che esprimono anche un’insoddisfazione per come la democrazia ha
funzionato negli anni passati e meritano risposte.
Di base, però,
la vicenda della Brexit dimostra che le scorciatoie non esistono. Le
scelte politiche tornano nelle mani dei governi e dei partiti anche dopo
un referendum: solo più difficili, perché nel frattempo hanno
radicalizzato le divisioni su logiche binarie mentre i problemi binari
non sono.
La «madre di tutti i parlamenti» può forse ancora dare
un contributo all’idea di democrazia se è vero che le crisi aguzzano la
mente. Oggi, i politici britannici non sono in grado di trovare una
soluzione al pasticcio in cui hanno condotto il Paese. Forse, dovrebbero
davvero ridare la parola ai cittadini. Non attraverso un referendum:
con una sana, tradizionale elezione politica nella quale i partiti si
presentino con programmi chiari sulla Brexit e su quale genere di
rapporto intendono avere con Bruxelles. Potrebbe vincere il «socialista»
Jeremy Corbyn: in quel caso, pazienza per gli altri. Ma probabilmente è
questa l’unica strada che al Regno Unito rimane per tornare a essere
quel modello di democrazia che il mondo, Europa compresa, gli
riconoscono. In fondo, «la peggiore forma di governo a parte tutte le
altre» di cui parlava Churchill era la democrazia parlamentare. Non
quella diretta.