martedì 15 gennaio 2019

Repubblica 16.1.19
La democrazia e i suoi eversori
di Ezio Mauro


Quasi si portasse addosso l’intera parabola tragica del terrorismo italiano, il caso di Cesare Battisti che è finito ieri in carcere a Oristano dopo 37 anni di latitanza va molto al di là di una vicenda giudiziaria infinita, con le famiglie delle vittime costrette ad attendere l’esito della giustizia per quasi quattro decenni, e lo Stato italiano tenuto in scacco da complicità politiche, criminali e intellettuali di mezzo mondo.
Proviamo a capire.
Battisti, che oggi ha 64 anni, come molti della sua generazione e di quella immediatamente precedente si radicalizza in carcere, dov’è finito per reati di criminalità comune e dove incontra i Pac, i "Proletari armati per il comunismo", una delle sigle minori della galassia eversiva di estrema sinistra, che tra il 1977 e il 1988 firmano numerose azioni terroristiche contro persone collegate al mondo delle fabbriche e delle carceri.
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segue dalla prima pagina È un agente di custodia, Antonio Santoro, la prima vittima uccisa a Udine da un commando in cui Cesare Battisti è in prima linea a sparare, mentre partecipa con compiti di copertura all’assassinio del macellaio Lino Sabbadin, "colpevole" di aver usato la pistola contro un rapinatore, così come il gioielliere Pierluigi Torregiani, colpito a morte lo stesso giorno. Due mesi dopo, i Pac ammazzeranno a Milano l’agente di polizia Andrea Campagna, e sarà ancora Battisti a fare fuoco.
Arrestato a giugno del 1979 anche grazie alla confessione di alcuni pentiti, il terrorista è condannato una prima volta a 12 anni per banda armata, ma nel 1981 evade dal carcere di Frosinone e trova rifugio in Francia. Qui lo seguirà la condanna in contumacia per i quattro omicidi: ma la " dottrina Mitterrand" ( che blocca l’estradizione in Paesi con un sistema giudiziario «non corrispondente all’idea che la Francia ha delle libertà») lo protegge, proprio a causa della condanna in contumacia, che Parigi non prevede.
Quando arriverà l’estradizione — chiarendo che la "dottrina Mitterrand" non si applica a fatti di sangue — Battisti che era entrato e uscito dal carcere è già fuggito in Brasile dove nel 2009 ottiene lo status di " rifugiato", e nel 2012 un visto permanente dal presidente Lula.
Poi il rivolgimento politico brasiliano, l’avvento di Bolsonaro e la minaccia di estradizione: quindi la fuga in Bolivia, e ieri la consegna all’Italia, che con un lavoro di intelligence aveva ristretto il cerchio attorno al fuggitivo.
Tutto questo non sarebbe stato possibile se nel mondo occidentale dove ha scorrazzato per 37 anni Battisti, ci fosse a distanza ormai di decenni un giudizio serio, motivato e condiviso sulla stagione italiana degli anni di piombo. Per dire con chiarezza e senza equivoci che allora un’ideologia è impazzita nella metà campo della sinistra, portando centinaia di giovani a praticare la rivoluzione armata nel cuore della libera Europa, uccidendo persone inermi che credevano di vivere in pace in un Paese democratico.
L’ambiguità del giudizio sul terrorismo, unita all’attività di romanziere che Battisti svolgeva a Parigi gli ha consentito di incarnare agli occhi di troppe persone il ruolo dell’intellettuale perseguitato, mentre è stato un assassino, per il quale l’ubriacatura ideologica non può essere un’attenuante.
Va ripetuto oggi che la vicenda si conclude con quel che abbiamo sempre sostenuto: il terrorismo dei Pac, delle Brigate Rosse, di Prima Linea e delle altre sigle di estrema sinistra è stato un fenomeno criminale contro la democrazia e prima di tutto contro uomini e donne che non potevano difendersi. Non vale invocare ( come ha fatto spesso Battisti, senza mai pentirsi) le bombe fasciste e le stragi di Stato, cioè la debolezza e la compromissione della Repubblica di fronte all’eversione di destra, che va giudicata e condannata autonomamente.
Sia pur fragile e a tratti infedele, quella del dopoguerra in Italia è sempre stata una democrazia, e come tale doveva essere difesa e preservata, anche da chi era all’opposizione nella lunga età democristiana, e chiedeva un cambiamento. Le vittime di Battisti, e di tutti gli altri terroristi, sono gli unici " innocenti" di questa guerra combattuta da una sola parte, una guerra che tuttavia lo Stato è riuscito a vincere, con l’aiuto di tutte le forze politiche democratiche, come testimoniano le bandiere bianche e rosse della Dc e del Pci insieme in piazza contro il delitto Moro.
Dovrebbe ricordarlo il ministro dell’Interno che mangia su Facebook il tiramisù «alla faccia di un assassino comunista»: Battisti è certo un assassino e sicuramente è stato parte di quella deviazione comunista che ha preso le armi, e che però il Pci ha combattuto insieme con gli altri partiti.
Ma altrettanto certamente la lotta al terrorismo si combatte tutti insieme e quando si vince è una vittoria della democrazia — quindi di tutti — che non va usata a fini di parte, immiserendola. Così come quando si augura che Battisti «marcisca in carcere», il ministro dovrebbe ricordare la Costituzione, dov’è scritto all’articolo 27 che « le pene devono tendere alla rieducazione del condannato», non alla vendetta.
Perché, come dimostra la lezione degli anni di piombo, di fronte al terrorismo la democrazia ha il diritto di difendersi: ma insieme ha il dovere di farlo restando se stessa.