Repubblica 12.1.19
Così l’Uomo Nuovo abbatte il sapere delle élite decadute
di Ezio Mauro
Come
si è arrivati alla scissione tra classe dirigente e popolo? Perché si
perde fiducia nella rappresentanza? Quando la politica è arrivata al suo
grado zero? Riflessioni dopo l’intervento su "Repubblica" di Alessandro
Baricco
La prima domanda, leggendo il breve saggio di Alessandro
Baricco, è se possiamo vivere senza un’élite. La seconda è quanto tempo
impiegheremo a considerare élite questa nuova classe di comando che ha
spodestato la vecchia. E la terza, quella che conta, è dove, come e
quando ha sbagliato il ceto dirigente del Paese, fino a suicidarsi nella
disapprovazione generale del cosiddetto popolo ribelle. Fino a
trasportare il termine élite nell’inferno delle parole dannate.
La
teoria classica delle élite presuppone che sia sempre una minoranza a
governare i sistemi complessi, nell’interesse generale. La massa dei
governati, dunque, non può invocare il criterio di quantità per
delegittimare le élite, in quanto il principio democratico della
rappresentanza trasferisce ogni volta con il voto il potere dai molti ai
pochi, che dovrebbero governare in nome di tutti. La guida di una
società politica da parte dell’élite non è quindi di per sé in contrasto
con il principio democratico, naturalmente a due condizioni: che esista
una contrapposizione e una contendibilità permanente del potere, e non
un blocco elitario unico, impermeabile e permanente, e che la formazione
stessa dell’élite sia trasparente, aperta, dinamica, accessibile e
revocabile, basata su criteri di merito riscontrabili e giudicabili
dalla pubblica opinione.
Sono esattamente i due punti- cardine del
meccanismo che ha messo in crisi l’élite davanti ai cittadini.
Ovviamente c’è stato nell’ultimo quinquennio un forte criterio
distintivo tra forze e storie diverse all’interno del parlamento e degli
altri corpi elettivi e decisionali che amministrano il Paese. Ma al di
là delle appartenenze, degli schieramenti e delle tradizioni differenti,
il " pensiero" – e, direi, la postura, il linguaggio, il costume,
dunque l’antropologia – della classe politica nazionale è stato
percepito come omogeneo, unificato, parificato, soprattutto teso a
sostenere una lettura della fase che il Paese stava vivendo
sostanzialmente omogenea. E nello stesso tempo, la classe dirigente
italiana non è mai riuscita a diventare un vero establishment, capace di
coniugare i legittimi interessi particolari con l’interesse generale,
piegandosi in una serie di network autopromossi, autoriferiti,
autogarantiti, capaci di perpetuarsi ma non di rigenerarsi, intrisi come
sono di familismo, di corporativismo, avviluppati nei vincoli di
relazione, nello scambio reciproco di garanzie.
Una bolla chiusa,
dentro la quale – affinché nessuno si senta facilmente assolto – sono
precipitati pezzi interi di quella società che continuiamo
automaticamente a chiamare civile, vale a dire intellettuali,
professori, giornalisti, imprenditori, vescovi, artisti e infine
scienziati, tutti considerati portatori per quota di un privilegio
elitario per aver contribuito a formare una cultura di vertice, e dunque
tutti chiamati senza distinzione a rendere conto della funzione
dirigente che hanno esercitato, ma più ancora – ognuno per la sua quota –
dell’egemonia culturale che l’esercizio di quel potere d’influenza ha
disteso sul Paese.
Colpevoli per definizione, dunque, non per come
hanno esercitato il potere intellettuale, ma per averlo fatto.
Trattandosi non di una rivoluzione, ma comunque di un moto, la spinta di
questo assalto alle élite nasce da un’emozione più che da una teoria.
Potremmo definirlo il sentimento della confisca. C’è come la sensazione
diffusa ( non importa che sia fondata: trattandosi di un turbamento
basta che agisca) di un esproprio di un pezzo di realtà, di una parte
del meccanismo decisionale, di una quota di rappresentanza. Un atto
abusivo, quasi un furto, comunque un’interposizione illegittima. Si
potrebbe dire in termini giuridici: un abuso di posizione dominante,
l’esercizio di un monopolio sull’interpretazione del reale, sulla
rappresentazione del contemporaneo. Come se dal basso fosse salita
improvvisamente questa denuncia: chi vi ha dato il diritto di
sceneggiare il presente e di immaginare il futuro per noi?
L’élite,
nel suo tempo libero dai compiti primari, in fondo fa proprio questo, e
ovunque nel mondo libero: diffonde modelli di società, piega alla sua
lettura la storia e la interpreta, detta le mode, fissa le consuetudini,
costruisce un paesaggio indicando i libri, i film, la musica ( e oggi
bisogna aggiungere i cibi) da seguire, stabilisce cosa è " in" e ciò che
è " out", deposita la tela di una tradizione. Tuttavia non è una banale
guida alle tendenze, ma molto di più. Col suo agire egemonico di
vertice, fissa ogni giorno il metro che misura il divenire della
società, disegna una razionalità del percorso collettivo indicando anche
le nicchie in cui può sfogarsi l’irrazionale, costruisce cioè un’idea
in continuo movimento di normalità, così come arbitra ogni effimera
modernità, distinguendo tra ciò che va conservato e ciò che può essere
speso, decretando fortune e oblio.
C’è un’unica cosa che l’élite
non ha saputo fare: prendere la temperatura del Paese. Non ha ascoltato
l’eco del Big Bang clamoroso tra la società più aperta della storia
umana e la chiusura imposta dalla crisi economica più lunga del secolo.
In questo, è uscita fuori dalla dialettica governanti- governati, si è
separata, impegnata come spiega Baricco a proteggere se stessa dalle
conseguenze della crisi.
Quella dialettica si è interrotta e si è
sventrata, e non producendo più uno scambio politico si è bloccata su
un’altra coppia: dominantidominati. Ecco dove nasce la sensazione della
confisca. Per elaborare la sua lettura della fase e della società,
all’élite infatti non basta il comando. E questa è una buona notizia per
la democrazia: occorre il consenso, una relazione costante con la
cittadinanza, un dispositivo continuamente operante di riconoscimento
reciproco. Sempre i classici spiegano che l’élite siede ( si suppone
scomoda) in cima alle tre piramidi della ricchezza, della deferenza e
della sicurezza, che formano la cuspide del comando, e lo legittimano.
Ma la ricchezza si è spostata tutta nel vertice della prima piramide, e
l’élite non ha saputo tutelarla per tutti, e redistribuirla per molti.
Insieme, se n’è andata la sicurezza, perché la crisi attaccando il
presente si mangia il futuro, arriva la paura, i fenomeni globali sono
talmente ingovernabili da scavalcare il ruolo guida delle élite,
svuotandolo, e diffondendo la sensazione di un mondo fuori controllo,
con la politica – tutta – fuorigioco. In queste condizioni, può
resistere la deferenza? Non c’è più il riconoscimento di un ruolo, per
l’élite, perché salta la condivisione della sua funzione.
La
posizione che occupa appare quindi nuda, giustificata solo da se stessa.
Appunto, una rendita di posizione. Un moderno patriziato.
Un’aristocrazia dopo l’abolizione dei titoli nobiliari. Il venir meno di
questa interpretazione riconosciuta e accettata del momento, da parte
dell’élite, e della sua trasformazione in pensiero comune, genera il
passaggio da cittadino a individuo, la solitudine repubblicana dei
singoli, alimentata dall’unico sentimento collettivo superstite, il
risentimento, che però per definizione si consuma in privato.
Il
risultato è che ognuno si sente autorizzato a pensare per sé, sciolto
dai vincoli del sociale, libero non in quanto capace di esprimere al
massimo le sue facoltà e i suoi diritti, ma in quanto liberato da ogni
obbligazione di comunità, nei confronti degli altri. Un superstite
solitario, dopo il naufragio collettivo della crisi. Ma con la
convinzione di aver accumulato un credito politico che non riuscirà mai a
riscuotere, e che appunto per questo si porta in tasca come una
lunghissima cambiale di rancore privato, da sventolare ogni giorno in
pubblico. Col rancore non si costruisce un progetto politico: ma il
rancore autorizza a presentare a chiunque il saldo delle
insoddisfazioni, a chiedere conto dei fenomeni incontrollabili che ci
sovrastano, soprattutto a dare una colpa universale alla classe generale
che ha governato la crisi. E autorizza il populismo a ingigantire
questa resa dei conti, ideologizzandola e mettendola a base non solo
della sua politica, ma della sua natura.
Così l’élite diventa responsabile di tutto, al di là dei suoi limiti, dei suoi errori e delle sue colpe.
Soprattutto,
poiché l’individuo ribelle vuole essere trasportato nel luogo
immaginario del " Punto Zero", dove non c’è contaminazione col passato e
tutto può essere reinventato sul momento, l’élite è colpevole della
custodia della memoria e della trasmissione di una cultura che nasce
dalla storia e dal divenire del Paese, e le interpreta. Tutto questo nel
mondo nuovo in cui stiamo entrando è sospetto. Come è sospetto il
sapere, la vera e fondamentale causa dello spodestamento delle élite. Il
racconto dell’inganno permanente delle classi dirigenti, del loro
autogolpe perenne, rende infida la scienza, pericolosa la perizia,
nociva la cognizione. Se tutto quel sapere – ragiona l’uomo nuovo – non è
servito a proteggere le mie condizioni di vita, ma viene consumato
soltanto nella cerchia dei sapienti e dei garantiti, allora è una sorta
di bitcoin a circolazione limitata e protetta, una valuta di riserva di
cui soltanto l’élite conosce l’uso.
Il sapere suscita diffidenza
perché è il linguaggio dell’élite, dunque ha un riflesso castale, quindi
viene dal demonio. Il concetto di " nuovo" diventa vecchio. Bisogna
andare oltre, fino all’uomo- vergine, incontaminato perché digiuno di
politica, garantito perché viene dalla luna: innocente perché ignorante,
nel senso più alto del termine, abitante dell’Anno Zero, senza vincoli
di storia, di ideologia, di inclinazioni a destra o a sinistra.
Asettico
e spoglio di qualsiasi eredità, di qualunque coscienza del bene e del
male che hanno segnato la vicenda del Paese, di ogni eredità pubblica e
di ogni tradizione comune, è l’Uomo Qualunque del nuovo secolo, soggetto
ideale per una politica ribaltata dove il carisma si è spostato
nell’indistinto e chiunque può scendere in campo se fin lì lo porta
l’onda del sovvertimento generale. Lo aveva già detto vent’anni fa
Bourdieu: la forza degli uomini nuovi della politica sta proprio nella
mancanza dei requisiti specifici che di solito definiscono la
competenza, dando così garanzie a tutti.
È il rovesciamento
dell’élite: oggi la garanzia viene dal non sapere, dal non essere
conformi al linguaggio degli esperti. Così si bruciano, insieme coi vizi
dell’élite, un deposito di conoscenza, un accumulo di sapienza
repubblicana, una riserva di esperienza, una provvista di conoscenza. La
figura politica che nasce da questo impasto è un governante
d’opposizione, il tribuno romano che Max Weber fondava proprio sulla
rottura, addirittura sull’illegittimità, senza alcun legame con lo
Stato, e tuttavia " sacrosantus" perché protetto dall’indignazione e
dalla vendetta popolare, oltre che dagli dei, corrivi. Ma in fondo,
avevamo già visto tutto nell’età democristiana, con la vecchia polemica
contro il Palazzo. E allora, anche per la nuova élite rivoluzionaria
vale la pena di ricordare la profezia di Pasolini: « I potenti che si
muovono dentro il Palazzo agiscono come atroci, ridicoli, pupazzeschi
idoli mortuari, in quanto potenti essi sono già morti e il loro vivere è
un sussultare burattinesco » .`