il manifesto 12.1.19
Togliattigrad soviet dream
Ultraoltre.
Il progetto della città modello voleva essere una sintesi tra utopia
comunista e socialismo realizzato. La Zigulì oggi esemplare da
collezione. E un'intervista all'urbanista Guido Sechi esperto della
transizione post-sovietica
di Yurii Colombo
MOSCA
Se c’è una città russa che rappresenta il soviet dream questa è
Togliatti. A 992 chilometri a sud est di Mosca sulla direttrice del
Volga che via Samara conduce nel Kazachstan, Togliatti fino alla morte
del dirigente comunista italiano (estate 1964) si chiamava Stavropol’.
Poi Breznev nel 1966 la scelse per farla diventare il principale polo
automobilistico dell’URSS. E per la partnership nell’impresa, come noto,
venne scelta la Fiat ancora gestita per alcuni mesi da Vittorio
Valletta. Una scelta in cui i fattori geopolitici dell’epoca ebbero una
certa importanza, dando la possibilità al più grande partito comunista
d’occidente di giocare un significativo ruolo di intermediazione proprio
mentre la politica della distensione scioglieva i ghiacci della guerra
fredda.
Si stava per avverare il sogno di molti cittadini
sovietici di diventare proprietari di un autoveicolo – fino ad allora ad
appannaggio di ristretti gruppi sociali privilegiati – status simbolo
del consumismo e rappresentazione di un’industria serializzata basata
sulla razionalità autoritaria della catena di montaggio. Lewis H.
Siegelbaum, autore di una insuperata storia dell’industria
automobilistica sovietica, ha sottolineato però come per molti versi
l’automobile ad uso privato, fu solo la “scusa” per progettare una nuova
città-modello che fosse la sintesi e il punto di equilibrio e di
compromesso tra l’utopia comunista del 1917 e il “socialismo relizzato”.
“Le automobili furono il pretesto per la costruzione di una “città
socialista” nel cuore della Russia sovietica (Niznij Novgorod) e più
tardi, negli anni ’60 e ’70, di una nuova città automobilistica sul
Volga (Togliatti) ma non erano un elemento prominente nel design di
quelle città o nelle vite degli operai dell’auto” sostiene lo studioso.
Tuttavia appare esagerata la tesi di Siegelbaum l’idea che l’ostilità al
consumo personale rimase un contrassegno indiscutibile dell’ideologia
sovietica al punto di concentrare la propaganda solo sull’aspetto
industriale e produttivo. Nella società sovietica con la prima
generazione dei baby boomers del “disgelo” krusheviano si stava già
facendo strada da tempo un idea di una soviet way of life in cui di
privatizzazione del tempo libero, vacanze estive e naturalmente l’auto
privata erano caratteri fondanti.
Molto entusiasmo provocava
l’idea stessa che attorno a una fabbrica di ultima generazione che
avrebbe prodotto 660mila auto l’anno (in primo luogo la fiat 124
ridenominata dai russi Zigulì) sarebbe sorta una città tutta nuova: da
paesino di 10mila anime del dopoguerra Togliatti si sarebbe trasformata
alla metà degli anni ’70 in una città di mezzo milione di abitanti.
Tatiana, allora bambina trasferitasi con i genitori dalle vicine
campagne, ricorda l’entusiasmo di allora: “Sentivamo di costruire
qualcosa di meraviglioso. Tutti quanti, anche noi bambini sentivamo di
fare parte del progetto”.
Lo sforzo fu enorme. Lavorarono alla
costruzione dello stabilimento oltre 48mila persone tra operai, tecnici,
ingegneri e studenti della gioventù comunista. Come viene raccontato in
“Storia di Togliatti” giunsero “automobili, bulldozer, trattori, gru da
166 fabbriche del paese, materiali da costruzione da 200 imprese e 40
città”. Più di 1.150 fabbriche dell’URSS fornirono la materiali
elettrici, vernici, strumenti e pezzi di ricambio.
Contemporaneamente
si iniziò a costruire il mega quartiere “Autozavodkskij”: l’area
destinata al progetto della “città da sogno” fu di ben 8893 ettari. La
critica si è spesso appuntata, giustamente, sull’eccessiva
standardizzazione dei quartieri sovietici basati su edifici
prefabbricati e le esagerate dimensioni degli edifici dedicati alle
attività sociali. Va però ricordato che erano previsti, anche a
Togliatti, grandi spazi verdi per il tempo libero. Inoltre gli edifici
residenziali a pannelli prefabbricati, garantirono la possibilità a
molte coppie di mettere su famiglia rapidamente in un quadro sociale
estremamente dinamico dove la popolazione aveva un’età media di 25 anni e
fatto quasi unico in Urss, in controtendenza con i dati nazionali, dove
il numero di uomini era superiore a quello delle donne. Crebbe così una
città caratterizzata da ampie strade e da istituzioni sportive,
culturali ed educative magniloquenti. Per l’architetto francese Faben
Bella la città “assunse una sua unicità”. Quando il 19 aprile quando
vennero prodotti i primi esemplari della versione russa della 124 Fiat,
venivano assegnati anche i primi appartamenti dei nuovi edifici di
“Autozavodkskij”, dando alla città una nuova immagine e dimensione.
Si
trattò dell’ultima chiamata, riveduta e corretta, del millenarismo
sovietico. In ciò si misurava anche tutta la distanza di prospettiva tra
la classe operaia dell’automobile occidentale e quella russa. A Detroit
i lavoratori neri e a Mirafiori i giovani operai meridionali, a cavallo
tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 accendevano i
fuochi della rivolta e del sabotaggio, all’interno di un crogiolo in cui
condizione di fabbrica e social-abitativa si fondeva inestricabilmente.
Di tutt’altro segno l’approccio dei giovani proletari russi che
arrivarono a Togliatti: emigrati selettivamente da varie parti dell’Urss
e armati di orgoglio nazionale produssero un enorme sforzo per
realizzare l’ultimo “sogno socialista”. In questo senso la definizione
di Togliatti come la “Detroit sul Volga” rappresentava una suggestione,
un’aspettativa di mobilità sociale già morta in occidente e che sarebbe
appassita di lì a poco anche in URSS. Togliatti comunque lungi dal
diventare un “paradiso dei lavoratori” riprodusse i tipici fenomeni di
alienazione e estraniazione legati alla vita della fabbrica fordista.
Secondo un rapporto di polizia nei primi quattro mesi e mezzo del 1972,
2.690 persone erano state multate per essere “apparse in stato di
ubriachezza in luoghi pubblici e 2073 erano state arrestate per atti di
teppismo, sotto l’influenza dell’alcool”. Negli anni seguenti il
fenomeno del furto di pezzi di ricambio nella fabbrica si trasformò
rapidamente un vero e proprio vero business della criminalità locale che
alla metà degli anni ’80 aveva ormai coinvolto la dirigenza
dell’azienda, e di lì a poco, con la privatizzazione degli anni ’90,
avrebbe consegnato per alcuni anni le chiavi della città alla mafia.
Togliatti rimase periferica rispetto alle due capitali russe Mosca e
Leningrado, in cui da sempre “si fa la storia”, anche negli anni
turbolenti della perestrojka, ma vide però il sorgere di un grande
sindacato combattivo dentro Autovaz, “Edinstvo”, ancor oggi operante.
Già
alla fine degli anni ’70 Togliatti aveva quindi disatteso molte delle
sue promesse. Il ristagno brezneviano con la sua carenza di capitali e
di investimenti fecero di questa “città-fabbrica” l’ennesimo esempio di
“socialismo irrealizzato”. Allora anche la ruota della dinamica sociale
inesorabilmente si mise a girare al contrario: l’età media degli
abitanti iniziò ad aumentare e le donne tornarono ad essere in
sovrannumero rispetto agli uomini. Inefficienze e burocratismo ebbero
ancora una volta la meglio: l’hotel che avrebbe dovuto sorgere accanto
al centro commerciale “Vega”, ebbe bisogno di più di 50 anni per poter
essere completato!
Ma il “sogno infranto”, seppure come semplice
aura, è sopravvissuto. Quando un referendum negli anni ’90 propose il
ritorno alla vecchia denominazione della città fu respinto con oltre il
70% dei voti. Togliatti resterà Togliatti fino al prossimo sogno.
LA ZIGULì OGGI UN ESEMPLARE DA COLLEZIONE
Il
19 aprile del 1970 dalla fabbrica Vaz di Togliatti, dopo tre anni di
duro lavoro, uscirono i primi 6 fiammanti esemplari di auto modello
“Lada 2101” (meglio conosciuto come Zigulì) una 124 Fiat modificata per
il mercato russo, che sarebbero diventata il simbolo, nei decenni a
venire, della motorizzazione di massa sovietica. Solo dopo 3 giorni dopo
iniziavano a Mosca le celebrazioni per il centenario della nascita di
Lenin, a simboleggiare un ponte lungo quanto la distanza tra le due
città tra il passato socialista e il suo futuro.
Grazie alla
collaborazione con i tecnici e ingegneri italiani la 124 venne adattata
alle esigenze russe allargando e riscaldando maggiormente gli interni.
Il motore era in grado di mettersi in moto al primo tentativo di
accensione dopo una notte con temperature inferiori ai -25 gradi e anche
la velocità massima fu accresciuta fino a 142 km / h.
Sin da
subito la Zigulì venne proposta non solo sul mercato dei paesi
dell’Europa Orientale (in Germania Est occorrevano lunghe attese, anche
di anni, per ottenerla, mentre in Polonia la commercializzazione seguiva
dei propri canali), a Cuba dove venne utilizzata principalmente per il
servizio taxi ma anche in Europa occidentale (in Francia soprattutto).
La
Zigulì esordì con un prezzo di 5620 rubli (circa 47,4 stipendi medi
dell’epoca) contro gli 8500 dell’“ammiraglia” sovietica, la berlina
“Volga”, ma solo i dipendenti della Vaz ebbero la possibilità di poterla
acquistare a rate. La campagna pubblicitaria tendeva a proporre foto
con giovani coppie dinamiche (in viaggio verso zone sciistiche o in
località di mare) senza figli ma anche, sconfiggendo alcuni stereotipi,
vennero proposte sui manifesti donne sole al volante.
Il successo
fu indubbiamente ampio. Il problema più importante allora divenne quello
del deficit dei ricambi mentre le stazioni di servizio, al di fuori di
Mosca, erano delle vere e proprie chimere. Bisognerò attendere la
perestrojka perché nascessero delle officine meccaniche private che
andassero incontro alle esigenze dei guidatori. La Zigulì divenne
inevitabilmente, in un paese dove si producevano non più di una dozzina
di modelli di auto, un fenomeno del costume e della cultura: nel 1971
per la prima volta la Zigulì partecipò a un rally internazionale. Nei
decenni le varianti sul modello base furono molte (diesel, furgonato,
ecc.) e ne vennero prodotte complessivamente circa 5 milioni di
esemplari fino al crollo dell’URSS. Paradossalmente tuttavia la
produzione della Zigulì aumentò ancora negli anni ’90 e 2000 quando
venne richiesta sempre di più dal mercato della provincia, data
l’assenza di elettronica e il motore robusto la rendevano affidabile e
durevole.
La Zigulì uscì di produzione solo nel 2011 dopo 41 anni
di onorata carriera. Tuttavia in tutto l’ex URSS continuano a circolare
molte di queste vecchie Fiat. E anche nelle grandi città russe dove
ormai dominano le auto coreane, tedesche e americane la nostalgia per la
vecchia auto sovietica è un fenomeno già divenuto collezionismo: gli
esemplari ben tenuti costano sul mercato di seconda mano molte migliaia
di euro.
INTERVISTA A GUIDO SECHI URBANISTA ESPERTO DELLA TRANSIZIONE POST-SOVIETICA
Guido
Sechi è ricercatore presso il Dipartimento di Geografia Umana
dell’Università della Lettonia. Studia in particolare le dinamiche
sociali in ambito urbano e territoriale, con particolare riferimento
alla transizione post-sovietica. Ora sta lavorando insieme al fotografo
Michele Cera ad un progetto sulla trasformazione dello spazio pubblico
nelle grandi città dell’ex URSS.
Quali erano le idee base che
muovevano gli architetti sovietici nella progettazione di una vera e
propria nuova città come l’Autozavodskij Rayon di Togliatti?
Nell’URSS
degli anni ’60 l’idea della città pianificata non era nuova. Con le sue
implicazioni ideologiche, utopistiche e simboliche, questa dimensione
era stata un elemento rilevante dell’urbanistica sovietica fin dagli
anni dell’avanguardia anni ’20. La prima città pianificata,
Magnitogorsk, era sorta negli anni ’30 negli Urali come centro
dell’industria metallurgica. Togliatti, e in particolare il distretto
Avtozavodosky, rappresentò il caso più emblematico, per dimensioni e
ambizione simbolica, di una seconda generazione di città pianificate. La
fabbrica AvtoVAZ, grazie all’uso delle tecnologie Fiat, rappresentava
un’innovazione notevole per l’industria sovietica mentre Avtozavodskiy,
avrebbe dovuto nelle intenzioni rappresentare l’ideale di una città
innovativa in grado di rispondere ai bisogni della società socialista.
Tuttavia,
a differenza degli architetti e urbanisti costruttivisti degli anni ’20
mossi dall’ambizione di promuovere nuove soluzioni architettoniche e di
pianificazione spaziale volte a plasmare nuove forme orizzontali ed
egalitarie di relazione sociale, il team di architetti e ingegneri
coordinato da Boris Rubanenko fu invece guidato soprattutto da un ideale
di razionalità ed efficienza tipico del modernismo internazionale. Come
conseguenza, urbanisticamente parlando, Avtozavodskij era piuttosto
simile agli esperimenti di Le Corbusier e Niemeyer, Chandigarh e
Brasilia, con enormi piazze, parchi e viali, destinati al trasporto
pubblico e privato anziché a quello pedonale. Da un punto di vista
architettonico, i due elementi caratterizzanti erano quelli
dell’edilizia residenziale serializzata, organizzati in micro-distretti
dotati di infrastrutture di servizio e spazi ricreativo-culturali, e di
una significativa collezione di ambiziosi e imponenti edifici pubblici,
pensati come spazi di interazione collettiva e landmark visivi, invece
di un centro cittadino tradizionale.
E quali furono i risultati, quali divennero i caratteri peculiari urbanistici di Togliatti?
Si
può dire che fin dall’inizio il progetto sia stato inficiato da
elementi di rigidità: quella globale dei piani di produzione, e quella
insita nella pianificazione tecnocratica e razionalista dall’alto. La
prima era profondamente intrinseca al modello di pianificazione
sovietico, la seconda invece è figlia anche delle tendenze
internazionali in cui si inserisce la logica di Rubanenko e dei suoi
collaboratori.
Dagli anni ’70 emersero gravi inefficienze dal
punto di vista della fornitura degli alloggi e dei servizi dando luogo a
temporaneo sovraffollamento abitativo e a carenza di infrastrutture
commerciali, ricreative e culturali nei quartieri residenziali.
L’edificio pubblico più ambizioso, la monumentale Casa della cultura,
della scienza e delle arti (DKIT), fu ultimata solo nel 1988. È evidente
che queste inefficienze hanno in gran parte compromesso l’ambizione di
partenza della città innovativa, a misura d’uomo.
Per altri versi,
il patto sociale tra capitale, lavoro e Stato, ha in qualche modo
retto, plasmando un’identità cittadina che resiste ancora, grazie al
ruolo rilevante della stabilità abitativa, del diritto alla casa
ereditato dai tempi dell’URSS, dall’elemento unificante della fabbrica
con tutto il suo bagaglio di promesse più o meno realizzate.
Quali sono oggi le prospettive per una città fabbrica come Togliatti?
La
Togliatti post-sovietica ha i problemi sociali ed economici tipici di
una città mono-industriale nell’era della globalizzazione capitalista.
Il governo interviene con sussidi ma la città arranca sul piano
socio-economico, della qualità della vita, delle prospettive. Togliatti
ha il vantaggio, rispetto ad altre città di questo tipo, di essersi
sviluppata attorno ad una fabbrica, ora avente la Renault per azionista
di maggioranza, che rimane competitiva e la più importante della Russia
nel settore. Ma i problemi e le rigidità derivanti dalla natura
monoindustriale restano. Se la si confronta con altre città russe
medio-grandi, Togliatti presenta statistiche preoccupanti per quanto
riguarda la disoccupazione, la percentuale di popolazione povera, il
salario medio. Per farsi un’idea della dipendenza della città da
AvtoVAZ: il quartiere Avtozavodsky ospita circa 430mila abitanti, oltre
la metà della popolazione della città. Di questi, 44mila circa lavorano
nella fabbrica.
L’amministrazione locale, e regionale, sta
cercando di promuovere il turismo sul Volga e gli investimenti esteri
nella città, che costituisce una ‘zona economica speciale’.
Visitando
Togliatti si ha la percezione, anche visiva, di una città
fondamentalmente non globalizzabile, non gentrificabile. Sono sorte
chiese (che non c’erano ai tempi dell’URSS), nuova edilizia
residenziale, nuovi parchi, ma la struttura e l’impronta della città
sono destinate a non modificarsi. Il che può essere visto allo stesso
tempo come una conferma della rigidità irrimediabile della città e come
un elemento identitario affascinante.