sabato 12 gennaio 2019

La Stampa TuttoLibri 12.1.19
Per i prigionieri di Letterkenny la guerra finì tra mandolini e pallone
Le vicende dei soldati italiani internati in Pennsylvania che scelsero di cooperare in cambio ottennero una modesta paga, la possibilità di ricevere visite e uscire dal campo
di Giovanni De Luna


Nella seconda guerra mondiale, tra le decine di migliaia di soldati italiani catturati dagli americani ce ne furono moltissimi che riuscirono a vivere la loro prigionia in condizioni più che buone, soprattutto se confrontate con quelle in cui precipitarono i loro 600 mila commilitoni finiti nei lager tedeschi. In particolare, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, il 70% dei 51.000 prigionieri presenti allora negli Usa accettarono volontariamente di collaborare, entrando nelle unità di servizio italiane (ISU) adibite a lavori utili per sostenere lo sforzo bellico degli americani. Tranne i pochi rimasti fedeli alla Repubblica sociale di Mussolini (4.727 in tutto), la stragrande maggioranza cambiò quindi status - da prigioniero di guerra a cooperatore - sottraendosi così alle ristrettezze previste dalla Convenzione di Ginevra e potendo fruire di una serie di vantaggi che andavano da una paga regolare, modesta, alla possibilità di ricevere visite e di uscire dai luoghi di detenzione. A ricostruirne la vicenda è ora un bel libro di Flavio Giovanni Conti e Alan R.Perry, Prigionieri di guerra italiani in Pennsylvania,1944-1945, che si occupa in particolare dei 1200 italiani detenuti nel campo di Letterkenny, nei pressi di Chambersburg: un enorme deposito di 6 chilometri quadrati dove venivano stoccati i rifornimenti da mandare al fronte, in Europa e nel Pacifico.
Intrecciando le loro testimonianze e attingendo ai loro ricordi, il libro ne ripercorre l’intera vicenda, seguendoli dal momento della cattura fino al ritorno in patria dopo la fine della guerra. Così, grazie anche una scavo archivistico imponente, emerge il ritratto corale di una comunità che attraversa anche situazioni poco piacevoli, (dovute all’astio delle associazioni combattentische di destra, in particolare l’American Legion, indignate per il modo in cui gli italiani venivano «coccolati»), ma che riesce ad ottenere i favori di larga parte dell’opinione pubblica americana grazie alla sua laboriosità e ai suoi comportamenti ineccepibili. I 1200 cooperanti di Letterkenny erano uno pezzetto d’Italia in cui si rispecchiavano - straordinariamente nitidi - molti dei caratteri originari che segnano la nostra identità collettiva. La passione per il calcio, ad esempio, fu un elemento di condivisione che portò non solo ad un affollato torneo interno al campo ma anche a partite come quella che, il 24 giugno 1945, una rappresentativa dei prigionieri giocò contro la Juventus di New York, vincendo anche 1 a 0. E poi, oltre alle scontate inclinazioni musicali, con il fiorire di bande e mandolini (la prima festa da ballo si tenne il 19 agosto 1944), un marcato dongiovannismo che provocò molti fidanzamenti, qualche avventura e lo scandalo dei benpensanti, marcatamente a disagio di fronte a questi scatenati seduttori. Su tutto però c’era il richiamo alla comunità e alla famiglia: si calcola che allora il 25% dei cooperatori di Letterkenny avesse dei parenti che vivevano nell’Est o nel Midwest degli Stati Uniti. E gli italoamericani li avvolsero in una rete di affetto e di solidarietà, aprendo le loro case, rispolverando le foto dei parenti lontani, proteggendoli e - loro sì - «coccolandoli».
Ma non era solo questo. Dai ricordi e dai documenti emerge il racconto di una italianità che si realizza soprattutto nella cura per il lavoro ben fatto, nella voglia di riscattare la propria condizione attraverso il fare, nell’orgoglio con il quale ci si identifica nelle mansioni svolte, anche le più umili (i cooperanti lavoravano alla manutenzione delle strade e del terreno, al carico e scarico delle tonnellate di rifornimenti che arrivavano con i treni merci). Tra il 1° maggio 1944 e il 31 gennaio 1946 fornirono 18 milioni di giornate lavorative; e di propria iniziativa costruirono - con materiale di recupero e fuori dall’orario normale di lavoro - una chiesa e un campanile, che oggi si preservano come simboli della loro tenacia. In fondo si trattò di una replica, su scala ridotta, di quanto avvenne nel nostro paese tra il 1945 e il 1948: una ricostruzione portata a termine in tempi brevissimi, rimboccandosi le maniche e grazie alla spinta di una voglia di vivere scaturita direttamente dai lutti e dalle sofferenze di cinque anni di guerra e venti anni di dittatura.
Alla fine, tra l’autunno del 1945 e i primi mesi del 1946, tutti i cooperanti di Letterkenny furono rimpatriati. Molti ritrovarono le loro famiglie e il loro lavoro. Altri soffrirono gli sbandamenti e i disagi dei reduci. Il 10% ritornò negli Usa come libero cittadino.