La Stampa TuttoLibri 12.1.19
Per i prigionieri di Letterkenny la guerra finì tra mandolini e pallone
Le
vicende dei soldati italiani internati in Pennsylvania che scelsero di
cooperare in cambio ottennero una modesta paga, la possibilità di
ricevere visite e uscire dal campo
di Giovanni De Luna
Nella
seconda guerra mondiale, tra le decine di migliaia di soldati italiani
catturati dagli americani ce ne furono moltissimi che riuscirono a
vivere la loro prigionia in condizioni più che buone, soprattutto se
confrontate con quelle in cui precipitarono i loro 600 mila commilitoni
finiti nei lager tedeschi. In particolare, dopo l’armistizio dell’8
settembre 1943, il 70% dei 51.000 prigionieri presenti allora negli Usa
accettarono volontariamente di collaborare, entrando nelle unità di
servizio italiane (ISU) adibite a lavori utili per sostenere lo sforzo
bellico degli americani. Tranne i pochi rimasti fedeli alla Repubblica
sociale di Mussolini (4.727 in tutto), la stragrande maggioranza cambiò
quindi status - da prigioniero di guerra a cooperatore - sottraendosi
così alle ristrettezze previste dalla Convenzione di Ginevra e potendo
fruire di una serie di vantaggi che andavano da una paga regolare,
modesta, alla possibilità di ricevere visite e di uscire dai luoghi di
detenzione. A ricostruirne la vicenda è ora un bel libro di Flavio
Giovanni Conti e Alan R.Perry, Prigionieri di guerra italiani in
Pennsylvania,1944-1945, che si occupa in particolare dei 1200 italiani
detenuti nel campo di Letterkenny, nei pressi di Chambersburg: un enorme
deposito di 6 chilometri quadrati dove venivano stoccati i rifornimenti
da mandare al fronte, in Europa e nel Pacifico.
Intrecciando le
loro testimonianze e attingendo ai loro ricordi, il libro ne ripercorre
l’intera vicenda, seguendoli dal momento della cattura fino al ritorno
in patria dopo la fine della guerra. Così, grazie anche una scavo
archivistico imponente, emerge il ritratto corale di una comunità che
attraversa anche situazioni poco piacevoli, (dovute all’astio delle
associazioni combattentische di destra, in particolare l’American
Legion, indignate per il modo in cui gli italiani venivano «coccolati»),
ma che riesce ad ottenere i favori di larga parte dell’opinione
pubblica americana grazie alla sua laboriosità e ai suoi comportamenti
ineccepibili. I 1200 cooperanti di Letterkenny erano uno pezzetto
d’Italia in cui si rispecchiavano - straordinariamente nitidi - molti
dei caratteri originari che segnano la nostra identità collettiva. La
passione per il calcio, ad esempio, fu un elemento di condivisione che
portò non solo ad un affollato torneo interno al campo ma anche a
partite come quella che, il 24 giugno 1945, una rappresentativa dei
prigionieri giocò contro la Juventus di New York, vincendo anche 1 a 0. E
poi, oltre alle scontate inclinazioni musicali, con il fiorire di bande
e mandolini (la prima festa da ballo si tenne il 19 agosto 1944), un
marcato dongiovannismo che provocò molti fidanzamenti, qualche avventura
e lo scandalo dei benpensanti, marcatamente a disagio di fronte a
questi scatenati seduttori. Su tutto però c’era il richiamo alla
comunità e alla famiglia: si calcola che allora il 25% dei cooperatori
di Letterkenny avesse dei parenti che vivevano nell’Est o nel Midwest
degli Stati Uniti. E gli italoamericani li avvolsero in una rete di
affetto e di solidarietà, aprendo le loro case, rispolverando le foto
dei parenti lontani, proteggendoli e - loro sì - «coccolandoli».
Ma
non era solo questo. Dai ricordi e dai documenti emerge il racconto di
una italianità che si realizza soprattutto nella cura per il lavoro ben
fatto, nella voglia di riscattare la propria condizione attraverso il
fare, nell’orgoglio con il quale ci si identifica nelle mansioni svolte,
anche le più umili (i cooperanti lavoravano alla manutenzione delle
strade e del terreno, al carico e scarico delle tonnellate di
rifornimenti che arrivavano con i treni merci). Tra il 1° maggio 1944 e
il 31 gennaio 1946 fornirono 18 milioni di giornate lavorative; e di
propria iniziativa costruirono - con materiale di recupero e fuori
dall’orario normale di lavoro - una chiesa e un campanile, che oggi si
preservano come simboli della loro tenacia. In fondo si trattò di una
replica, su scala ridotta, di quanto avvenne nel nostro paese tra il
1945 e il 1948: una ricostruzione portata a termine in tempi brevissimi,
rimboccandosi le maniche e grazie alla spinta di una voglia di vivere
scaturita direttamente dai lutti e dalle sofferenze di cinque anni di
guerra e venti anni di dittatura.
Alla fine, tra l’autunno del
1945 e i primi mesi del 1946, tutti i cooperanti di Letterkenny furono
rimpatriati. Molti ritrovarono le loro famiglie e il loro lavoro. Altri
soffrirono gli sbandamenti e i disagi dei reduci. Il 10% ritornò negli
Usa come libero cittadino.