sabato 12 gennaio 2019

Repubblica 12.1.19
Il risveglio dell’Est Europa in piazza contro gli autocrati
Le manifestazioni. Per una nuova democrazia
Non solo gilet gialli
Oggi è il sesto sabato di proteste a Belgrado
Ma si manifesta anche a Varsavia e Tirana contro populismo e corruzione
Il corteo a Belgrado
"1 su 5 milioni" è diventato lo slogan delle proteste contro Vucic che aveva detto: "Nemmeno se fossero 5 milioni li ascolterei".
di Gigi Riva


Oggi, ore 18, centro di Belgrado. Orario insolito, giorno insolito, stagione insolita, con il freddo e la neve dei Balcani, per una manifestazione contro il presidente della Repubblica Aleksandar Vucic. Ma, dopo i gilet jaunes francesi, il sabato è evocativo delle proteste. Per la sesta volta, nel dì che precede la festa, la Serbia grida la sua rabbia contro un capo dello Stato autoritario, onnipotente, e invadente benché la Costituzione gli riconosca, più o meno, le stesse prerogative di Sergio Mattarella.
Anche populista, tuttavia non più dei leader di opposizione che da dietro soffiano sul corteo, preferendo spingere in avanti e sul palco dei comizi personaggi meno compromessi, soprattutto attori. Erano alcune centinaia la prima volta, 15mila la quinta. Se 15mila sembrano pochi, è comunque la più grossa contestazione del potere dal 5 ottobre 2000, cacciata di Slobodan Milosevic. Sfilano dietro uno striscione che recita "1 od 5 miliona", 1 su 5 milioni, un auspicio di ingrossarsi fino a tanto e una risposta a Vucic che ha beffardamente affermato: «Nemmeno se fossero 5 milioni ascolterei le loro richieste».
Variegate richieste. Si parte dalla libertà di espressione se i canali tv e i giornali cantano solo la voce del padrone e oscurano la critica. Poi un minimo di giustizia. La scintilla che ha scatenato i cortei fu il 23 novembre scorso l’aggressione a suon di sprangate in testa di un leader di "Sinistra serba", Borko Stefanovic. Agguato rimasto impunito, i cinque sospettati sono stati rimessi in libertà.
Aleksandar Vucic sfida la piazza forte di un consenso al 53 per cento e allude a elezioni anticipate in primavera, sicuro di rivincere col Partito progressista da lui fondato. Pare aver trovato la ricetta del consenso grazie a una politica strabica che guarda da un lato all’Europa e dall’altro alla grande madre ortodossa, la Russia. Spregiudicato e camaleontico, il presidente, 48 anni, è un campione di trasformismo. Da giovane militava nel partito radicale ultranazionalista di Vojislav Seselj. È stato ministro dell’Informazione durante i bombardamenti Nato, epoca Milosevic. Si è dato una ripulita, vantando la capacità di adeguarsi ai tempi, come fosse un novello Talleyrand in sedicesimo.
La folla dei contrari è nutrita dalla classe intellettuale, dalla borghesia, dai giovani liberal della capitale. Perché se in Europa occidentale sono state le campagne a lanciarsi contro i privilegi delle città (vedi la Francia), a Est sono le città a ribellarsi contro governi populisti e liberticidi, votati anzitutto in campagna. È proprio a oriente del Continente, del resto, che il populismo ha raggiunto per primo le stanze dei bottoni. È il caso della Polonia, recente meta di Matteo Salvini per un incontro con Jaroslaw Kaczynski, padre padrone di "Diritto e Giustizia", la formazione al potere. A Varsavia il generale inverno ha solo posticipato, non rimosso la voglia di contestare un esecutivo che voleva mettere la magistratura sotto il proprio controllo (ipotesi poi naufragata) mentre c’è da scommettere che torneranno le donne in nero a far sentire la loro voce contro i tentativi di revisione della legge sull’aborto, gli arrabbiati per i numerosi casi di pedofilia nella chiesa cattolica, più in generale tutti coloro che temono la prospettiva di allontanarsi da Bruxelles.
In Ungheria invece non si placa l’offensiva contro l’autocrate Viktor Orbán e la sua legge denominata "schiavitù" per la quale gli imprenditori possono chiedere ai loro dipendenti di lavorare fino a 400 ore di straordinari l’anno. Nella capitale, Budapest, si concentra il malcontento, le nuove norme hanno fatto da detonatore all’esplodere di una ribellione che sembrava anestetizzata dal verbo nazionalista. Piazza chiama piazza, a Est. In Albania, a Tirana, gli studenti si riversano nelle vie del centro davanti al ministero dell’Istruzione sventolando bandiere nazionali e dell’Europa per chiedere di abolire l’aumento delle tasse universitarie.
Benché piccola e semisconosciuta, Banja Luka è la "capitale", della Bosnia serba, una delle due entità che formano lo Stato. Dal marzo scorso la piazza principale è occupata dalle persone che chiedono la verità sulla morte di David Dragicevic, 21 anni. Accidentale secondo la polizia. Un omicidio coperto dalle autorità, a partire dal leader dei serbi Milorad Dodik, secondo il padre Davor, cameriere, che ha promosso un presidio permanente dove si alternano migliaia di persone. Il caso si è trasformato in un atto di accusa contro il potere. Che si difende contro-accusando "forze straniere", in particolare il Regno Unito, di fomentare la protesta.
Dodik è il buon amico di Mosca nell’area. Indebolirlo equivale a fiaccare il tentativo di influenza di Vladimir Putin nei Balcani. Così il fatto privato di un padre-cameriere diventa un affare geostrategico. Le piazze d’Europa orientale raccontano un diffuso malessere. A leggerle bene sono il luogo dove si è trasferito lo scontro fatale della contemporaneità. Quello tra sistema e anti-sistema.