mercoledì 30 gennaio 2019

La Stampa TuttoScienze 30.1.19
Cosa vedono i signori della luce
Le immagini della microscopia ottica ci fanno viaggiare negli organismi
di Alberto Diaspro e Claudia Diaspro


Una goccia di rugiada su una foglia lambita da raggi di sole primaverili esalta il dettaglio delle nervature e riflette i messaggi luminosi di ciò che sta intorno, portandoci in un Aleph senza dover scendere i 19 gradini del racconto di Borges. Da lì si può vedere tutto. Le immagini che formiamo nel cervello sono immediatamente pop e liquide insieme. Tutto questo, come quelle strane forme nelle nuvole che si rincorrono in cielo cantate da De Andrè, lo vedono meglio i bambini. «PoP microscopy» - la mostra al Museo di Storia Naturale di Genova (fino al 31 marzo) - guida il visitatore fuori dagli schemi tradizionali, cercando di dilatare il senso di meraviglia che può nascere quando le immagini colorate fanno ricordare qualcosa di personale.
Axl Rose dei Guns N’ Roses spicca tra il verde d’Irlanda, con la sua chioma rossa, per perdersi nelle radici di un albero di gucciniana memoria. Ofelia lascerà il passo alla Sirenetta, mentre una discesa notturna con gli sci in Val Badia farà tornare in mente il paesaggio di La Villa, tra Colfosco e San Cassiano. In realtà, siete passati tra il rosso fuoco di un sostituto artificiale osseo per calarvi nel verde dei bastoncelli di una retina, attraversando la foresta prodotta da un menisco bovino visualizzato senza usare mezzi di contrasto.
Non siete alla Tate Gallery ad ammirare un personaggio shakespeariano dipinto da Millais, ma sulle fibre, appunto, di un menisco, affiancato all’immagine incantatrice dei filamenti di miosina, responsabili della contrazione dei muscoli, pensando di sciare mentre siete di fronte ai fotorecettori di una cellula che sembrano guardarvi. Il glicine, un vermicello e il mondo di «pacman», magicamente, fanno varcare la soglia dei laboratori di Eric Betzig, Martin Chalfie e Stefan W. Hell, laureati Nobel, dove si studiano l’organizzazione dell’impalcatura della cellula, lo sviluppo del sistema nervoso e le ciliopatie responsabili di sordità, retiniti e obesità. Queste associazioni e sensazioni, con tante altre, catapultano tra la ricerca e il quotidiano, facendo vedere i risultati delle ricerche più avanzate tra la medicina e la biologia da un nuovo punto di vista.
Un tributo al progresso e un mezzo per avvicinare alla scienza, scatenando la curiosità, con l’idea di riprendere quello che succedeva tra gli Anni 50 e 60 del secolo scorso, quando emergeva la Pop Art e oggetti di uso comune diventavano icone, la lattina della zuppa Campbell di Andy Wharol tra tutte. I titoli scelti per «Pop Microscopy» fanno riferimento al sottobosco culturale dei nostri giorni, dalle canzoni alle serie tv e ai videogiochi, legandone qualcuno ad eventi personali: ed è stato proprio questo il gioco tra padre e figlia. Questo ci piacerebbe fosse anche il gioco dei «turisti» della mostra: lasciarsi suggestionare dalle immagini scientifiche, liberare la fantasia ed entrare nell’Aleph .
Ognuno si spinga a dare all’immagine che l’ha attratto il titolo che preferisce e, poi, vada a scoprire di cosa si tratta realmente, tra la tecnica usata e la motivazione sociale. «Pop Microscopy» come preludio alla nuova frontiera della microscopia ottica, fatta di immagini liquide e segnali multimessaggeri. I fotoni - la luce - calcano il palco della materia e gli spettatori sono lì, pronti a cogliere il dettaglio più fine, le interazioni più interessanti. La microscopia ottica non ha limiti nel cogliere il dettaglio alla nanoscala senza violare le leggi della fisica.
I fotoni permettono di ottenere quella finezza di indagine che, pochi anni fa, si poteva realizzare solo con il microscopio elettronico. In quel caso, però, si chiedeva la cortesia al soggetto di studio di essere solidificato, affettato fisicamente e «bombardato» da elettroni. Proteine, Dna ed altre macromolecole potevano allora essere visualizzate al dettaglio del nanometro. Come non essere, quindi, appagati?
Negli ultimi decenni, realizzando l’idea di super-risoluzione preannunciata negli Anni 40 dal fisico italiano Giuliano Toraldo di Francia, incanta i microscopisti la costruzione di microscopi ottici dal potere risolvente e dalla capacità di cogliere il dettaglio nel tempo. Illimitata. Vengono costruite nuove lenti, nuove sorgenti luminose e nuovi rivelatori di fotoni, precisi e velocissimi. Si realizza un microscopio liquido e multimessaggero, perché capace di cogliere il minimo segnale luminoso rilasciato dalla materia sollecitata dalla luce e di produrre immagini liquidamente costruite dai segnali catturati.
Un microscopio che produce nuove immagini per quelle applicazioni in oncologia e nelle neuroscienze che non potranno che trarre vantaggio dalla liquidità dei dati e dal connubio con l’Intelligenza Artificiale. Saremo ancora Pop.

il manifesto 30.1.19
Rems, criminale è la nostalgia del manicomio
di Francesco Maisto


Quando qualche autorevole magistrato di sorveglianza evoca un manicomio giudiziario come Castiglione delle Stiviere «all’avanguardia per quanto riguarda trattamenti e terapie…un errore non coltivare quell’esperienza», nel presente clima culturale e politico di reistituzionalizzazione e ricarcerizzazione, bisogna proprio allarmarsi.
Così facendo si dimenticano i tanti trattamenti inumani, degradanti, violenti, osceni, strutturali ed illegali connaturati ai manicomi giudiziari, rimasti in larga parte “latrine” (secondo la qualificazione di Lombroso), come reso evidente dall’Indagine della Commissione parlamentare Marino sulle condizioni degli Opg.
La vecchia dottrina penalistica ed alienistica classificava gli autori di reato in rei-folli (i rei divenuti successivamente folli) e in folli-rei ( i soggetti già folli che commettevano reati), tutti destinati alla discarica del manicomio giudiziario – poi ingentilito con l’ossimoro ospedale psichiatrico giudiziario- in cui gli internati erano marchiati da presunzioni giuridiche assolute di pericolosità sociale rivedibili a scadenze fisse, cancellate, dopo un lungo lavorio dalla Corte Costituzionale, dalla Legge Gozzini ed infine, dalla legge 81 del 2014.
E’ vero che questa legge ha sancito la chiusura degli Opg, ma al contempo, ha previsto un termine per le misure di sicurezza detentive (prima indeterminate); ha espunto l’handicap sociale dai criteri di valutazione della pericolosità sociale; ha reso obbligatori i programmi terapeutici individualizzati e, solo in via subordinata, ha previsto l’istituzione di piccole strutture terapeutiche denominate Rems (Residenze per la esecuzione delle misure di sicurezza detentive psichiatriche), come uno degli esiti del proscioglimento per infermità o seminfermità mentale con ritenuta attualità della pericolosità sociale. Le Rems come strutture sanitarie e non penitenziarie, come strutture e non istituzioni totali, come strutture sicure non chiuse, strutture di gestione dell’aggressività e della fragilità, e non di contenzione e di trattamenti sanitari obbligatori, strutture temporanee. E dunque, non le Rems al posto degli Opg, secondo la diversa narrazione del Capo del Dap e di magistrati che aderiscono alle correnti psichiatriche istituzionalizzanti.
E’ vero che attualmente alcune centinaia di soggetti con patologie psichiatriche, ritenuti pericolosi, sono in lista di attesa per una assegnazione alle Rems oppure illegalmente trattenuti nelle patrie galere, ma ciò non è certamente imputabile a carenze della legge, né all’insensibilità di tutte le Regioni.
Tante sono le omissioni che continuano a minare la completa e puntuale attuazione del trattamento penale degli infermi di mente. Le proposte degli Stati Generali non sono state recepite da questo Governo. In particolare, la mancata abrogazione dell’art. 148 del codice penale e la riduzione della possibilità di ricorrere a misure alternative, ha impedito la creazione di un sistema unitario con la possibilità di un adeguato trattamento in carcere. L’interlocuzione tra il sistema di giustizia penale ed il sistema dei servizi psichiatrici, auspicata dal Consiglio Superiore della Magistratura con due Risoluzioni precise e stringenti, non vede attivo un livello nazionale, ma è lasciata alle singole Regioni (sono stati prodotti protocolli solo in Emilia, Lazio, e a Brescia). Le prassi del Dap non sono cambiate rispetto a quelle praticate con la vecchia normativa. Non è stata attivata la Conferenza nazionale sulla salute mentale e l’Accordo Stato-Regioni del 26 febbraio 2015 non è stato ancora rivisto.
Non stupisce, dunque, se, in un clima politico “repressivo” e regressivo, riprenda vigore l’ipotesi di soluzioni istituzionalizzanti piuttosto che la scelta di un sistema incentrato sulla comunità.

Corriere 30.1.19
La mamma di Giuseppe
«L’ho messo sul divano e ho atteso i soccorsi»
Napoli, la donna parla del bambino ucciso dal patrigno
La chiamata alla madre: «Vengo da te senza i bambini»
di Fulvio Bufi


Quattro mesi fa L’incontro al mercato tra Valentina e Tony e la scelta di andare a vivere a Cardito

Massa Lubrense (Napoli) Come se si fosse chiusa una parentesi. Si era aperta questa estate, un giorno che Valentina andò a fare un giro al mercato. E si è chiusa domenica sera. Quando Giuseppe era già morto, quando Noemi era già in ospedale e ancora non si capiva se quel codice rosso con il quale era arrivata indicasse un imminente pericolo di vita, o fosse invece — come per fortuna è stato — solo una precauzione. E quando l’altra bimba, quella di quattro anni soltanto, era già stata accolta dai servizi sociali e di lì a poco sarebbe stata accompagnata in una struttura protetta.
La parentesi era quella vita a Cardito insieme a Badre Tony Essobti, il venticinquenne che ha ucciso Giuseppe e massacrato Noemi, e Valentina la stava chiudendo con una telefonata alla mamma Anna, che vive a Massa Lubrense, in costiera sorrentina, per dirle: «Sto tornando. Soltanto io, i bambini no».
Adesso casa sua è di nuovo quella dove era cresciuta e dove era già tornata con i tre figli quando era finita la storia con Fabrizio, il padre di Noemi, Giuseppe e della piccolina.
A Massa Lubrense la conoscono tutti, ma nessuno l’ha riaccolta con calore, e nemmeno con solidarietà. Si avverte, diffusa, una sensazione di quella «colpevolizzazione al femminile» di cui ha parlato, proprio in relazione alla tragedia di Cardito, la psicologa Ester Ricciardelli in una intervista rilasciata all’agenzia Dire.
La percezione è evidente, e se la colpevolizzazione sia giustificata o no è, appunto, materia per psicologi. Alla cronaca tocca solo registrare le voci. Anche quella di Valentina quando riferisce, stavolta non al magistrato, quel che è successo domenica a Cardito. È didascalica. L’assassino lo chiama sempre e solo con il suo nome, non aggiunge appellativi, non dice nemmeno che «sembrava indemoniato», come invece aveva riferito l’altro giorno agli inquirenti. Anche l’emozione nel ripercorrere i momenti di quella tragedia non la lascia scorgere: se la prova, e certamente la proverà, la tiene per sé.
Di Giuseppe steso a terra sanguinante e immobile, dice: «L’ho preso e l’ho messo sul divano, poi sono rimasta ad aspettare i soccorsi». Non li ha chiamati lei, lo ha fatto la madre di Essobti, dalla sua casa in un altro paese della zona, quando è stata avvertita dal figlio del disastro che aveva fatto.
E poi? Poi l’ambulanza, i medici che tentavano inutilmente di rianimare Giuseppe, l’arrivo della polizia, gli agenti che le dicono di seguirla in commissariato e le due ore passate lì a parlare con i funzionari e poi con il magistrato. C’è tutto nel racconto di Valentina, una esposizione piatta di ogni momento di quella domenica pomeriggio. Fino alla fine: «Quando mi hanno detto che me ne potevo andare me ne sono andata e sono venuta qui a Massa».
E così si è chiusa la parentesi. Era andata via a settembre, trasformando in pochi giorni l’incontro con quel venditore ambulante, di sei anni più giovane di lei, conosciuto una mattina tra le bancarelle, in una scelta di vita condivisa. Anche se i bambini non erano contenti, anche se Noemi e Giuseppe a nonna Anna ripetevano «facci restare qui, vogliamo rimanere con te, non vogliamo cambiare casa». Invece hanno cambiato casa, hanno cambiato scuola, hanno cambiato amici, hanno cambiato vita. Per quattro mesi. Poi è finito tutto.

Corriere 30.1.19
il caso Rogoredo
Come aiutare i nostri figli contro la droga
Dovremmo aiutare madri e padri ad agire, con il sostegno dei tribunali minorili, portando presto i ragazzi nelle comunità. Invece c’è troppa burocrazia
20 mila (per la precisione 22.446) sono i minori e i giovani adulti (dai 18 ai 25 anni) in carico ai SerD, di cui oltre 7mila nuovi arrivisolo nell’ultimo anno
25 le vittimedi droga nell’ultimo mese: 11 di eroina, 11 di sostanze non determinate, una di speedball, una di cocaina, una di metadone non prescritto (dati geoverdose.it)
di Antonio Polito


Ci vorrebbe un poeta per scrivere la Spoon River dei ragazzi morti per droga. A guardare le foto che sta pubblicando il Corriere nell’inchiesta partita dal bosco di Rogoredo, tutti quei volti di adolescenti che non ci sono più, vengono a mancare le parole. Ti ammutolisce un misto di rabbia per tanta bellezza sprecata, angoscia per quello che può accadere ai tuoi ragazzi, sconcerto quando senti dire che il problema è la proibizione, mentre invece è la nuova disponibilità, sotto casa e per tutti, di sostanze molto più letali di quando eravamo giovani noi.
Le storie di chi non ce l’ha fatta, ed è morto nei bagni di una stazione a Udine o sulla barella di un ospedale dismesso a Roma, non si possono più ascoltare da chi le ha vissute. Di loro resta solo lo strazio dei parenti. Ma ogni tanto dal bosco spunta una voce che può ancora narrarsi in prima persona, perché ne è uscita, come la ragazza milanese che si è confessata l’altro giorno a Elisabetta Andreis e Gianni Santucci sul Corriere . E allora, da questi rari documenti provenienti dal fronte, capisci che il problema fondamentale è il tempo: quanto ce n’è tra quando un ragazzo prova la droga per la prima volta e quando non c’è più niente da fare?
Lasciamo stare tutto quello che viene prima e dopo, e la solita sterile polemica tra chi vuole reprimere di più e chi vuole permettere di più. Tanto ormai nei fatti seguiamo tutti la stessa politica: quella dello struzzo, che insegna a mettere la testa sotto la sabbia e a non guardare, quasi come se ci fossimo rassegnati a questa tragedia generazionale, che suscita ormai meno allarme del bullismo sui social e delle slot machine, e convive con i negozi che vendono marjuana light agli angoli delle strade come fossero sigarette aromatiche.
Proviamo invece a concentrarci su quell’attimo cruciale tra il primo buco e l’ultimo libero arbitrio, quando «hai ancora un piede dentro la realtà», come dice la ragazza del bosco, e puoi ancora ascoltare, se ti parlano. «Avrei voluto qualcuno che mi entrava in testa... Nessuno ci riusciva, da sola non potevo uscirne, però».
Lei alla fine l’ha trovato, un angelo che le ha parlato. Un «operatore di strada» che non si è limitato a fornire siringhe sterili, che lavora in una comunità, conosce il cuore degli adolescenti e si è aperto una piccola breccia nella sua mente semplicemente con la parola. Ma quanti giovani hanno questa fortuna? E, se non ce l’hanno, che cosa possono fare i genitori in quell’attimo fuggente, tra quando sospettano che il figlio si droghi e quando è troppo tardi?
Forse il dibattito dovrebbe umilmente ripartire da qui. Perché oggi le cose sono messe in modo tale che anche i più determinati e coraggiosi dei padri e delle madri rischiano di dover aspettare mesi, forse un anno, anche più, prima di riuscire a trovare un posto per il figlio in una comunità, la casa fuori dal bosco dove i ragazzi si salvano. Si passa per una lunga e complessa trafila, che parte dai servizi sociali o dai SerD (servizi per le dipendenze patologiche), e inizia sempre con la risposta di prammatica: niente si può fare senza la volontà del ragazzo. Ma il ragazzo non vuole, mai. È ancora convinto di potersi «gestire», ha una fiducia illimitata e infondata nella sua ancora acerba neurobiologia. Mente, si nasconde, si ribella. E allora comincia il calvario ben noto a tanti genitori: le prime analisi delle urine, la battaglia del controllo (con chi vai? dove vai?), gli accertamenti tossicologici prescritti dalla legge, la scelta di un avvocato, il tribunale dei minori. Passano mesi. E se il giovane non ha ancora fatto danni ad altri, ma solo a se stesso, non è affatto detto che il giudice disponga l’invio in comunità. Per Desirée, la ragazza orrendamente predata e uccisa a Roma, il ricovero venne negato tre giorni prima che morisse. E se non vanno in comunità, dove vanno la sera? Nella piazza dello spaccio, tra le immondizie di un palazzo abbandonato, di nuovo nel bosco.
Così si ritarda, oltre il limite, l’incontro con una presenza, con una persona, l’unica cura per le tossicodipendenze (e anche per altro). A giudicare da quello che leggiamo e vediamo, il sistema non funziona. È come se si fosse tarato su una progressiva riduzione del fenomeno, sperando di renderlo marginale. E oggi non riesce a reggere la improvvisa e nuova emergenza: nell’ultimo mese sono morte 25 persone, quasi una al giorno, 11 di eroina, 11 di sostanze non determinate, una di speedball, un’altra di cocaina, un’altra ancora di metadone non prescritto (sono i dati in tempo reale che fornisce il sito geoverdose.it ).
«Se aiutassimo i genitori ad agire prima, anche con il sostegno dei tribunali minorili, prendendo direttamente l’iniziativa di portare questi ragazzi nella comunità che dà loro più affidamento, saltando il filtro della burocrazia, forse qualche vita la salveremmo», dice Giuseppe Mammana, psichiatra e presidente di Acudipa, un’associazione per la cura delle dipendenze patologiche.
C’è insomma chi vorrebbe liberalizzare le droghe e chi vorrebbe liberalizzare le cure. Forse varrebbe la pena di discuterne. Ma dove? La conferenza nazionale sulle droghe, che una legge del ’90 stabiliva si dovesse tenere ogni tre anni per verificare l’efficacia delle norme ed eventualmente correggerle, non si riunisce da dieci anni. Importa ancora a qualcuno quel che succede nel bosco?

il manifesto 30.1.19
Nel 2018, 1.133 morti sul lavoro. E la strage continua
Inail. Le vittime e gli infortuni sono in aumento rispetto al 2017. 45 morti sul lavoro nei primi trenta giorni del 2019. Altrettanti lavoratori sono deceduti raggiungendo il loro posto di lavoro. È polemica sui tagli ai fondi per la formazione e la sicurezza
di Mario Pierro


Davide Di Gioia aveva compiuto 24 anni domenica scorso. È morto lunedì precipitando per 15 metri dal tetto di un capannone a Capurso, in provincia di Bari. Aveva un contratto di apprendistato alle Industrie Fracchiolla, un’azienda che produce serbatoi per l’industria alimentare e farmaceutica tra Adelfia e Valenzano. Saverio Gramegna, segretario provinciale della Fiom Cgil, sostiene che svolgeva mansioni «che molto probabilmente nulla hanno a che vedere con il contratto di apprendistato».
QUESTA È LA STORIA di una tragedia. Nei primi trenta giorni del 2019 ce ne sono state altre 45. Tanti sono i morti sul lavoro in Italia. E altrettanti lavoratori sono morti sulle strade e in itinere, osserva Carlo Soricelli su cadutisullavoro.blogspot.it. Ieri l’Inail ha comunicato il bilancio del 2018: i morti sono stati 1.133, +10,1%, 104 in più rispetto alle 1.029 del 2017. Le denunce di infortunio tra gennaio e dicembre sono state 641 mila, +0,9% rispetto al 2017. Dall’analisi risulta che i decessi sono aumentati rispetto al 2017, in particolare quelli avvenuti raggiungendo i posti di lavoro (+22,6%) rispetto a quelli sul lavoro (+5,4%). Le zone più colpite sono nel Nord-Ovest (+ 47 casi mortali) e al Sud (+35). Le regioni più colpite sono la Campania (+27) e l’Abruzzo quella con il calo più significativo (da 54 a 25).
IL MESE PIÙ TRAGICO è stato agosto 2018: 132 morti. Nello stesso mese è crollato il ponte Morandi a Genova – 15 denunce di casi mortali sul lavoro. A Lesina e Foggia sono avvenuti due incidenti stradali avvenuti in Puglia dove hanno perso la vita 16 braccianti. Sono cresciute anche le denunce di infortunio nel Nord-Ovest (+1,1%), nel Nord-Est (+2,2%) e al Sud (+0,8%). Calano al Centro (-0,8%) e nelle Isole (-1,0%). I maggiori incrementi si segnalano nella provincia di Bolzano, in Friuli Venezia Giulia e in Molise.
«SIAMO DAVANTI a un problema irrisolto» denuncia la Cgil. Il sindacato guidato da Maurizio Landini chiede una riforma di sistema: la trasformazione del ruolo dell’Inail da ente esclusivamente assicuratore in un pilastro del sistema integrato di salute e sicurezza; maggiore coordinamento tra le Asl di livello regionale e l’ispettorato nazionale del lavoro; realizzare un sistema omogeneo su tutto il territorio nazionale in materia formativa.
La Cisl chiede un tavolo nazionale, presso l’Inail, all’interno dell’intesa nazionale sui temi della salute sicurezza sul lavoro, sottoscritta lo scorso dicembre. La Uil con il segretario Barbagallo chiede che la sicurezza diventi un capitolo del confronto con le imprese e il governo
IL MINISTRO DEL LAVORO Luigi Di Maio, nel corso del question time alla Camera, si è invece detto «orgoglioso» del taglio delle tariffe Inail previsto dalla legge di bilancio 2019 «perché erano calcolate sulle morti sul lavoro del 1995 e non erano mai state aggiornate: non si tratta di togliere soldi a chi ha diritto ai risarcimenti, ma di applicare tariffe giuste agli imprenditori». Di Maio ha ricordato che il fondo di sostegno per le famiglie delle vittime di gravi infortuni sul lavoro è stato alzato da 3,4 milioni a 4,4 milioni di euro. L’organico dell’ispettorato nazionale del lavoro è stato aumentato di 930 ispettori e 20 dirigenti.
PRECISAZIONI che non sono servite a dissuadere le opposizioni dal criticare la coincidenza tra l’aumento delle morti sul lavoro e il taglio di 200 milioni di euro all’anno delle risorse per la formazione sui temi della sicurezza. «Occorre un serio ripensamento» afferma l’ex ministro del lavoro Damiano (Pd). «Di Maio faccia marcia indietro il prima possibile, o non abbia più il coraggio di venirci a parlare di dignità del lavoro» attacca Chiara Grubaudo (Pd). «Il governo faccia un emendamento serio al «Decreto Concorrenza» o abbia la decenza di tacere di fronte alle tre vittime di lavoro al giorno» sostiene Stefano Fassina (LeU).

Corriere 30.1.19
«Abusi su una suora», lascia un prete dell’ex Sant’Uffizio
Padre Geissler è accusato di molestie nel 2009 durante una confessione. Il teologo nega tutto
Il tema degli abusi psicologici e fisici nel clero contro le religiose sta esplodendo
L’Uisg), che rappresenta oltre mezzo milione di suore nel mondo: «Chiediamo che ogni donna religiosa che sia stata vittima di abusi denunci quanto accaduto alla superiora e alle autorità ecclesiali e civili»
di Gian Guido Vecchi


CITTÀ DEL VATICANO Padre Hermann Geissler, noto teologo austriaco e capo ufficio dell’ex Sant’Uffizio, si è dimesso dalla Congregazione per la Dottrina della Fede dopo essere stato accusato da una ex suora tedesca, Doris Wagner, di averla molestata sessualmente nel 2009, durante una confessione.
Un comunicato della Santa Sede informa che il cardinale prefetto dell’ex Sant’Uffizio, Luis Ladaria, ha «accolto la richiesta» di «lasciare il servizio» e che Geissler, 53 anni, «ha fatto tale passo per limitare il danno già arrecato alla Congregazione e alla sua Comunità». A tre settimane dal vertice planetario sugli abusi pedofili, convocato a Roma da Francesco, la notizia ha scosso il Vaticano. Il teologo «ribadisce che l’accusa contro di lui non è vera e chiede che sia continuato il processo canonico già iniziato».
Inoltre «si riserva eventuali misure di natura legale». Ma la faccenda è seria. Un abuso o una molestia con il pretesto della confessione, nella Chiesa, è considerato uno dei «delicta graviora», i delitti più gravi, come la pedofilia. Inoltre, il sacerdote era rimasto in servizio nell’ex Sant’Uffizio nonostante fosse già iniziato da tempo il processo canonico.
La scelta di dimettersi arriva dopo che l’accusa della donna è diventata pubblica. Doris Wagner ne aveva parlato il 27 novembre scorso in un convegno a Roma. In una intervista al National Catholic Reporter, il 21 gennaio, ha poi dichiarato di aver riferito la condotta di Geissler alla Congregazione nel 2014 con l’aiuto di un avvocato canonico: «Ho ricevuto una risposta che affermava che padre Geissler aveva ammesso, e aveva chiesto scusa, ed era stato ammonito», ha detto. «E questo era tutto».
Vaticano
Sul capo ufficio della Congregazione per la dottrina della fede c’è già un processo interno
Il portavoce vaticano Alessandro Gisotti ha dichiarato al Ncr che il sacerdote era «sotto esame da parte dei Superiori della Congregazione, che si riservano il diritto di prendere le iniziative appropriate». E tuttavia Geissler, a capo della sezione dottrinale, dal 15 al 18 gennaio era nella delegazione dell’ex Sant’Uffizio che ha partecipato a Bangkok, in Thailandia, all’incontro con i presidenti delle Commissioni dottrinali dei vescovi dell’Asia.
Il tema degli abusi psicologici e fisici nel clero contro le religiose sta esplodendo. A novembre era intervenuta l’Unione Internazionale delle Superiore Generali (Uisg), che rappresenta oltre mezzo milione di suore nel mondo: «Chiediamo che ogni donna religiosa che sia stata vittima di abusi denunci quanto accaduto alla superiora e alle autorità ecclesiali e civili».

Repubblica 30.1.19
Scandalo in Vaticano
Abusi sessuali in confessionale teologo costretto a dimettersi
di Paolo Rodari


Città del Vaticano A poche settimane dal summit sugli abusi sessuali dei sacerdoti, convocato da Francesco, il Vaticano è scosso dalle dimissioni di padre Hermann Geissler, capo ufficio alla Congregazione per la Dottrina della fede, che ha chiesto al cardinale prefetto, il gesuita Luis Ladaria, « di lasciare il suo servizio » . Ladaria « ha accolto questa richiesta » , riferisce un comunicato dell’ex Sant’Uffizio. Geissler, 53 anni, austriaco, accusato da una donna di molestie avvenute nel 2009, « ha fatto tale passo per limitare il danno già arrecato alla Congregazione e alla sua Comunità » . Ma « ribadisce che l’accusa contro di lui non è vera e chiede che sia continuato il processo canonico già iniziato. Si riserva anche eventuali misure di natura legale».
Ad accusare Geissler è Doris Wagner, una ex suora tedesca, che sostiene di essere stata abusata dal sacerdote durante una confessione avvenuta durante un evento a Roma e dedicato a dare voce alle donne vittime di abusi sessuali commessi da uomini di Chiesa. L’accusa, se verrà provata, è pesante. Geissler, fra l’altro, non è uno qualunque Oltretevere: da 25 anni lavora all’ex Sant’Uffizio, è autore di pubblicazioni teologiche, a lungo membro della comunità religiosa Opus spiritualis Familia.
Wagner parlò contro di lui pubblicamente nel corso di una intervista rilasciata al National Catholic Reporter il 21 gennaio. Al magazine statunitense disse di aver riferito la condotta di Geissler alla Dottrina della fede nel 2014: « Ho ricevuto una risposta in cui si affermava che padre Geissler aveva ammesso, aveva chiesto scusa ed era stato ammonito», disse la donna. E ancora: «E questo era tutto». Il portavoce vaticano, Alessandro Gisotti, aveva dichiarato al magazine che Geissler era « sotto esame da parte dei superiori della Dottrina della fede, che si riservano il diritto di prendere le iniziative appropriate ».
A spingere Wagner a parlare è stato probabilmente il fatto che la donna, nonostante la denuncia, abbia visto il sacerdote rimanere ancora nel suo ruolo. Dal 15 al 18 gennaio scorsi, fra l’altro, Geissler era elencato nella delegazione della Dottrina della fede che ha partecipato a Bangkok all’incontro con i presidenti delle Commissioni dottrinali delle Conferenze episcopali dell’Asia. L’abuso nel confessionale, del quale il sacerdote è accusato, nella Chiesa cattolica è annoverato fra i crimini più gravi.
Le dimissioni del sacerdote arrivano nel giorno in cui l’Editrice Àncora e Civiltà Cattolica, dopo oltre 30 anni, ristampano " Lettere sulla tribolazione", un saggio ampliato e aggiornato con una prefazione di Francesco dedicato proprio a come combattere le persecuzioni, vere o false che siano. Otto missive di due prepositi generali della Compagnia di Gesù, sette del padre Lorenzo Ricci, scritte tra il 1758 e il 1773, ed una del padre Jan Roothaan del 1831, parlano della « grande tribolazione » per la decisione presa da Clemente XVI nel 1773 di sopprimere l’Ordine dei Gesuiti, poi ricostituito nel 1814.
Bergoglio torna su quelle lettere giudicandole utili per i tempi presenti nei quali i crimini degli abusi sessuali commessi dai preti, e insieme gli attacchi contro la sua persona provenienti anche da uomini di Chiesa, anche se da lui non direttamente nominati, imperversano.
La soluzione per il Papa è una: non vincere il male con il male, non reagire agli attacchi, ma umiliarsi, dichiararsi e ritenersi più peccatore di coloro da cui si è accusati. «Francesco — spiega padre Antonio Spadaro — non ha mancato in questi anni di fare riferimento a queste lettere e alle sue stesse riflessioni di allora. L’occasione più recente è stata la conversazione privata avuta con i gesuiti durante il suo viaggio in Perú » . Prima del Perú il Papa era stato in Cile. Lì si rese conto che le accuse di abusi mosse da ex vittime contro preti e vescovi insabbiatori erano reali.

La Stampa 30.1.19
D’Alema: “La sinistra può rinascere in Europa. Ma no alle ammucchiate antisovraniste”
L’ex premier: Speriamo che il congresso dia a Zingaretti la forza di inaugurare un nuovo corso politico. Credo che, se ci sarà una svolta nel Pd, si potrà riaprire anche una prospettiva di dialogo con noi”
di Francesco Bei


«Se rappresentiamo quello che sta avvenendo come un conflitto tra europeisti e sovranisti cadiamo in una trappola: in questi termini la partita è già persa. Sarebbe un suicidio per la sinistra convergere in un’ammucchiata con tutti quelli che difendono l’Europa così com’è contro la “barbarie sovranista”». Nel suo studio di presidente di ItalianiEuropei, dopo una lunga trasferta di lavoro in Cina («ormai faccio il pendolare con il mio ufficio a Pechino»), Massimo D’Alema torna dopo molto tempo a parlare di politica italiana.
Romano Prodi, in un’intervista alla Stampa, ha paragonato per importanza le prossime europee a quelle del 1948 in Italia. Davvero è così a rischio la costruzione europea?
«Ho letto e apprezzato l’intervista di Prodi. Secondo me il progetto europeo è a rischio non per l’avanzata dei sovranisti. Quella piuttosto è la febbre, debilitante certo, ma la malattia è un’altra».
Quale?
«L’egemonia neoliberista, monetarista, lo svuotamento dei contenuti etico-politici e sociali del progetto europeo a cui abbiamo assistito negli ultimi quindici anni. Questo è il punto: il populismo cresce a partire da una rottura tra il progetto europeo e le attese di una gran parte dei cittadini. Non scambiamo la causa con l’effetto».
Juncker ha anche fatto autocritica per l’austerità eccessiva imposta ai Paesi più deboli. Non basta?
«C’era chi l’aveva detto per tempo. A partire da Maastricht in poi lo sforzo europeo è stato solo quello di costruire un impianto di norme e vincoli che hanno come unico scopo la stabilità monetaria, il divieto di aiuti di Stato e l’apertura dei mercati. L’ideologia dominante è stata quella neoliberista: bisognava che la politica arretrasse e lasciasse tutto lo spazio all’economia e alla finanza. Una visione ottimistica della globalizzazione che non ha funzionato e ha comportato in tutto il Continente una crescita delle diseguaglianze e anche alcune aree significative di povertà. È mancata una grande strategia europea di sostegno agli investimenti e alla crescita».
L’Europa è anche welfare, diritti sociali, difesa dell’ambiente...
«Certo, sulla carta. Però faccio notare che mentre gli obiettivi di stabilità finanziaria sono presidiati da trattati internazionali e da un sistema di controlli e punizioni, gli obiettivi di sviluppo sono solo degli auspici. Non scatta nessuna procedura di infrazione se uno Stato non garantisce l’occupazione. E questa asimmetria non è neutra, è frutto di un’egemonia culturale».
Quindi al centro di una proposta politica per le europee ci dovrebbe essere una svolta radicale?
«Esattamente. Bisogna avere una legislatura costituente che ridefinisca il patto europeo. Il documento di Thomas Piketty va in questa direzione».
Anche Carlo Calenda, con il suo manifesto europeista, dice che la Ue va cambiata. È d’accordo?
«Apprezzo l’intenzione di Calenda, almeno ha messo in movimento le cose di fronte alle lentezze della sinistra, ha avuto il merito di alzare una bandiera. Ma non è sufficientemente chiaro: il discrimine deve essere il cambiamento. Non si può lanciare un appello e poi essere costretti a precisare che non è rivolto a Forza Italia. Se avesse un impianto programmatico netto non ci sarebbe bisogno di un chiarimento a piè di pagina».
Calenda ha anche messo un paletto a sinistra.
«Non spetta a lui decidere con chi si deve alleare il Pd, c’è un congresso e non mi sembra che si sia candidato».
E lei invece come guarda a questo Pd?
«Con interesse e con l’auspicio che la nuova leadership del Pd riprenda l’ispirazione unitaria in vista delle europee. Non vedo una prospettiva del centrosinistra se non riprende vita il Pd. Naturalmente dovrà avere il coraggio di una riflessione critica su questi anni, non può pensare di far finta di non aver perso le elezioni».
Le sinistre italiane si potrebbero reincontrare?
«Ma certo. Oltretutto a livello europeo la sinistra italiana è più unita che a casa. I parlamentari di Leu e del Pd fanno parte dello stesso gruppo. Non vorrei che l’appello unitario, visti i primi distinguo, avesse come unico effetto quello di dividere in Europa ciò che ora è unito».
Di fronte a Salvini e al suo «chiudiamo i porti», brutale ma efficace, cosa può opporre la sinistra?
«Il terreno su cui sfidare Salvini è un grande progetto che appassioni i cittadini e che chiarisca il vero interesse nazionale».
Ma sui migranti la Lega sembra più in sintonia di voi con gli italiani, non crede?
«No se facciamo capire alla gente che l’Italia ha interesse su questo tema ad avere meno sovranità nazionale e più integrazione europea. Il difetto dell’accordo di Dublino è proprio che è troppo sovranista, lascia ai singoli Paesi il compito di risolvere da soli il problema. Più l’Europa è sovranista, più l’Italia è isolata e esposta».
Intanto il caso Sea Watch ripropone le immagini terribili di persone in ostaggio in acque italiane. Ma i sondaggi premiamo il ministro dell’Interno proprio per la sua linea dura.
«Sono i governi nazionali, in primo luogo quelli alleati della Lega, che hanno detto di no al meccanismo di ripartizione delle quote. Il nostro alleato in questa battaglia è proprio Bruxelles, perché le istituzioni europee hanno proposto meccanismi di solidarietà. Altrimenti l’Italia sarà sempre esposta alla drammatica questione etica se aprire i porti oppure violare i diritti umani. E questo è logorante per un Paese, perché determina un inasprimento del conflitto, e alla fine si logora anche il truce ministro dell’interno».
Perché l’opposizione sembra non esistere? La maggioranza occupa tutto il campo?
«Ci sarà una ragione perché, malgrado tutti gli errori del governo e tutti i tweet che hanno caratterizzato un’incalzante azione di opposizione, nei sondaggi non si muove nulla? Un’opposizione così è inefficace, a volte è persino fastidiosa perché non c’è una parola di autocritica. Difficilmente si potranno convincere gli italiani che devono rimpiangere il governo che c’era prima e che loro stessi hanno bocciato con il voto».
Le Europee possono essere il terreno di una ripresa della sinistra?
«Certamente sono un’occasione per rimettere in campo un grande schieramento progressista che dica: abbiamo capito, avete ragione ad essere arrabbiati, ma l’arroccamento nazionalistico che offre il governo è la risposta sbagliata. Questo è il terreno di un possibile dialogo con i cittadini».
Quindi, nonostante i sondaggi, lei vede qualche segnale di speranza?
«Un grande segnale di speranza c’è ogni volta che Papa Francesco prende la parola. Un altro è l’elezione di Landini. È un fatto molto importante per la sinistra che, dopo il confronto politico, il gruppo dirigente della Cgil, da Colla a Camusso, sia arrivato a una scelta unitaria. Nel suo piccolo, anche la Prestigiacomo che sale sulla Sea Watch è un segnale di speranza. Certi valori di umanità non hanno colore. Non è un panorama disperato».
E l’eventuale elezione di Zingaretti a segretario potrebbe aiutare riallacciare i rapporti a sinistra?
«Speriamo che il congresso dia a Zingaretti la forza di aprire un nuovo corso politico. Credo, da osservatore e semplice tesserato di Articolo uno, che se c’è una svolta nel Pd si possa riaprire anche una prospettiva di dialogo a sinistra».

Corriere 30.1.19
La sinistra e le europee
il motto «uniti si vince» ormai non funziona più
di Paolo Franchi


La strategia Occorrerebbe differenziare e articolare l’offerta politica

Ha detto qualche giorno fa Romano Prodi, intervistato dalla Stampa, che le elezioni del 26 maggio «sono destinate a richiamare, in un contesto più ampio, quelle del 1948 in Italia»: perché, come allora, sarebbe «in causa il nostro destino». Richiami al 1948 erano echeggiati anche in occasione del varo dell’appello di Carlo Calenda. Magari, chissà, ne sentiremo ancora. Le buone intenzioni di chi sollecita l’unità degli europeisti contro il dilagare dei populismi e dei nazionalismi si vedono a occhio nudo. Non è altrettanto chiaro, invece, che cosa c’entri il 1948. E soprattutto se, ad evocarne in qualche modo lo spirito, quel che resta del centrosinistra non rischi di farsi ulteriormente del male. Di buone intenzioni, purtroppo, è lastricata la via dell’inferno.
Intanto. Il 18 aprile del 1948, la Dc di Alcide De Gasperi, sorretta in Italia dalla Chiesa di papa Pacelli e dai Comitati civici di Luigi Gedda, e dall’esterno dagli Stati Uniti, sconfisse duramente il Fronte popolare di Palmiro Togliatti e di Pietro Nenni. Che Prodi pensi a De Gasperi, è giusto, ma, con la sua biografia, anche scontato. Per chi a sinistra, è figlio, nipote o pronipote della storia opposta, lo è meno. Da un pezzo molti post comunisti italiani (il primo fu, già nel fatidico 1989, Massimo Cacciari) hanno riconosciuto che l’esito di quelle elezioni fu una fortuna per il Paese. Nel suo Diario in pubblico, pubblicato postumo per Marsilio a cura del figlio Duccio e del sottoscritto, Antonello Trombadori riferì di una cena in quei giorni alla Carbonara, in cui i commensali (Paolo Bufalini, Rosario Villari e Trombadori medesimo) ragionarono a lungo su chi, tra loro e i loro compagni, in caso di vittoria del Fronte, sarebbe stato sbirro e chi prigioniero. Ma «18 aprile» restò ugualmente, per i comunisti e ancor più per i socialisti, sinonimo di sciagura. Generazioni intere impararono a utilizzare parole come «Fronte» e «frontismo» solo per indicare delle strade da non percorrere per nessun motivo. Anche se Giuseppe Stalin era morto da un pezzo, e l’Italia non dipendeva più, per mangiare, dal grano inviato dagli americani.
Queste, si dirà, sono storie vecchie, la progenie dei loro protagonisti, dei loro comprimari e delle loro comparse ha ben altro di cui occuparsi. Chi vuole l’Europa, e un’Italia europea, ha già preso troppo tempo dilaniandosi in lotte intestine feroci e inconcludenti. Adesso deve unirsi, «fare fronte», appunto contro quelli che non vogliono né l’una né l’altra, e pretendere dagli elettori un responso chiaro: o di qua o di là. A primavera, però, non ci sarà un referendum, ma delle elezioni in cui si voterà con il sistema proporzionale. E in elezioni di questo tipo l’antico motto «uniti si vince» non funziona. Per vincere o, più realisticamente, per contenere la sconfitta entro limiti ragionevoli, occorre al contrario differenziare e articolare l’offerta politica, pur tenendo nel massimo conto, una soglia di sbarramento che limita non poco le possibili opzioni.
A cercare di contrastare il populismo e il sovranismo ci sono forze (e potenziali elettori) europeiste sans phrase, ma ce ne sono pure altre non anti europee, certo, che però sull’Europa così come ha funzionato e funziona hanno parecchio da ridire, e si sono convinte anche autocriticamente che un eccesso di subalternità alle sue logiche abbia contribuito non poco a far sì che i Cinque Stelle, ma pure la Lega, mietessero consensi nell’elettorato, popolare e non solo, di centrosinistra. Si può decidere, naturalmente, di tenere fuori queste ultime, ma così il fronte in questione sarà in partenza molto meno ampio. Sarà possibile, allora, tenerle assieme ugualmente nella lotta contro il nemico comune? Forse sì, ma senza dimenticare che gli avversari, che rappresentano a tutt’oggi la maggioranza degli italiani, sono due, e in aspra concorrenza tra di loro. Magari sarebbe meglio, si sarebbe detto una volta, provarsi a incidere sulle loro contraddizioni, piuttosto che metterli nella condizione (ancora un linguaggio d’antan ...) di marciare divisi e colpire uniti quello che entrambi rappresenterebbero, probabilmente con successo, come il fronte unito delle élite e dei vinti della Seconda Repubblica.
La storia non è magistra vitae, ma attenti lo stesso agli amari risvegli. Chissà perché in questi giorni mi sono tornati alla mente i versi di Vittorio Sereni su Umberto Saba: «E un giorno o due dopo il 18 Aprile/ lo vidi errare da una piazza all’altra/ dall’uno all’altro caffè di Milano/ inseguito dalla radio. / Porca — vociferando — porca. Lo guardava/stupefatta la gente./ Lo diceva all’Italia. Di schianto, come a una donna/che ignara o no a morte ci ha ferito».

il manifesto 30.1.19
De Masi: «Sinistra lenta, Salvini corre L’Italia finirà come il Brasile»
Intervista al sociologo. Il professore: il leghista si è mangiato M5S, cita il fascismo e presto pretenderà Palazzo Chigi. Il ministro dell’interno è il leone che ha preso la gazzella e la sbrana un pezzo alla volta. Ma oggi non c’è alternativa: Renzi ha cambiato il Pd, finirà in milioni di schede bianche
di Daniela Preziosi


Ha studiato i 5 stelle, ha fatto ricerche per loro, ne ha apprezzato il potenziale. Poi per primo li ha avvertiti che se avessero fatto il governo con la Lega sarebbero finiti «mangiati». Il sociologo Domenico De Masi ha appena dato alle stampe «Il mondo è ancora giovane» (Rizzoli), una lettura carica di speranza. Con un’avvertenza finale, una condizione: «Se non andiamo a sbattere in un fascismo».
Professore, la Lega si è mangiata i 5 stelle, anche nella vicenda Diciotti si sono consegnati a Salvini?
Gli scontri ci sono tutti i giorni, ma ormai l’esito si può quantificare. All’inizio Salvini aveva il 17% e Di Maio il 33. Ora le parti sono inverse. Mai in Italia, forse al mondo, un partito ha raddoppiato i consensi stando al governo e in soli 8 mesi. Continuerà così. Salvini è il leone che ha preso la gazzella, la tiene ferma e se la mangia un pezzo alla volta.
E dopo il banchetto?
Salvini esibisce il suo piano. Va in giro vestito da militare. Cita apertamente il linguaggio fascista: ’molti nemici molto onore’. Umberto Eco elenca 14 elementi per riconoscere la propensione all’autoritarismo, all’Ur-fascismo, il fascismo eterno. Salvini li ha tutti. E così gli elementi che Adorno individua nella personalità autoritaria. E quelli di Talcott Parsons. Per ora in dose pediatrica. Ma il decreto sicurezza vieta gli assembramenti e punisce i mendicanti: altri fascismi l’hanno fatto dopo la presa del potere. Qui prima.
Salvini si avvia alla ’presa del potere’?
Se alle europee avesse un successo smaccato, come quello che dette alla testa a Renzi, non tarderebbe a porre il Colle a un bivio: o Palazzo Chigi o il voto. Non continuerebbe a fare ’solo’ il vicepremier. A quel punto il lavoro sporco non lo farebbe più lui. Non a caso blandisce formazioni come Casapound.
Il ’lavoro sporco’ è costruire il consenso sulla pelle dei migranti, come in queste ore?
Questi episodi sono un effetto. Il fenomeno è che in Italia c’è il 35 per cento degli elettori che è d’accordo. Il metodo con cui Salvini lo snida è rozzo: tenendo migranti al gelo su una nave, portando via dalle scuole i bambini. Cose che non possono non evocare come i fascisti si comportarono con gli ebrei. Quello di Salvini è un linguaggio. Così il suo linguaggio ’vestimentario’, l’uso delle divise. Significa: se io avessi il potere lo eserciterei in modo militare. Ma il modo militare in caserma è democratico, nella società è fascismo. E poi vuol dire alle forze armate: state pronti, sono la persona giusta.
E l’altro 65 per cento che fa?
Questo è il punto. Il fascismo è la miscela che rende complici quelli che consentono la presa del potere. L’ho osservato in Brasile, che frequento da trent’anni. Bolsonaro non si è camuffato: in tv ha detto che era contro la parità, a favore della tortura, ha invitato gli studenti a filmare i professori che parlano di politica e a fare delazione. La sinistra ragionevole e colta, per non votare Pt, ha votato scheda bianca. Milioni di voti persi. Il Brasile oggi ha 7 ministri militari.
L’Italia rischia uno scenario del genere?
E cosa ci fa credere di avere gli anticorpi? Ci siamo cullati nell’idea che due cose non potessero mai succedere: il ritorno del fascismo e quello della guerra. Ma la storia dimostra che questi fenomeni sono ricorrenti. Camus racconta che i germi della peste non muoiono, si nascondono nei cassetti.
In molti contestano, qui e oggi, l’uso della parola ’fascismo’.
A differenza di altri autoritarismi, il fascismo è diventato un aggettivo ed è stato usato per la Spagna franchista, per l’Argentina della dittatura, per la Grecia dei colonnelli. Uso questo termine per definire un regime in cui la Costituzione non viene rispettata, in cui il volere del capo prevale su tutto, i dissidenti sono puniti, c’è un culto della tradizione, della patria, il rifiuto della critica, la paura della diversità, il disprezzo per le minoranze, il machismo. Ogni giorno siamo più assuefatti.
E i 5 stelle?
Sono stati un baluardo.
M5s un baluardo?
Tenue, ma baluardo. Sono gli unici con cui Salvini ancora deve trattare. Ora quelli di destra passeranno con Salvini, quelli di sinistra resteranno sbandati e si asterranno. Il Pd è troppo lento nel modificarsi, e forse non ha la consistenza culturale per farlo. È un partito apparentemente di sinistra ma a tutti gli effetti neoliberista, non attrae quelli che abbandonano i 5 stelle.
Il Pd non è socialista, è neoliberista?
Renzi ha emarginati i sindacati, ridotte le tasse, condonato i capitali esteri, abolito l’art.18. Un programma neoliberista.
Insomma c’è una base sociale, un popolo di sinistra ma non c’è una sinistra politica, un partito, un riferimento?
In piazza contro la sindaca Raggi a Roma c’era gente per cui una manifestazione politica è un’increspatura superficiale senza consapevolezza. Qualcuno si rende conto che se salta la Raggi arriva la Meloni? O la Lega? In Italia l’alternativa non c’è. Renzi ha provato a fare un’operazione deleteria nel Pd, allontanare la sinistra e attirare i berlusconiani. È riuscito solo nella prima parte. Oggi rimettere insieme pariolini progressisti e sottoproletari è difficile. E dire che c’è un nemico comune. Qualcosa si muove. Ma troppo lentamente rispetto alla velocità con cui Salvini va al potere.
Prevede la destra al potere per un periodo lungo?
È la sinistra che ha tempi lunghi. Ci sono schegge di sinistra ovunque, persone sfruttate a cui la sinistra non ha fatto pedagogia. E così anche gli sfruttati stanno con gli sfruttatori. Marx la chiama alienazione. C’è una mousse di sinistra abbastanza intellettuale da essere scettica, ma non così tanto da essere colta. Sarà quella che ci regalerà il fascismo votando scheda bianca.

Repubblica 30.1.19
Né élite né gente, democrazia è unire la società
di Gustavo Zagrebelsky


A nessuno è precluso l’ingresso nelle classi dirigenti ma nessuno è immune dalla caduta, valori e difetti sono divisi equamente. Per questo non ci sono patti tra alto e basso ma un continuo lavoro contro le divisioni
L’articolo di Alessandro Baricco E ora le élite si mettano in gioco ha dato impulso a un dibattito intorno a quest’affermazione: tra le élite e la gente si è rotto “un certo patto”, e la gente adesso ha deciso di fare da sola. I commenti che ne sono seguiti hanno assunto queste proposizioni come punto di partenza obbligato. A me pare, tuttavia, che contengano qualcosa di ambiguo, forse di fuorviante. Provo a chiarire i perché di un disagio non solo concettuale. I termini élite, gente, patto e rottura del patto, fare da sé appartengono, mi sembra, a un linguaggio non adeguato al nostro tempo.
La parola élite suggerisce l’idea di un ceto ristretto di “ottimati”, cioè di un’aristocrazia di “eletti” («molti sono i chiamati, pochi gli eletti»): élite viene da lì e indica la parte migliore, i pochi che si distinguono dalla parte peggiore, i molti. I migliori possono legittimamente pretendere di avere più diritti, di sovrastare i molti, i peggiori.
Costoro sono definiti con una parola negativa: “la gente”. Con gente intendiamo l’insieme di individui privi di qualità, uomini-massa simili gli uni agli altri nell’essere mossi da interessi egoisti e di breve durata, orgogliosi della propria mediocrità, in realtà frustrati, aggressivi e violenti nei confronti dei diversi da loro. La loro cultura è fatta di luoghi comuni, di pregiudizi, di vocaboli vuoti ai quali si affezionano per mascherare la propria ignoranza. Il loro desiderio predominante è di soppiantare gli uomini superiori e da qui nasce «la ribellione delle masse».
Quest’espressione è il titolo d’un libro pubblicato nel 1930, un tempo in cui i fascismi incombevano pressoché in tutta Europa. Il suo autore, lo spagnolo José Ortega y Gasset, descrive magnificamente il degrado della democrazia dovuto al prevalere di “quella gente”, degrado che avrebbe finito per renderla invisa ed esposta inerme ai suoi nemici.
Questi pensieri facevano parte d’una ideologia e d’una teoria politica, la teoria delle élite, condivisa da ciò che ancora restava della gloriosa tradizione liberale ottocentesca. Gli elitisti vedevano con preoccupazione l’ascesa politica delle masse, ascesa che non avrebbe portato all’estensione, ma al tracollo della democrazia a favore dei demagoghi che avessero saputo meglio accarezzare gli impulsi irrazionali ed emotivi della gente, oggi diremmo i populisti. Così si proponevano come garanti della stabilità e dell’ordine politico, e pensavano di poter offrire questa garanzia per stipulare un patto con la gente comune: solo che era un patto di sudditanza, destinato a essere rotto non appena se ne fosse presentata l’occasione, cioè molto presto.
Oggi siamo ancora, e lo saremo sempre, alle prese con la questione della qualità della democrazia. Tra i tanti suoi problemi, questo è forse il maggiore. Ma crediamo che lo si possa affrontare usando ingredienti come élite e gente?
Quando si tratta di definire come è composta l’élite, si mettono in un unico calderone, per esempio, medici, universitari, avvocati, politici, preti, giornalisti e artisti di successo, imprenditori e dirigenti politici, ricchi e super-ricchi, quelli che allo stadio vanno in tribuna e «quelli che hanno in casa più di cinquecento libri». Capiamo di cosa parliamo? Ci sono cose troppo diverse: professionisti, dirigenti politici, imprenditori, privilegiati, benestanti.
Diciamo: sono coloro che si pongono nella parte alta della piramide sociale e, qualificandosi élite, pretendono che ciò basti perché debba riconoscersi loro un plusvalore morale.
Quest’insieme è piuttosto l’establishment. Come “gente” suona male presso le élite, così “establishment” — o se vogliamo usare le nostra lingua: casta di intoccabili — suona male presso la gente.
D’altra parte, può farsi il medesimo discorso rovesciandolo. La gente non è solo egoismo, irrazionalità, emotività, volgarità, violenza, ecc. C’è questo, ma anche altro.
Spesso troviamo saggezza, pazienza e, soprattutto, conoscenza ed esperienza pratiche, concretezza, spirito di solidarietà: cose che difficilmente si trovano nell’establishment. Come nelle élite, anche qui c’è un miscuglio di cose buone e cattive.
Dunque, tra élite e gente, non è possibile alcun patto, e non perché ci sia insanabile inimicizia, ma per la semplice ragione che non si saprebbero individuare le parti separando vizi e virtù. Sono mescolati e tutti ne sono responsabili. Tra parentesi: i patti possono esserci nella distribuzione del potere sociale e si chiamano compromessi, come è stato il cosiddetto compromesso social-democratico. Ma questo riguarda altra cosa, non la democrazia e la sua qualità.
Insomma, a nessuno è precluso di essere o dirsi élite; ma nessuno è immune dall’essere o essere detto gente o gentaglia.
Ciascuno di noi è al tempo stesso, per qualche aspetto, élite e per qualche altro gente.
Questa è la democrazia, l’unico regime non manicheo. Sono i regimi non democratici, quelli che separano a priori i buoni e i cattivi, quelli degni di governare e quelli cui tocca ubbidire. Onde quando, per esempio, certi risultati elettorali non ci soddisfano, anzi ci disgustano, non diciamo: ha vinto la feccia, perché ciò autorizza a sentirci rispondere: feccia sarai tu. È purtroppo quello che accade: ci si scontra davanti agli elettori con l’intento di squalificarci reciprocamente. Il motto dilagante di questo modo degradato d’intendere il dibattito pubblico è: «Si vergogni».
Tra le «promesse non mantenute» della democrazia, più di trent’anni fa Norberto Bobbio indicava «il cittadino non educato», espressione che dice in modo misurato individuo-massa, di cui sopra.
L’idea degli ottimisti secondo i quali l’esercizio della democrazia è la migliore scuola di democrazia fu a lungo uno degli argomenti preferiti a favore del suffragio universale e, oggi, a favore del voto agli stranieri residenti.
Guardiamoci intorno.
L’esperienza, dicono i pessimisti, dimostra piuttosto il contrario. La democrazia (come del resto tutte le forme di governo) si logora con l’uso.
Non solo aumenta l’apatia (l’astensionismo), ma prevalgono gli istinti più bassi, l’ignoranza pericolosa, l’egoismo. Per questo, in questo autunno della democrazia, le proposte che circolano sono piuttosto a favore del restringimento del diritto di voto togliendolo a chi lo userebbe pericolosamente, o limitandone il più possibile l’esercizio. Vecchissima storia, che si ripresenta oggi sotto un neologismo piuttosto ripugnante, la epistocrazia, il governo di coloro che sanno, degli esperti, dei dotti: un modo per riverniciare a nuovo il potere dei pochi a danno dei molti.
Che dire? Se dovessi basarmi su quel che vedo, direi che nulla è scontato. Il diffuso pessimismo è fronteggiato, in maniera che mi pare crescente, da un desiderio di comprendere che si manifesta nelle aule scolastiche, perfino nelle piazze e in ogni occasione d’incontro su temi di cultura politica. Qui compare quel pezzo di élite che è indicato come coloro che hanno in casa cinquecento libri. A questi spetta il compito e la responsabilità concreta di cucire la società, di evitare che, per l’appunto, essa si divida in élite e gente.
Ricordo che in un passo dei Quaderni di Antonio Gramsci, in cui si discuteva il nostro tema, partendo dalla domanda: come si può ammettere che il voto di Benedetto Croce valga come quello del pastore analfabeta transumante nel centro della Sardegna, si rispondeva così: il pastore non ha nessuna colpa, la colpa è di quelli — politici e intellettuali — che non hanno saputo raggiungere il pastore per imparare qualcosa da lui e per insegnare qualcosa a lui. Il che non si può fare se si crede che la cultura sia tutta racchiusa nelle biblioteche.

il manifesto 30.1.19
Caso Salvini, i 5 Stelle nel vicolo cieco
Catania, il (tardivo) sbarco dei migranti dalla nave Diciotti
di Massimo Villone


Ci si poteva scommettere. Salvini non ha tolto dalle pesti M5S chiedendo di votare sì all’autorizzazione a procedere. Perché fare mostra di animo nobile e coraggioso, quando c’è un utile politico facile, a spese dei competitors di governo? Piuttosto, fa impressione che i pentastellati – almeno a sentirli parlare – ci caschino di nuovo. Ancora ci credevano, o credono, mentre è alto il fuoco di sbarramento leghista.
È probabile che Salvini abbia sempre saputo di avere poco da temere. La legge costituzionale 1/1989 intese riportare il reato ministeriale – per definizione, quello commesso nell’esercizio delle funzioni – alla giurisdizione ordinaria. In precedenza, il modello adottato era quello della messa in stato di accusa del parlamento in seduta comune, con giudizio della Corte costituzionale. Ora invece uno speciale collegio di tre magistrati estratti a sorte può archiviare con decreto non impugnabile. In caso contrario, gli atti sono trasmessi alle camere.
È questa appunto la fase in cui ci troviamo, che si svolge in prima battuta presso la giunta per le autorizzazioni a procedere. Ma si tratta di un passaggio meramente istruttorio, sul quale la giunta riferisce all’aula. Che il voto in giunta vada in un senso o nell’altro può essere alla fine sostanzialmente irrilevante. Infatti, l’articolo 9 della legge 1/1989 testualmente dispone che l’assemblea «può, a maggioranza assoluta dei suoi componenti, negare l’autorizzazione a procedere ove reputi, con valutazione insindacabile, che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo». È su questo che l’assemblea si pronuncia, e non sul punto – che non potrebbe ovviamente né avallare né smentire – che un reato sia stato commesso o no. Non c’è valutazione di fumus persecutionis, e si tocca un profilo di responsabilità politica piuttosto che giuridica. Questo è il senso del richiamo fatto da Salvini nella sua lettera.
Per la stessa legge costituzionale solo un esito ferma l’autorizzazione: una maggioranza assoluta dei componenti che vota no. Qualunque altro esito – ad esempio, una maggioranza di no, ma solo relativa – comporta che l’autorizzazione sia concessa. E che parallelamente venga negata la sussistenza dell’interesse costituzionalmente rilevante o del preminente interesse pubblico. Si è inteso così creare un favor per l’autorizzazione. Ma si è al tempo stesso introdotto un evidente elemento di pressione per un compattamento della maggioranza. Ancor più se si considera il procedimento come disciplinato dal regolamento del senato all’articolo 135 bis.
Diciamo che in un modo o nell’altro – dipende da quello che decide e propone la giunta – l’aula sarà chiamata a deliberare sul diniego dell’autorizzazione. Ciò comunque avverrà mediante votazione nominale con scrutinio simultaneo ovvero dichiarando il voto ai segretari (comma 8 bis). Si tratta quindi di una votazione in cui non c’è anonimato, e ogni voto ha nome e cognome.
Questo mette sotto una particolare pressione M5S, anzitutto per i numeri in senato che – a fronte di qualche voto per l’autorizzazione già annunciato – potrebbero rendere indispensabile un soccorso nero alla maggioranza per raggiungere la metà più uno dei componenti richiesta per il diniego. Se il soccorso fosse necessario e sufficiente, forse si eviterebbero convulsioni, ma il prezzo politico sarebbe alto. Se il soccorso non bastasse, potrebbero aprirsi scenari inattesi, per la ovvia difficoltà di scindere le responsabilità del governo nel suo complesso dall’operato di un ministro che non è mai stato sconfessato dai suoi pari di governo. Nessuno si era accorto che Salvini dava di matto? Invece, da ultimo Conte attesta che ha seguito la linea del governo. Si può mai affermare che un intero governo non abbia perseguito un preminente interesse pubblico? Li mandiamo tutti davanti al giudice penale?
Dubitiamo che M5S voglia o possa permettersi di peggiorare la singolare situazione, in cui già vive, partner di un governo di separati in casa. Ma è intollerabile che la questione migranti sia ormai ridotta a sgradevole sceneggiata, su un palcoscenico fatto di miserie politiche e umane.

Tpinews 28.1.19
“Ho fatto l’infiltrato sulle navi delle ong per conto della Lega e di Salvini. Oggi mi hanno abbandonato”
Pietro Gallo, agente della sicurezza a bordo della Vos Hestia, racconta al Fatto del suo compito di documentare presunti illeciti nella gestione dei salvataggi dei migranti

qui

il manifesto 30.1.19
Il consiglio comunale vota lo sgombero di CasaPound
Roma Capitale. La mozione del Pd approvata anche dal M5S
di Gilda Maussier


La sede romana di CasaPound Italia – «i fascisti del Terzo Millennio», come amano definirsi loro stessi – va sgomberata immediatamente. È quanto dispone una mozione approvata ieri a stragrande maggioranza dal Consiglio comunale capitolino (30 sì; solo 4 i voti contrari, quelli di Lega, Fi e FdI) che impegna la sindaca Raggi ad «attivarsi presso gli Organi competenti affinché sia predisposto lo sgombero immediato dello stabile sito in Via Napoleone III illegalmente occupato da CasaPound».
Una mozione vale quel che vale (poco, si sa) ma il testo presentato dal Pd e votato anche dl M5S – anzi, tengono a precisare i pentastellati che Virginia Raggi l’ha più volte sollecitato -, se da un lato punta a mettere in imbarazzo il ministro Salvini nella speranza di porlo davanti alla scelta di rallentare la corsa delle sue ruspe oppure di travolgere anche i suoi ex alleati neofascisti, dall’altro lato potrebbe diventare invece un’arma a doppio taglio per tutte le occupazioni romane.
Non che sia lecito porle sullo stesso piano, naturalmente. Le differenze sono evidenti, come fa notare la stessa mozione che porta la prima firma del consigliere dem Giovanni Zannola: «Non è tollerabile che Casapound possa protrarre la propria occupazione in un edificio di pregio per svolgere attività che alimentano un clima di tensione in città, rifacendosi alle ideologie fasciste e alle politiche di Benito Mussolini, violando le normative che non consentono tali comportamenti».
O come sottolinea anche Alessio Pascucci, sindaco di Cerveteri e consigliere della Città Metropolitana, che già ad agosto 2018 aveva posto la questione dello sgombero di CasaPound al Prefetto Basilone, alla sindaca e al ministro dell’Interno, «senza alcuna risposta», e ora si rallegra dell’iniziativa dei consiglieri. Con una precisazione: «Sono assolutamente contrario allo sgombero dei centri sociali, ma un conto è occupare uno spazio abbandonato, recuperarlo e restituirlo alla cittadinanza, altro conto è un partito politico che occupa un immobile pubblico».
La mozione spiega anche che l’immobile, di proprietà del Demanio, è occupato dal 2003 ma che «solo nel 2008 viene costituita l’associazione di promozione sociale CasaPound Italia». E che «ad oggi non è possibile escludere, anzi è probabile, che gli appartamenti all’interno della sede di CasaPound vengano affittati a terzi». Finora, prosegue il testo, «nessuna amministrazione e nessuna istituzione si è occupata di stabilire il danno erariale prodotto da questa occupazione», e invece bisogna «proseguire il percorso di permuta dell’immobile finalizzato alla sua riqualificazione, avviando un confronto con la cittadinanza e le istituzioni territoriali per deciderne l’utilizzo futuro».
I grillini romani rivendicano la scelta di aver votato la mozione del Pd, spiegando che «la legalità non ha colore politico». Un’affermazione neutra? Non proprio: «Diamo un segnale – rilancia il consigliere di Noi con Salvini, Maurizio Politi – votiamo tutti insieme un odg per chiedere lo sgombero di tutti gli edifici occupati in città, fuori dalla propaganda politica».
«Che cosa farà ora Salvini?», provoca il gruppo consiliare del Pd. «Noi non siamo alleati di Salvini dal 2015, quindi il ministro è libero di comportarsi come meglio crede», ribatte il leader di CasaPound Simone Di Stefano che nega che la sede del loro partito sia in Via Napoleone III, e avverte: «Se pensa di venire qui e buttare i bambini in mezzo alla strada troverà una ferma opposizione». La questione dunque è tutta e solo politica.

La Stampa 30.1.19
Via libera allo sgombero di CasaPound
Al Campidoglio passa la mozione del Pd, a favore anche i 5S. Dem in pressing su Salvini: basta far finta di nulla
di Flavia Amabile


Dopo settimane di polemiche il Pd ha presentato una mozione per chiedere lo sgombero dell’edificio occupato da CasaPound a Roma. La mozione è stata approvata a maggioranza dal consiglio comunale e assegna alla sindaca Virginia Raggi il compito di intervenire con ministro degli Interni, prefetto e questore perché venga predisposto lo sfratto immediato dell’edificio.
A votare a favore della mozione è stato anche il Movimento Cinque Stelle che della Lega è alleato nel governo nazionale. E la Lega è il partito guidato da Matteo Salvini, ministro dell’Interno, non indifferente a CasaPound. Nei mesi scorsi quando stava sottolineando la necessità di velocizzare gli sgomberi a Roma perché fonte di degrado, spiegò anche che lo sgombero di CasaPound, invece, «non è una priorità» molte altre sono più urgenti.
«Siamo di fronte alla solita polpetta avvelenata per Matteo Salvini, fatta pensando di metterlo in difficoltà - accusa il leader del movimento di estrema destra, Simone di Stefano, segretario di CasaPound -. Ma noi non siamo alleati di Salvini dal 2015, quindi il ministro è libero di comportarsi come meglio crede».
Ma la questione è ormai più politica che una semplice misura di contrasto all’infinito degrado romano. Il Pd si rivolge alla Lega in un’interrogazione urgente al ministro dell’Interno firmata dalla senatrice Monica Cirinnà, Luigi Zanda, Bruno Astorre, Annamaria Parente, Andrea Marcucci, Franco Mirabelli, Teresa Bellanova e Antonio Misiani: «Ora il ministro Salvini non può più far finta di niente: dica quando verrà fatta rispettare la legalità e si procederà alla fine dell’occupazione abusiva dell’immobile».
Al Pd si aggiunge la voce dei Cinque Stelle. La consigliera Roberta Lombardi: «Salvini ti presenterai anche lì con la ruspa?».
Il ministro dell’Interno risponde ricordando che «come da programma concordato dalla Prefettura di Roma, procederemo con l’operazione sicurezza e sgombero di tutte le occupazioni illegali, nessuna esclusa, a partire già dai prossimi giorni dalle situazioni più pericolose per l’instabilità delle strutture e da quelle per cui ci sono richieste di sequestro giudiziario in corso».
Simone Di Stefano però annuncia battaglia contro la mozione. Innanzitutto precisa che «non esiste nessuna sede di partito in Via Napoleone III come certificato da verbale GdF e quereleremo gli autori della mozione». Inoltre, fa notare in un post su Facebook, il Comune non è proprietario dell’immobile «quindi non ha nessun potere di richiedere indietro lo stabile». E ricorda una delibera di Veltroni che obbliga il Campidoglio «a fornire 18 alloggi di edilizia residenziale pubblica alle famiglie occupanti, prima di eseguire qualsiasi sgombero». Poi attacca: «Da 15 anni ogni sindaco che non è in grado di amministrare la città a un certo momento per distrarre i romani inizia a parlare di CasaPound. Questo non ha portato molta fortuna ai sindaci precedenti - conclude - e speriamo porti sfortuna anche alla Raggi».

Corriere 30.1.19
Campidoglio
M5S con il Pd: «Sgomberare CasaPound»
Salvini frena
di Maria Egizia Fiaschetti


Roma La maggioranza M5S in Campidoglio ha approvato con 30 voti a favore (quattro i contrari, tre consiglieri di FdI e uno della Lega) la mozione del Pd che impegna la sindaca «a intervenire presso il ministero dell’Interno, il prefetto e il questore affinché sia predisposto lo sgombero immediato dell’immobile occupato da CasaPound». Già a ottobre Virginia Raggi aveva chiesto al vicepremier del Carroccio di intervenire nel palazzo in via Napoleone III, di proprietà del Demanio, occupato da 15 anni. Matteo Salvini aveva risposto in modo non troppo dissimile da quanto ha dichiarato ieri, dopo aver appreso dell’atto votato in Aula: «Come concordato con la Prefettura di Roma, procederemo con lo sgombero di tutte le occupazioni illegali, nessuna esclusa, a partire già dai prossimi giorni dalle situazioni più pericolose per l’instabilità delle strutture e da quelle per cui ci sono richieste di sequestro». Il palazzo, dunque, per ora non rientra tra le priorità del Viminale. Ma i senatori del Pd contestano Salvini: «È finita l’ora delle chiacchiere, dopo la mozione non può più fare finta di niente: dica quando verrà fatta rispettare la legalità e si procederà alla fine dell’occupazione abusiva». Roberta Lombardi, consigliera M5S alla Regione Lazio, incalza il ministro: «Ti presenterai anche lì con la ruspa?». L’intesa con i dem, sebbene circoscritta al singolo provvedimento, riaccende i contrasti tra grillini e leghisti nella Capitale, in controtendenza rispetto all’asse di governo nazionale. Gianluca Iannone, portavoce di CasaPound, nel frattempo insiste: «Qui nessuna sede di partito, ma 18 famiglie in emergenza abitativa. Partiranno le querele».

La Stampa 30.1.19
Tra i militanti di guardia all’edificio
“Resisteremo, non ci cacceranno”
di Maria Rosa Tomasello


Dei tanti stabili occupati di Roma, quello che CasaPound ha contrassegnato nel quartiere Esquilino con il proprio nome e la propria bandiera è probabilmente l’edificio che gode della posizione migliore: duecento metri più in là c’è la superba basilica di Santa Maria Maggiore, a trecento piazza Vittorio, a seicento la stazione Termini. Un luogo in cui magnificenza e degrado si mescolano nello spazio più multietnico della Capitale, tra negozi indiani e cinesi, bar di tendenza e senzatetto accovacciati con le loro povere cose negli androni.
«I “compagni” però ne hanno occupato uno in un posto migliore, in piazza del Popolo...» commenta Simone Di Stefano. Nell’aria gelida che accompagna il tramonto, per evitare le intrusioni indesiderate dei cronisti, il segretario nazionale ha deciso di restare di guardia davanti al portone del grande immobile in stile razionalista che l’associazione ha “preso” il 26 dicembre del 2003. «Oggi non si entra, la rabbia è tanta» dice Di Stefano. Accanto a lui, a garantire il rispetto del divieto c’è un piccolo gruppo di militanti storici. Il 27 ottobre scorso, per la prima volta, il portone era stato spalancato a giornalisti e autorità per far conoscere le storie delle famiglie «in emergenza abitativa» che vivono nei 18 appartamenti di questo edificio di sei piani di proprietà del Demanio, dove dai primi Anni Sessanta hanno trovato posto per decenni gli uffici di quello che oggi è il Miur. Ma questa volta l’ingresso è sbarrato.
«L’occupazione scattò quando lo Stato si mise a vendere le case degli enti pubblici con la gente dentro, persone che, se non poteva comprare, finivano sfrattate» racconta Di Stefano. Quel giorno di dicembre lui c’era. E per questo, spiega, la sua residenza è qui, benché non ci viva. Qui è stata stabilita anche la sede legale dell’associazione, «ma non c’è alcuna sede operativa, solo una sala conferenze. E le famiglie».
Ogni piano, tre appartamenti. In uno di questi vive da 16 anni Federica, che attorno alle 18 esce per andare al lavoro: «Mio padre era con loro - indica - quando occuparono, e io sono cresciuta qui: ho un lavoro part-time come cassiera, ho due bambini e mio marito si arrangia, non potrei permettermi di pagare un affitto. Verranno a sgomberare? Non ho paura, ho fiducia in CasaPound». Di Stefano dice di sperare in una soluzione condivisa: che in caso di sgombero il Comune «rispetti l’impegno a trovare 18 alloggi di edilizia pubblica a chi vive qui». Ma in caso contrario, «se dovesse servire, siamo pronti a resistere allo sgombero». Un uomo anziano si allontana rapido, il suo nome è Fernando D. «Qui ci vive mia figlia. Ha due bambini di 2 e 8 anni, è disoccupata, il marito lavora in ospedale come ferrista, i soldi non bastano per un affitto. Devo aiutarli io, altrimenti non ce la farebbero. Spero proprio che li lascino stare». Sono storie di persone in difficoltà, elencano i militanti, «famiglie conosciute, che hanno la residenza e pagano l’immondizia»: un padre che vive accudendo un figlio disabile con una pensione di 280 euro al mese; un uomo che ha perso il lavoro dopo un grave ictus accolto con moglie e figli; un giovane precario che vive con la madre nullatenente; un pensionato al minimo che divide la casa con il figlio e la moglie. «persone a cui bisogna dare una risposta».
Ma benché la strada dello sgombero sia tracciata, l’immobile non è inserito tra le emergenze e i tempi appaiono lunghi. A meno che la mozione votata ieri non rimescoli le carte in tavola, modificando le priorità: una ipotesi che, tuttavia, Matteo Salvini sembra già aver scartato.

La Stampa 30.1.19
Gli afghani hanno creduto alle nostre promesse
di Domenico Quirico


L’America, l’Occidente ha perso la guerra in Afghanistan. Ogni sconfitta, ogni rovina ha un pathos suo proprio. Talvolta anche intriso di dignità.
Quella afghana, sanzionata dall’annuncio del ritiro americano, appare in una posa mediocre, ipocrita. Impuro, è tutto impuro in questa tragedia. C’è solo smorta rabbia, insolenza, la vecchia plumbea nausea di quando dobbiamo constatare che non sappiamo essere all’altezza di quello che dovremmo essere. Ha i colori della maceria. Il colore della bugia.
Ecco: a un certo punto la realtà della guerra scopre i suoi assoluti. Sì, abbiamo perso anche noi la guerra afghana: dopo l’Inghilterra nell’Ottocento e l’Unione Sovietica nel secolo che ci siamo appena lasciati alle spalle. Nonostante i miliardi dilapidati, i morti, gli sgherri che abbiamo gettato nella mischia autorizzandoli a usare il nostro nome, le nostre bandiere. E’ come se ci accorgessimo che tutto il nostro mondo degrada: stupidità delle promesse che abbiano fatto, la democrazia i diritti delle donne le bambine che dovevano andare a scuola gli aquiloni che dovevano tornare a volare nei cieli angelici di Kabul. Marci di questi stupori, rancori, vergogne, quasi pensiamo di poter passare tutto questo sotto silenzio. Anzi in qualche caso esultando con ostentazione vistosa e sguaiata: benissimo! Così risparmiamo denaro.
Dopo aver rifiutato di riconoscere la verità, siamo sconfitti, ci volevano Trump e i suoi caudatari europei per annunciare la fuga. Sono piccoli. La loro braveria minacciosa, il loro parlare apodittico, imperioso ha un falsetto che fa pena: i taleban in fondo, ci rassicurano, non hanno la cattiveria viperina dell’Isis, i taleban. Forse non imporranno la sharia i taleban. Non faremo certo meno dura la nostra colpa, cercando di ingannare per primi noi stessi. Per favore: proviamo a immaginare i pensieri degli afghani che hanno creduto alle nostre promesse. I più anziani avranno in mente la scena tremenda del presidente afghano che aveva creduto in un altro aiuto fraterno, quello dei russi: tirato fuori dal suo nascondiglio, impiccato a un distributore all’ingresso di Kabul, la bocca riempita di banconote. I ricchi, i potenti fuggiranno prima dell’arrivo dei taleban: hanno già la villa in America, loro. Gli altri… Sono migliaia che, sinceramente, ingenuamente hanno creduto agli Stati Uniti, all’Occidente. Hanno con coraggio sfidato divieti e tabù: gli occidentali non se ne andranno! Sono migliaia laggiù, in queste ore, ad accettare il nostro tradimento e la nuova schiavitù. Non ascolteranno i nostri discorsi, non leggeranno più i nostri libri. Le nostre idee le saluteranno sputandoci sopra. E’ finita: anche lì, in un altro angolo del mondo. L’Occidente ormai è solo silenzio. Smarrito in qualche parte della notte, tutto a luci spente, come una nave. I taleban hanno vinto.
C’erano i collaborazionisti per denaro e per losche trame di potere. Ma c’erano quelli che non volevano la sharia, le lapidazioni, l’ottusa semplificazione del mondo del mullah Omar e dei suoi soci salafiti, intellettuali donne giovani che hanno pensato che davvero le nostre grossolane droghe demagogiche fossero verità. Scusate: ce ne andiamo, vi consegniamo ai carnefici. La sconfitta e il tradimento l’abbiamo tra i denti, li mastichiamo, noi siamo sconfitti. Ce li lasciamo dietro gli illusi, i creduloni: democrazia modernità Occidente. Li consegniamo al provvido dio dei vinti, come mille altri «alleati» che abbiamo abbandonato per viltà e convenienza, vietnamiti, somali, siriani, curdi: che vadano combattendo verso la loro notte, foscamente orgogliosi della inesorabilità della propria voluta distruzione. Che almeno ci resti la gravità e la misericordia del silenzio.

Corriere 30.1.19
La triste lezione di Kabul
di Paolo Mieli


Ancora non si sa se e quando gli americani (forse preceduti dagli italiani) lasceranno l’Afghanistan ma gli effetti dei preaccordi di Doha si vedono già. Ancora una volta gli Stati Uniti hanno perso una guerra e incoronano vincitori quelli che un tempo additarono come nemici con i quali non sarebbero mai scesi a patti. Accadde in Vietnam a metà degli anni Settanta, dopodiché questo triste esito si è ripetuto in più di un’occasione. I trattati che gli Usa firmeranno con i talebani a garanzia di lunga vita per l’attuale presidente Ashraf Ghani valgono come quelli sottoscritti dai sovietici nel 1989 volti ad assicurare un grande futuro per Mohammed Najibullah che qualche tempo dopo finì ammazzato e appeso ad un lampione. Lo stesso discorso si può fare per le assicurazioni offerte a quella parte di popolo afghano che ha collaborato con gli «occupanti». Triste destino il loro e non sarebbe onesto evitare adesso di parlarne apertamente, ammantando le nostre considerazioni di un ottimismo che non ha ragion d’essere. Il popolo che credette in un Afghanistan in cui, per nostro merito, sarebbe stato concesso alle donne di togliere il velo e di tornare a studiare, pagherà un prezzo altissimo. Nel silenzio dei media occidentali.
Ancor più che un’incoronazione dei talebani, l’esito di questo conflitto - come di quasi tutti i precedenti scontri armati che ebbero come protagonisti militari a stelle e strisce - segna il trionfo di coloro che a quelle guerre si opposero fin dall’inizio.
a i quali, con scarso senso del ridicolo, si aggiungeranno quegli interventisti del 2001 che avvertiranno l’esigenza di dare spiegazioni su perché e per come sia stato giusto, da parte loro, cambiare opinione nell’arco dei successivi diciotto anni. Avremo i pentiti del 2003 (che diranno di essersi accorti di aver sbagliato — anche per l’Afghanistan — a seguito della guerra in Iraq), quelli del 2011 (convertiti al pacifismo dalle primavere arabe), del dopoguerra in Siria, dei tempi successivi alla nascita dell’Isis e via di questo passo. L’unico risultato di questi atti di contrizione sarà che la prossima volta in cui dovesse rendersi necessario un intervento armato (fosse anche il più ragionevole) le resistenze saranno molto maggiori che in passato. E in effetti, se deve sempre andare a finire così, se le «guerre umanitarie» devono necessariamente produrre come risultato intermedio la presenza di truppe straniere su un territorio ad esse estraneo, non si dovrebbe neanche iniziare. Se non si ha un’idea di come riedificare il Paese e se è prevedibile che alla fine ci si ritirerà senza aver costruito nulla, lasciando sul terreno migliaia di morti oltreché un risentimento diffuso da parte delle popolazioni locali, se le cose, dicevamo, devono obbligatoriamente andare così, forse è da ripensare nei modi più radicali la stessa idea che ci siano situazioni in cui sia doveroso impugnare le armi a favore di una causa. Anche quella che sulla carta può apparire la più lodevole.
La seconda guerra mondiale non fu vinta nell’estate del 1944 sulle spiagge della Normandia o in Germania nel 1945, ma negli anni successivi alla fine del conflitto quando gli alleati in metà Europa — e (con ben altri metodi) i sovietici nell’altra metà — diedero prova di avere un’idea di come rimettere in sesto i Paesi del continente. Una guerra la si vince solo quando si ha per il dopo un’idea di come costruire una pace. Anche per quel che riguarda i costi economici dell’impresa. Tre anni fa il «New York Times» calcolò in dettaglio come in Afghanistan si fosse speso già nel 2016 assai più del costo complessivo dell’intero Piano Marshall con cui nel secondo dopoguerra gli Stati Uniti avevano riedificato l’intera Europa occidentale. Adesso dovremmo essere al doppio. Forse anche più.
Il modo in cui sta «finendo» la guerra in Afghanistan — tra l’altro nei giorni in cui l’amministrazione americana allude (per il momento in maniera ancora vaga) a un possibile intervento in Venezuela a favore dei democratici che si battono inermi contro Maduro — dovrebbe indurci poi a un supplemento di prudenza. Dai diciotto anni trascorsi a Kabul dovremmo apprendere che l’ unica modalità di intervento destinata al successo è quella (all’epoca peraltro assai criticata) di George Bush senior nella prima guerra del Golfo. La missione deve essere motivata in maniera ineccepibile, con prove evidenti di ciò che l’ha provocata. E soprattutto deve essere limitata negli obiettivi e nel tempo. Per dire, la seconda guerra mesopotamica, quella di George Bush junior contro Saddam, apparirebbe, secondo tali criteri, sconsigliabile — al di là della questione delle armi di distruzione di massa — per il fatto che la costruzione di un regime democratico a Bagdad era un obiettivo velleitario e tale da richiedere una presenza di truppe in terra irachena eccessivamente prolungata.
A questo punto la lezione dell’Afghanistan è inequivocabile: qualsiasi intervento preveda che soldati stranieri restino per un lungo periodo nel Paese che si vuole «salvare» — ed è da considerarsi lungo quel lasso di tempo che si protrae per più di qualche settimana — è da ritenersi di per sé potenzialmente dannoso. Anche se originato da ragioni le più nobili. Anzi ormai si può considerare provato che più sono ambiziosi gli obiettivi di affermazione del bene contro il male, più c’è da preoccuparsi che il male alla fine in qualche modo trionfi.
C’è poi un’ultima lezione afghana che si può apprendere dall’Italia. Quando c’è da annunciare il ritiro da una guerra che ha prodotto decine di morti — tra i quali è giusto qui ricordare i parà del sanguinoso attentato a Kabul del 17 settembre 2009 (senza però lasciare all’oblio nessuno degli altri militari e i civili del luogo che hanno perso la vita in quei frangenti) — sarebbe meglio che i ministri si mostrassero all’altezza della circostanza o quantomeno fingessero di aver concordato tempi e modi dell’annuncio. E sarebbe altresì sconsigliabile, nei giorni successivi a tale dichiarazione d’intenti, ricondurre tale iniziativa ad occasione per così dire «di confronto tra le diverse componenti del governo». Dal momento che talvolta le modalità del ritiro possono rivelarsi più disonorevoli del ritiro stesso.

Corriere 30.1.19
Il ritiro Parla la ministra Trenta
«Afghanistan? Non ho obblighi verso Moavero»
di Fiorenza Sarzanini


La ministra della Difesa Elisabetta Trenta non cambia linea. «Ho agito secondo le mie prerogative, informando chi di dovere — dice — ci ritireremo». «Siamo lì da 17 anni — aggiunge — abbiamo avuto 54 morti, speso quasi 7 miliardi di euro, il nostro contributo è stato notevole ma ora si va verso un’intesa e ne prendiamo atto». Per la Nato la discussione è ancora in corso. «Ogni decisione — precisa Trenta — sarà presa di concerto con gli alleati e per quanto riguarda il ministro Moavero non ero certo obbligata ad avvisarlo».
Roma La linea non cambia «perché ho agito secondo le mie prerogative, informando chi di dovere». La ministra della Difesa Elisabetta Trenta conferma l’avvio della procedura e risponde così alle polemiche sull’annuncio del ritiro dei militari dall’Afghanistan.
Non era opportuno aspettare?
«No, perché è stato deciso di valutare l’avvio di una pianificazione per il ritiro, alla luce delle notizie che giungono da Oltreoceano. D’altronde sarebbe stato irresponsabile non farlo».
Quanto tempo ci vorrà?
«I tempi sono tecnici e competono al Comando interforze, ma sa cosa mi sorprende? Che persino una missione militare, in Italia, riesca ad essere trasformata in un tabù. Siamo lì da 17 anni, abbiamo avuto 54 morti, speso quasi 7 miliardi di euro, il nostro contributo è stato notevole ma ora c’è una evoluzione in corso, si va verso un’intesa, che mi auguro arriverà, e noi come Paese ne prendiamo atto».
Secondo la Nato la discussione è ancora in corso.
«Le dichiarazioni di Stoltenberg sono indicative. Il segretario generale ha risposto a domande sulla situazione generale, non parlava certo dell’Italia, e ciò dimostra che il dibattito sull’Afghanistan è aperto nell’ambito della comunità internazionale. A questo punto è giusto ed auspico che se ne discuta in Parlamento, lo trovo un sano esercizio di democrazia e di realismo».
Oltre alle scelte fatte dagli Stati Uniti, ci sono altri motivi che convincono l’Italia ad andare via?
«Ci sono priorità strategiche nazionali. Le faccio un esempio: altri partner Ue hanno cambiato le loro prospettive, come Spagna e Francia, quest’ultima si è addirittura ritirata dall’Afghanistan alla fine del 2014, ma mantiene una presenza importante in Africa. Non vedo perché l’Italia non ne possa discutere, considerando che oggi il nostro principale interesse si focalizza, come è normale che sia, proprio in Africa e nel Mediterraneo».
Non crede che ci sia il rischio di isolamento?
«È evidente che ogni decisione finale sarà presa di concerto con gli alleati, l’Italia è un Paese che onora i suoi impegni, specie in ambito Nato. In Iraq stiamo chiudendo “Presidium” a Mosul ma restiamo al fianco degli iracheni nella fase di formazione e addestramento».
Il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi dice di non essere stato informato.
«Se chiedo al Coi di valutare, e sottolineo valutare, l’avvio di una pianificazione per il ritiro non credo di dover informare il ministro Moavero, perché rientra nelle mie prerogative. Del resto parliamo di una pianificazione tecnica; un’attività che i militari svolgono continuamente per farsi trovare sempre pronti. Ho informato chi di dovere, tra cui il presidente del Consiglio e il Capo di Stato Maggiore della Difesa».
La Lega sarà accordo?
«Quanto accaduto nelle ultime settimane lo abbiamo visto tutti, c’è una nuova amministrazione Usa che ha mostrato di avere un altro approccio e che l’Italia, inevitabilmente, deve poter considerare. La mia decisione rappresenta un atto di responsabilità istituzionale, verso il Paese e verso i nostri militari. Non si può credere che di fronte alla rapidità di certi sviluppi l’Italia resti a guardare. Dobbiamo arrivare pronti a un cambio di passo e la pianificazione serve proprio a questo, a capire in che modi e tempi muoverci laddove in Afghanistan si giunga ad un accordo di pace tra le parti».
L’Italia è impegnata su diversi fronti all’estero. Qual è il futuro delle altre missioni?
«Sarà il Parlamento, nel rispetto della sua centralità,a dover decidere. Ciononostante da parte mia, a nome del governo, c’è chiaramente un indirizzo politico, che abbiamo già indicato nel precedente decreto missioni e che sarà evidente nel prossimo decreto. Mi riferisco ad esempio alla nuova missione Niger, che per noi è fondamentale perché rivolta al controllo dei flussi migratori verso l’Italia».

Corriere 30.1.19
Diplomazie
Dall’Iran all’Isis, la Cia smentisce Donald Trump
di Giuseppe Sarcina


WASHINGTON La Corea del Nord? «È improbabile che rinunci alle armi nucleari». L’Iran? «Non sta cercando di sviluppare la bomba atomica». L’Isis «non è sconfitto, controlla ancora migliaia di combattenti in Iraq e in Siria». I vertici dei servizi segreti contraddicono le convinzioni di Donald Trump sulle principali crisi internazionali.
Ieri, davanti alla Commissione Intelligence del Senato, Dan Coats, direttore della National intelligence, responsabile del coordinamento delle 17 organizzazioni dei servizi segreti, è stato netto, illustrando il rapporto sulle «minacce mondiali»: «In questo momento pensiamo che la Corea del Nord cercherà di mantenere il suo stock di armi di distruzione di massa ed è improbabile che rinuncerà completamente alle armi nucleari e alla sua capacità di produrle». Sul punto Gina Haspel, direttrice della Cia (nella foto), nominata dallo stesso Trump, ha aggiunto: «I nordcoreani sono impegnati a sviluppare un missile con testata nucleare a lungo raggio che sarebbe una minaccia diretta agli Usa».
Ogni mattina il presidente riceve il «briefing» dalla Cia e dalle altre agenzie. Ma, evidentemente, non lo tiene in considerazione. Trump si prepara a incontrare per la seconda volta Kim Jong-un, sostenendo che il regime di Pyongyang abbia fatto importanti progressi sulla denuclearizzazione della penisola coreana. Anche sull’Iran, prospettive capovolte: i servizi segreti, ha detto Coats, «non ritengono che Teheran stia intraprendendo le attività che noi consideriamo chiave per costruire un ordigno nucleare». L’amministrazione di Washington, invece, accusa il governo degli ayatollah di aver iniziato la corsa all’atomica.
Infine l’Isis. Per Trump è debellato, e i soldati Usa dislocati in Siria possono tornare a casa. Il rapporto dell’intelligence sostiene il contrario. Inoltre i servizi segnalano l’intensificarsi degli attacchi informatici provenienti da Russia e Cina.

il manifesto 30.1.19
Brexit, May torna a Bruxelles con un pugno di mosche
Regno unito. A Westminster è la giornata degli emendamenti. Bocciato il rinvio dell’articolo 50. Ma sul nodo del confine con l’Irlanda l’Unione europea non intende cedere
di Leonardo Clausi


LONDRA È stata la giornata degli emendamenti ieri a Westminster: sette per la precisione, scelti dallo speaker Bercow e volti a riformare in modi diversi il piano con cui Theresa May voleva gestire la British Exit dopo la catastrofica sconfitta parlamentare di quest’ultimo due settimane fa.
SONO STATI VOTATI ieri in serata, dopo un dibattito fiume molto acceso. Al momento di andare in stampa quello di Jeremy Corbyn, volto a mantenere il Paese nell’Unione doganale, veniva sconfitto per 327 voti contro 296. Battuto anche quello della deputata laburista filoeuropea e centrista Yvette Cooper, che puntava a posticipare la data limite del 29 marzo almeno fino alla fine dell’anno, in modo da escludere il paventato no deal che avrebbe ripercussioni ferali sull’economia e forse sull’ordine pubblico del Paese. Passa invece quello presentato da alcuni remainer conservatori e labour per escludere categoricamente lo stesso no deal. In attesa del voto sull’emendamento presentato dal presidente del 1922 Committee, l’organo conservatore che organizza l’elezione dei leader Tory Graham Brady, per eliminare del tutto il backstop e sostituirlo non si sa ancora con cosa, e al quale la premier aveva annunciato il sostegno del governo. Nessuna traccia di emendamenti riguardanti un secondo referendum per il quale non c’erano i numeri.
Theresa May sta tuttora negoziando con se stessa, il suo partito e il suo parlamento su come cambiare qualcosa che aveva già concordato con la controparte europea e che due settimane le era valsa la più umiliante sconfitta di un governo in carica dagli inizi del Novecento. Ha cercato di comporre la lacerazione dei conservatori aprendo ancora una volta agli euroscettici duri, di cui è ostaggio fin dal suo primo giorno a Downing Street. Che l’emendamento Brady passi o no, ora tornerà a Bruxelles, forse già questa settimana, chiedendo di riaprire il tavolo su aspetti dell’accordo già ampiamente discussi nell’arco di diciotto mesi, già sapendo che rischia di cavarne un pugno di mosche: Juncker, con cui aveva parlato al telefono prima del voto, glielo aveva ribadito.
L’acuminata spina nel fianco della premier resta il fantomatico backstop, il dispositivo di sicurezza che, facendo permanere a tempo indeterminato l’Irlanda del Nord all’interno del regime commerciale europeo in modo da evitare un confine fisico (con la potenziale riapertura delle ataviche ostilità terminate nel 1998) fra la repubblica d’Irlanda e l’Irlanda del Nord, aveva sollevato le ire dei sovranisti euroscettici del suo partito e degli unionisti nordirlandesi del Dup da cui dipende il suo governo di minoranza. Più che cambiarlo, i Tory riottosi non lo vogliono proprio. Ed è vieppiù difficile immaginare come Bruxelles – e soprattutto Dublino – possano transigere su una clausola tanto cruciale quando non hanno fatto altro che ripetere che dell’accordo non andava cambiata una virgola.
May resta dunque intrappolata nel suo peripatetico – e inconcludente – rimbalzare fra Londra e Bruxelles.
La logica in stato di ebbrezza alla quale ci ha finora abituato questa saga vuole che – per cavarsi fuori dal buco che si è alacremente scavata – la premier dovesse convincere i propri deputati a sostenere gli stessi emendamenti all’accordo che lei medesima non aveva accettato prima, in modo da dimostrare che Westminster ha raggiunto una coesione sufficiente da indurre l’Europa a cedere sul nodo del backstop. Un’apoteosi del paradosso, dopo giorni passati a cincischiare su un piano B inesistente, sperando che una delle controparti cedesse terreno man mano che il lugubre spettro del no deal il prossimo 29 marzo, si faceva più incombente. È questa la ragione per cui May non ha mai voluto cedere sull’esclusione di un no deal: le serviva come spauracchio per indurre Bruxelles ad allentare la stretta sul backstop.
E IL LABOUR? Accantonata momentaneamente la linea delle elezioni anticipate dopo la sconfitta della sua mozione di sfiducia nei confronti di May, Jeremy Corbyn aveva spostato il peso del partito dietro all’emendamento presentato da Cooper, in modo da evitare a tutti i costi una exit senza accordo. Mentre Westminster dava ancora una volta prova di non essere in grado di trovare un terreno comune, la folla divisa in fazioni pro e contro Brexit sventolava bandiere e urlava slogan. La netta sensazione percepita nel Paese è sempre più quella di un ridisporre affannoso delle sdraio mentre il Titanic si inabissa.

Corriere 30.7.19
La Brexit è un caos senza fine
Il Parlamento a May: «Rinegozia»
Nessun rinvio. Mandato alla premier, ma la Ue dice: non cambia nulla. Incubo no deal
di Luigi Ippolito

Londra La Brexit non si rinvia e lo spettro di un «no deal», una uscita catastrofica di Londra dalla Ue, si fa più vicino: perché Theresa May ha scelto di sfidare l’Europa e chiedere di rinegoziare l’accordo faticosamente raggiunto lo scorso novembre, mentre gli europei, Macron in testa, oppongono un secco no. E se a questo punto non si trova una via di uscita, il 29 marzo la Gran Bretagna casca dal precipizio.
È stata una giornata probabilmente decisiva, quella che è andata in scena ieri a Westminster. Che si è aperta con un colpo a sorpresa: la premier Theresa May ha annunciato la sua intenzione di riaprire il negoziato con l’Europa per modificare il cosiddetto «backstop», la clausola di salvaguardia per impedire un ritorno a un confine fisico fra le due Irlande.
È questo un punto particolarmente contestato dell’accordo raggiunto fra Londra e Bruxelles: perché prevede la permanenza della Gran Bretagna in un’orbita molto stretta con la Ue e dunque è avversato dai conservatori euroscettici, che ci vedono un tradimento della «vera» Brexit. È stata questa la pietra d’inciampo che ha condotto alla clamorosa bocciatura dell’accordo in Parlamento, lo scorso 15 gennaio.
La May ha spiegato di aver capito il messaggio e di essere pronta a chiedere all’Europa una modifica della clausola. Una mossa che ha ricompattato il partito conservatore alle sue spalle: infatti è stato approvato ieri sera un emendamento a sostegno dello sforzo della premier.
Ma la reazione europea è arrivata immediata: e prevedibile. L’ha espressa il presidente francese Emmanuel Macron, quando ha detto che l’accordo «non è rinegoziabile, perché è il migliore possibile». Gli europei non sono disposti a rivedere all’ultimo momento un testo che è il frutto di un anno e mezzo di difficili trattative e che contiene le migliori garanzie per preservare la pace in Irlanda.
Dunque si rischia di nuovo di trovarsi muro contro muro. E se non si raggiunge un compromesso, la Brexit avverrà in automatico senza nessun accordo: anche perché, abbastanza a sorpresa, il Parlamento ha nettamente respinto un emendamento laburista che mirava a rinviare la Brexit per evitare un no deal.
È vero che gli stessi deputati hanno poi approvato un altro emendamento che chiede di escludere il no deal: ma si tratta di un testo non vincolante per il governo, una mera intenzione che non si vede come possa essere messa in pratica.
Come ha detto sempre Macron, il no deal è una situazione «che nessuno vuole, ma per la quale ci dobbiamo tutti preparare».

La Stampa 30.1.19
“Partito pericoloso”
L’AfD spiata dai Servizi
di Walter Rauhe


Il dossier dei Servizi segreti tedeschi del Bundesverfassungsschutz sul partito di estrema destra Alternative für Deutschland (AfD) era top secret e destinato solo ad uso interno. Lunedì sera però il fascicolo è stato pubblicato integralmente sul sito online dell’organizzazione berlinese in difesa della libertà di stampa netzpolitik.org scatenando un piccolo putiferio negli ambienti politici della capitale. Innanzitutto per i suoi contenuti che smascherano l’anima estremista, revanscista ed ultra nazionalista di un partito che fa di tutto per darsi almeno all’esterno una facciata democratica e costituzionale. Altrettanto imbarazzanti sono però le circostanze - ancora tutte da appurare - che hanno reso possibile la pubblicazione di un dossier coperto dal segreto di stato e che svela le ampie operazioni di monitoraggio della destra populista e di un partito rappresentato pur sempre in parlamento da parte dell’Intelligence.
Le 436 pagine del dossier offrono una radiografia dettagliata e minuziosa sulle attività dell’Alternative für Deutschland, i discorsi dei sui esponenti di spicco e i contatti di alcune sue frange con gli ambienti dell’estremismo neonazista. Mentre il programma ufficiale del partito rispetterebbe i valori e i principi dell’ordinamento democratico e quelli della costituzione, le dichiarazioni e i discorsi di alcuni suoi esponenti evidenzierebbero secondo l’analisi dei servizi segreti chiare tendenze estremiste e anche sovversive. Nel suo dossier l’intelligence fa riferimento soprattutto alla corrente «Der Flügel» capeggiata dal leader regionale dell’AfD della Turingia Björn Höcke e alla federazione giovanile della «Junge Alternative». Queste diffonderebbero ideologie palesemente razziste, anti islamiche e anti semitiche, diffamerebbero le regole democratiche e parlamentari, negherebbero apertamente l’esistenza dei campi di sterminio e dell’Olocausto e sosterrebbero la supremazia della razza ariana. Nel loro dossier i servizi descrivono la trasformazione dell’AfD da un partito euroscettico e neoliberista in una formazione sempre più dominata da correnti della destra più estrema. Un partito «sospetto» e «potenzialmente pericoloso» che giustificherebbe un’osservazione più approfondita e capillare da parte dei servizi segreti interni. Misure annunciate proprio due settimane fa dall’intelligence e messe ora in atto dal ministro dell’Interno Horst Seehofer.

La Stampa 30.1.19
Israele
L’ex generale Gantz sfida Netanyahu alle elezioni
di Giordano Stabile


Un generale d’acciaio e un ex ministro della Difesa del Likud in rotta con Benjamin Netanyahu. È questo il ticket che si prepara a sfidare il premier, favorito alla vittoria nelle elezioni del 9 aprile e pronto a un quinto mandato. Il generale è l’ex capo delle Forze armate Benny Gantz, che ha fondato il partito Hosen L’Ysrael con lo slogan «Israele prima di tutto» e ieri ha lanciato la sua candidatura a premier in una grande convention e con un attacco frontale al premier: «Non potrà più governare se sarà incriminato». Gantz con il suo movimento «né di destra né di sinistra» punta ai voti dell’elettorato del Likud a disagio con la svolta conservatrice degli ultimi anni e inquieto per gli scandali che assediano il primo ministro. A Gantz si è unito ieri Moshe Yaalon, protagonista di una burrascosa uscita di scena nel 2016, per i dissensi sulle politiche nei Territori palestinesi.
Yaalon ha lasciato in quell’occasione anche il Likud e da allora si è parlato di una sua discesa in campo da battitore libero. Il 2 gennaio ha formato il partito Telem, ma con l’arrivo di Gantz il centro delle schieramento politico è diventato troppo affollato. I due hanno molto in comune, perché anche Yaalon è stato a capo delle Forze armate, dal 2002 al 2005, dopo essere stato comandante di una unità di paracadutisti. Yaalon ha però anche una lunga carriera politica alle spalle e può fornire a Gantz un’esperienza di primo livello. Sui temi civili sono entrambi su posizioni liberal, per esempio a favore dei matrimoni gay.
Il passato nel Likud
Sul tema della sicurezza, dove Netanyahu è quasi imbattibile, Gantz e Yaalon puntano sul loro passato da generali in prima linea sia sul fronte libanese che a Gaza. Ma a differenza del premier sono più propensi a un compromesso con i palestinesi, sulla linea di Yitzhak Rabin e degli accordi di Oslo, che lunedì hanno subito un’altra picconata da parte del governo israeliano con il mancato rinnovo della missione degli osservatori internazionali a Hebron. Gantz sarà il candidato premier, mentre Yaloon avrà un ministero di massimo peso e sarà vicepremier se il ticket riuscirà a vincere. Del pacchetto farà parte anche un altro fuoriuscito del Likud, l’ex portavoce di Netanyahu Yoaz Hendel.
Ieri Yaalon, in un discorso all’Institute for National Security Studies di Tel Aviv, ha ribadito di aver concordato con Gantz che i loro rispettivi partiti non entreranno in ogni caso «in un governo guidato da Netanyahu». Possibili alleati potrebbero essere invece il centrista Yair Lapid e l’ex ministro degli Esteri Tzipi Livni, che hanno già unito le loro forze. Si profila un battaglia fra tre blocchi, dove però, in base ai sondaggi, Netanyahu resta ancora favorito nonostante il rischio di una incriminazione da parte dei giudici.

Corriere 30.1.19
Benny Gantz, il generale che non parlava mai lancia il suo assalto all’impero di Netanyahu
Ex capo di Stato maggiore, si candida. «Ho ucciso 1364 terroristi»
I suoi strateghi: per sottrarre i voti alla destra si deve puntare sul passato di militare
di Davide Frattini


GERUSALEMME Raccontano che la madre, sopravvissuta al campo nazista di Bergen-Belsen, gli ripetesse di non voler nascondersi dentro i rifugi mentre cadevano i razzi lanciati da Gaza. E che incitasse il figlio generale «a continuare a combattere senza smettere di mandare cibo ai palestinesi della Striscia».
Benny Gantz è cresciuto in una comunità agricola a pochi chilometri dal corridoio di sabbia dove spadroneggiano i fondamentalisti di Hamas, un villaggio fondato dai genitori assieme ad altri immigrati romeni e ungheresi, chiamato Kfar Ahim in ricordo di due fratelli ammazzati nella prima, quella di Indipendenza, delle tante guerre israeliane. Come quasi tutti i giovani del moshav ha scelto la carriera militare, nei paracadutisti, fino a diventare capo di Stato Maggiore, con addosso la divisa ha passato 38 dei suoi 59 anni.
In politica si è mosso con la circospezione di chi è abituato alle imboscate — a tenderne o a subirne — e in queste settimane dalla nascita del suo partito Resilienza per Israele ha adottato la tattica di un altro capo delle forze armate, riuscito a diventare primo ministro. «Niente rafforza l’autorità quanto il silenzio», ripete sempre Ehud Barak infervorato da una massima di Charles de Gaulle.
Silenzio fino a ieri sera, a settanta giorni dalle elezioni del 9 aprile, quando Gantz ha dispiegato il suo blitz: un discorso di trenta minuti giusto all’ora dei telegiornali per annunciare di voler conquistare la poltrona di primo ministro, in sostanza di volerla togliere a Benjamin Netanyahu che la occupa ininterrottamente da dieci anni.
Il discorso
In vista delle elezioni politiche di aprile, Gantz ha parlato ieri a Tel Aviv per mezz’ora
Al centro della sala approntata in un magazzino del vecchio porto di Tel Aviv, accompagnato dal ritmo dance dello slogan «basta con destra e sinistra, solo Israele sopra a tutto», ha scandito: «Nessun leader israeliano è un monarca assoluto». In abito e cravatta blu già di governo, ha confermato le aspettative: «Creerò una coalizione determinata, responsabile, forte. Non guidata dalla paura». Guardando nella telecamera, si è rivolto alla minaccia più sventolata da Netanyahu: «Presidente Hassan Rouhani non permetterò agli iraniani di circondarci».
Ehud Barak è stato l’unico a sconfiggere Netanyahu — nel 1999 ed è un segno di buon auspicio per i sostenitori di Gantz — detiene però anche il record di permanenza in carica più breve nella Storia politica del Paese. Così gli analisti si chiedono se Benny rischi la stessa fine, assieme all’alleato Moshe Yaalon, un altro ex capo di Stato Maggiore: la popolarità di chi ha guidato le truppe in una nazione dove tutti hanno dovuto indossare la divisa per il servizio obbligatorio potrebbe non bastare a sostenere un partito creato dal nulla. I sondaggi dicono che Gantz possiede il potenziale per insediare Netanyahu (38 punti di gradimento contro i 41 del premier) ma la sua formazione resta per ora a 14 seggi pronosticati, ben oltre la metà di quelli attribuiti al Likud.
I suoi strateghi sanno che per sottrarre i voti alla destra devono puntare sull’immagine militarista: nel primo video della campagna l’ex generale si è vantato dei «1.364 terroristi uccisi» durante il conflitto contro Hamas nell’estate del 2014. L’esaltazione guerresca è stata criticata da sinistra e solo nei giorni scorsi è emersa dagli archivi dell’esercito una foto fino a oggi censurata (forse per ragioni di sicurezza) che ammorbidisce la durezza dell’ufficiale di carriera.
Nell’inverno di cinque anni fa Gantz visita le truppe in Cisgiordania accompagnato dalle guardie del corpo. Ha appena nevicato e il capo di Stato Maggiore si ferma a chiacchierare con una famiglia palestinese. La scorta resta in allerta, teme l’agguato. L’unico assalto alla fine è a palle di neve, con Gantz che risponde ai colpi: per qualche minuto il generale e i civili cresciuti temendolo tornano bambini.

il manifesto 30.1.19
Gli ultimi tornano ultimi
Brasile nero. Jair Bolsonaro si presenta al paese: liste di proscrizione nelle università, una riforma agraria contro i senza terra, riduzione del salario minimo. Ma la sinistra si riorganizza. Raccolte già 500mila firme da tutto il mondo per la candidatura di Lula al Noberl per la pace
di Francesco Bilotta


BRASILIA Tutto viene messo in discussione nel nuovo ciclo che si è aperto in Brasile con l’avvento di Bolsonaro: diritti umani, conquiste civili, tutela dell’ambiente. Siamo di fronte a un ritorno al passato. E la domanda che risuona negli ambienti democratici è sempre la stessa: «Come è potuto accadere?».
COME È STATO POSSIBILE che un fanatico di estrema destra e un manipolo di neofascisti abbiano messo le mani sul Brasile? Perché fino a 6 mesi fa Bolsonaro era considerato un personaggio folcloristico, nonostante il suo linguaggio violento, le posizioni razziste e omofobe, l’esaltazione della dittatura militare. Si cerca di mettere in ordine il susseguirsi degli eventi, percorrendo a ritroso le tappe di un cammino doloroso: la crisi economica e il forte aumento della disoccupazione, la destituzione di Dilma, l’insediamento del governo Temer, l’arresto di Lula.
E poi ancora: le sistematiche campagne di disinformazione attraverso internet e le reti sociali, le prese di posizione dei militari, il ruolo svolto dalla chiesa evangelica, l’attentato all’ex capitano e il conseguente «effetto martire». Un insieme di elementi che hanno favorito il «sonno della ragione» che ha generato Bolsonaro.
Nella sterminata Spianata dei Ministeri riecheggiano ancora le grida di entusiasmo dei sostenitori di Bolsonaro nel giorno dell’insediamento. Ma il popolo brasiliano non era in questa piazza. Il cuore e la mente di milioni di persone erano a Curitiba, dove Lula è detenuto. E appariva come un’ingiustizia incommensurabile la tracotante passerella del nuovo presidente.
Degli amici brasiliani ci dicono che alla festa ha partecipato meno di un decimo delle 500mila persone sbandierate dal clan Bolsonaro e ricordano, con commozione, che la Spianata dei Ministeri ha accolto mezzo milione di persone solo in occasione del concerto che celebrava la fine della dittatura militare, con Chico Buarque, Gilberto Gil, Caetano Veloso. Anche i loquaci tassisti brasiliani sono un termometro della nuova situazione. In altri tempi non avrebbero perso l’occasione per celebrare la pizza e il calcio italiano; ora mostrano tutto il loro entusiasmo per il nuovo presidente che «metterà le cose a posto».
NELLE UNIVERSITÀ si respira uno strano clima. Ci si muove con circospezione. Le violente campagne contro la «scuola marxista» e gli inviti a denunciare gli insegnanti hanno lasciato il segno. Alcuni dei numerosi docenti che avevano firmato nelle settimane scorse gli appelli contro Bolsonaro sono stati oggetto di attacchi e intimidazioni sui social. Se non siamo alle liste di proscrizione, poco ci manca.
Durante la campagna elettorale il governo Temer aveva varato decreti ingiuntivi contro venti università, con l’intervento della polizia, per l’eliminazione di scritte, striscioni e manifesti contro Bolsonaro, con la motivazione che si violava la legge elettorale e si influenzava il voto. Tuttavia, il movimento di protesta degli studenti non si è arrestato, scritte e manifesti sono ricomparsi numerosi e sono molte le iniziative per contrastare il clima di restaurazione culturale che si vuole imporre nel paese.
Temer nel suo ultimo discorso ha affermato che lasciava la presidenza con «alma leve e tranquila» e Bolsonaro, a sua volta, dichiarava di prendere in mano il paese con lo stesso spirito, rilanciando il suo slogan: «Il Brasile sopra tutto, Dio al di sopra di tutti». In realtà, Temer lascia in eredità al suo successore i drastici tagli nei programmi sociali come la bolsa familia, nel sistema di salute pubblica, nell’educazione.
SIN DAI PRIMI ATTI il nuovo governo ha manifestato il suo carattere anti-popolare. Il decreto con cui ha esordito ha prodotto una diminuzione del salario minimo, portato a 998 reais, 8 in meno rispetto a quanto stabilito dalla legge di bilancio 2019. In Brasile 20 milioni di lavoratori vivono con il salario minimo, utilizzato come riferimento per i benefici previdenziali e di sicurezza sociale.
Si è trattato di un primo passo, in attesa di varare quella riforma della Previdenza che Temer non è riuscito ad attuare e che produrrà ulteriore povertà e diseguaglianze.
Jair Bolsonaro il giorno dell’investitura (Foto: Afp)
Un altro decreto ha preso di mira il mondo rurale. L’Istituto nazionale di riforma agraria (Incra) ha ricevuto una direttiva che impone di sospendere tutte le attività di acquisizione, espropriazione e assegnazione delle terre. L’Istituto, passato sotto il ministero dell’agricoltura guidato da Tereza Cristina, leader della bancada ruralista, viene subito svuotato della sua funzione.
L’agricoltura familiare non interessa al nuovo governo e l’interruzione dei progetti di riforma va a colpire i 23 milioni di lavoratori rurali, agricoltori familiari e senza terra. L’intento è quello di interrompere tutti i progetti legati a quella riforma agraria che in Brasile viene invocata e attesa da decenni e che neanche i governi Lula e Dilma hanno avuto la forza di attuare fino in fondo.
LA BORSA BRASILIANA, intanto, festeggia e ha toccato nel fine settimana il punto più alto degli indici storici, rassicurata dalle politiche ultraliberiste e dai progetti di privatizzazione annunciati dal ministro dell’economia Paulo Guedes.
Ma ci si interroga sullo stato di salute della democrazia brasiliana, di fronte a un governo che ha sette ministeri su 22 occupati da figure provenienti dai ranghi militari, oltre al presidente e al suo vice. Movimenti sociali, organizzazioni ambientaliste, associazioni dei diritti umani, comunità indigene si stanno organizzando per fronteggiare l’onda che sta per abbattersi sul paese. Appare sempre più chiaro che è stata condotta un’operazione politico-giudiziaria che ha cambiato la storia del Brasile.
Bolsonaro si trova a essere presidente perché a Lula è stato impedito di partecipare alle elezioni e il giudice Moro, che ha costruito i capi d’accusa, ora guida il ministero della giustizia. Milioni di brasiliani si chiedono quando, nel paese, sarà la democrazia a essere al di sopra di tutto.
Il 10 aprile, dopo un anno di detenzione, ci sarà il pronunciamento del Supremo tribunale federale sulla libertà dell’ex presidente e tutte le forze della sinistra brasiliana stanno organizzando iniziative di mobilitazione. Ma cresce e prende sempre più forza anche il movimento per la candidatura di Lula al Nobel per la pace. Il primo a lanciare la proposta era stato, nei mesi scorsi, Adolfo Perez Esquivel, pacifista argentino insignito del premio nel 1980 e per anni presidente della Lega internazionale per i diritti dei popoli.
DA TUTTO IL MONDO è arrivato un sostegno alla candidatura che verrà formalizzata a fine gennaio. Sono già 500mila le adesioni perché venga assegnato a Lula un riconoscimento per le sue politiche sociali che hanno consentito a 30 milioni di brasiliani di uscire da una condizione di estrema povertà.
Il suo governo dal 2003 al 2010 ha svolto un’azione importante per combattere fame e diseguaglianze con i programmi sociali Fame zero e Bolsa familia, un esempio da seguire per gli altri paesi del Sud del mondo. Partendo dall’esperienza brasiliana, nel 2004 era stata lanciata la campagna «fame zero internazionale», sostenuta dal segretario generale dell’Onu e decine di capi di Stato. La lotta alla fame in Brasile e nel mondo e la promozione della pace sono un lascito di Lula che non può essere cancellato.

Repubblica 30.1.19
Il Paese aperto
Modello Canada, frontiera dei diritti
La sfida a Cina e Arabia il piano per i migranti: Trudeau è l’anti Trump Ma è un esempio figlio di una cultura condivisa
di Gabriella Colarusso


Roma È l’anti-America di Donald Trump, il Paese che ha deciso di investire più di 700 milioni di dollari in un grande piano per accogliere un milione di migranti entro il 2021, mentre il suo vicino e storico alleato chiede al Congresso 5 miliardi per costruire un muro al confine con il sud, frontiera messicana.
È il Canada di Justin Trudeau che potrebbe accogliere ora Asia Bibi, come qualche settimana fa ha fatto con Rahaf Mohammed — la 18enne saudita fuggita dalla sua famiglia e dalle rigide regole del Regno che impongono alle donne la “ protezione” di un guardiano — o come un anno fa fece con più di 30 omosessuali vittime di persecuzione in Cecenia.
Justin Trudeau ne ha fatto la sua “politica dell’identità”: il Canada è un Paese che accoglie e protegge. « Il commercio e i diritti umani devono andare mano nella mano», disse lo scorso novembre incontrando una delegazione di alti funzionari cinesi. «Ho parlato con loro anche della repressione degli Uiguri » . Erano passati pochi mesi da quando un appello via Twitter della ministra degli Esteri, Chrystia Freeland, per chiedere la liberazione della nota attivista saudita Samar Badawi, aveva aperto una crisi diplomatica con Riad: ritiro dell’ambasciatore saudita in Canada ed espulsione dall’Arabia Saudita del suo omologo canadese. « Non chiederemo scusa » , fu la risposta di Trudeau. Al G20 di Buenos Aires, a dicembre, è tornato a sfidare il principe Mohammed Bin Salman: «Servono risposte migliori sull’omicidio Khashoggi», ha detto impegnandosi a rivedere le forniture di armi canadesi ai sauditi.
Ma è il modello Trudeau o il modello Canada? «Questo governo ha un approccio molto aperto ai temi dell’immigrazione, del rispetto dei diritti umani, ha accolto più 30mila rifugiati siriani e dato protezione a centinaia di persone, come alle persone Lgbt cecene. Si sta differenziando radicalmente dall’amministrazione Trump. Il messaggio è chiaro: «La diversità è un punto di forza e non di debolezza della nostra società», dice Farida Deif, direttrice di Human Rights Watch Canada e, prima, responsabile dell’Alto commissariato delle Nazione Unite per i rifugiati. Nel 2018 il Canada ha superato per la prima volta gli Stati Uniti per numero di rifugiati reinsediati in accordo con le Nazioni Unite, il 30% di tutti i reinsediamenti.
Freedom House, che ogni anno testa lo stato della democrazia nel mondo, anche nel 2019 posiziona il Paese in cima alla classifica dei più liberi e rispettosi dei diritti umani, quarto dopo le avanguardie del nord Europa: Finlandia, Norvegia, Svezia. Il Charter of Rights and Freedom del 1982 è considerato uno dei testi più avanzati al mondo per la difesa dei diritti civili, umani, politici, per la libertà di espressione o religiosa: è una specie di “ testo sacro” per i canadesi, fu approvato durante il governo del padre di Trudeau, l’ex primo ministro Pierre Trudeau, che volle fosse inserito nella Costituzione. Ma sarebbe un errore spiegare il Canada dei diritti come un’acquisizione solo liberale. Dice Deif: « È una cultura che fa parte della società e della politica canadesi. I conservatori hanno governato il Canada per dieci anni prima di Trudeau, e le cose non sono cambiate » . Le zone d’ombra non mancano, sui diritti degli indigeni, per esempio, le organizzazioni internazionali chiedono un maggiore impegno. Ma la diga canadese posta a difesa della società aperta è robusta. « Il tema dell’immigrazione sarà centrale nella prossima campagna elettorale, è possibile che l’opposizione lo userà — dice Deif — ma qui non c’è un partito fortemente xenofobo come accade negli Stati Uniti o in Europa».

Corriere 30.1.19
Lo Zen e Scampia siamo noi
La tragica normalità italiana negli inferi metropolitani visti da Goffredo Buccini
Esce domani per Solferino «Ghetti», analisi di un Paese pervaso da paura e rancore. Verso lo Stato, verso i migranti
Il riscatto non può che partire da queste periferie
di Aldo Cazzullo


«Comunisti di m., tornatevene ai Parioli».
Goffredo Buccini non poteva scegliere una frase più significativa come esergo per il suo libro (accanto a una citazione di Carlo Levi e a una di Paul Taggart). Il quartiere a lungo considerato il simbolo della destra romana oggi vota quella sinistra a cui le periferie hanno voltato le spalle. È il momento giusto per mettersi in viaggio lontano dalle zone altoborghesi e dai centri storici, verso quelli che l’autore chiama nel titolo Ghetti.
È una discesa agli inferi metropolitani, questa che Solferino manda domani in libreria. Per seguirla bisogna prima sapere qualcosa in più sull’autore. Goffredo Buccini è entrato nella storia del giornalismo quand’era poco più che ragazzo, raccontando la stagione di Mani Pulite con notizie di prima mano, compreso l’avviso di garanzia a Berlusconi (che non era una manovra contro l’allora presidente del Consiglio; era, appunto, una notizia. Compito dei giornalisti è dare notizie possibilmente prima degli altri. Questo fece Buccini). Poi, dopo gli anni da corrispondente dagli Stati Uniti, ha iniziato un lungo percorso da reporter a Roma, nel Mezzogiorno d’Italia, e appunto nelle periferie. Un viaggio che ha incrociato sia un’antica curiosità intellettuale dell’autore per la destra e i populismi, sia una fase rivoluzionaria della storia politica del nostro Paese. Da qui l’interesse del libro.
Buccini è anche un romanziere. Ghetti non è però un romanzo; è un racconto di cose e personaggi veri. La prima è Pamela, «la ragazza col trolley», vittima di spacciatori immigrati a Macerata. Il viaggio prosegue a Tor Sapienza, borgata romana dove «si mena e basta». Nel campo rom sulla Prenestina. Nel racket delle case occupate. Nel Cie — Centro di identificazione ed espulsione — di Ponte Galeria.
Altri volti: l’ultima commerciante italiana di Via Pré, nel centro di Genova caro a De André, ormai in mano agli sfruttatori africani. I ragazzi delle bande di Scampia. I braccianti neri nella terra che fu di Peppino Di Vittorio. La nonnina che vuole bruciare vivi i vicini di casa. Yasmina che da Dacca, dove la famiglia l’ha riportata, scrive lettere alla maestra per chiederle aiuto: vorrebbe tornare in Italia per riprendere a studiare con lei.
Il riscatto non può partire che da queste periferie. Ricostruire case, servizi, spirito di comunità, di esistenza pacifica
C’è un capitolo che colpirà particolarmente il lettore. È ambientato in uno dei luoghi più famosi e nello stesso tempo meno conosciuti d’Italia, lo Zen di Palermo. Quartiere simbolo dell’utopia anni 70 — costruire luoghi dove la comunità potesse convivere pacificamente — divenuti incubo quotidiano. Come Scampia. O come il Corviale, dov’è ambientato un altro brano del libro. Oppure come la Zona Espansione Nord del capoluogo siciliano. «Un mondo a parte — scrive Buccini —, un “ricettacolo” urbano devoluto all’abusivismo sin dalla nascita, mal pensato e peggio costruito, dove Cosa Nostra o chi la sostituisce in loco fa da Istituto parallelo delle case popolari, assegnando alloggi e riscuotendo bollette di luce e gas consumati con allacci ovviamente abusivi». Ma la lezione che si deduce leggendo il capitolo è che lo Zen non rappresenta un altrove, bensì una situazione di tragica normalità. Non una «terra incognita» sulle cui mappe si possa scrivere «hic sunt leones», ma lo specchio di rapporti di forza e modi di pensare che si ritrovano in altri quartieri di Palermo.
È questa la vera peculiarità dell’Italia. Perché alla fine del viaggio si può concludere che la rivolta contro le élite — segno del nostro tempo — in Italia è un po’ più complicata dal fatto che le élite non ci sono; o comunque anche «i salvati», coloro che soffrono meno la crisi, condividono con «i sommersi» la stessa diffidenza verso lo Stato, verso le forze dell’ordine, verso la pubblica amministrazione, verso la politica, verso i partiti, verso la democrazia rappresentativa.
Su questa debolezza della comunità nazionale, su questo vizio antico della vita pubblica si è inserita la questione migratoria. Troppo in fretta per non suscitare una reazione di rigetto. Buccini non concede nulla al vento che tira in questi mesi sull’Italia. «Il populismo riempie un cuore vuoto» è la citazione di Taggart di cui si parlava all’inizio. Il populismo non è certo la terapia; ma non va esorcizzato. Bisogna capirne le cause e se possibile rimuoverle. La paura non è il più nobile dei sentimenti; ma negarla o demonizzarla non serve a nulla. L’impoverimento e la distruzione del lavoro fanno il resto. Come nell’ex villaggio olimpico di Torino, simbolo dei Giochi del 2006 e della rinascita sabauda, ora occupato da mille immigrati quasi tutti irregolari, segno di una «città invecchiata, che si va spopolando, dove la disoccupazione giovanile sta sopra la media nazionale, e gli immigrati meridionali guardano con paura e rancore questa seconda ondata di immigrazione».
Il riscatto dell’Italia — ci dice il libro di Buccini — non può che partire da queste periferie. Ricostruire case, servizi, spirito di comunità, possibilità di convivenza pacifica. «Delinquere dev’essere una scelta», ovviamente da reprimere, «e non una necessità», come dice con amara ironia una donna dello Zen.

Corriere 30.1.19
L’estratto
Una guerra civile a bassa intensità
I fatti di Macerata hanno illuminato la frattura profonda nella convivenza
di Goffredo Buccini


I dimenticati sono diventati di moda. In gran parte dell’Occidente, dagli Stati Uniti di Trump alla Gran Bretagna della Brexit. Da noi, dopo decenni di oblio e solitudine, zero investimenti e la sciagurata tendenza di tutti i governanti a scaricare nei loro quartieri gli scarti delle città, gli italiani disagiati ed esclusi dalle Ztl della borghesia illuminata stanno superando l’irrilevanza cui sembravano condannati in eterno: grazie, se si può dire, alla loro rabbia, al rancore compatto che li rende massa elettorale appetibile per quanto volubile nelle opzioni.
Lo scontro sociale, culturale e a tratti etnico in atto da anni nelle nostre strade e nelle nostre piazze, pur iscrivendosi dentro un cortocircuito globale, ha però peculiarità e responsabilità che questo libro si propone di identificare. Si combatte una guerra civile a bassa intensità in vaste aree del territorio nazionale sulle quali lo Stato sembra non avere più alcun controllo: ghetti urbani dove tutto può succedere.
Gli eredi del popolo dei borghetti e delle baracche del dopoguerra non hanno fatto in tempo a salire due o tre piani dell’ascensore sociale per ripiombare in una disperazione più profonda di quella dei loro nonni, stavolta con la scomoda compagnia di nuovi ultimi venuti da molto lontano, con altri costumi e spesso un’altra religione. In queste trincee metropolitane, che passano attraverso casermoni da cinquemila residenti o vicoli dei centri storici ridotti a letamaio di siringhe e immondizia, le criminalità organizzate autoctone hanno stretto patti con le nuove mafie straniere. Ma gli altri, i più, spaventati e impoveriti, hanno identificato negli immigrati semplicemente il nemico con cui scontrarsi: per una casa, un lavoro, un posto a sedere sul bus. Chi ne ha cavalcato il malessere non se n’era mai occupato, prima: l’occasione, imperdibile per i voti che porta, è un’ennesima integrazione per separazione, «noi» uniti contro di «loro», come sempre nella storia.
Non siamo razzisti. «Italiani brava gente» era un mito furbastro e consolatorio: in realtà non siamo peggiori (né migliori) di qualsiasi altra comunità sottoposta a forti sollecitazioni negative. Ma i fatti di Macerata di fine gennaio e inizio febbraio 2018 (l’omicidio della giovane romana Pamela Mastropietro e il raid di «rappresaglia» del razzista Luca Traini) hanno illuminato i contorni di una frattura profonda e troppo a lungo ignorata nel nostro modello di convivenza. Nove mesi dopo, un orribile delitto quasi in fotocopia (vittima la sedicenne Desirée Mariottini, drogata, violentata e uccisa in un palazzo del quartiere romano San Lorenzo a lungo abbandonato nelle mani di spacciatori africani) ci ha ricordato che nulla è cambiato nel frattempo.
Noi invece, sì, siamo cambiati: molto.

Corriere 30.1.19
Battaglie
L’anno che affossò Hitler: i nazisti nella tenaglia del 1943
Lo storico americano Robert M. Citino ricostruisce una fase determinante della Seconda guerra mondiale (Libreria Editrice Goriziana)
di Paolo Rastelli


Il 1943 fu cruciale per i tedeschi. Fu l’anno in cui la Wehrmacht, l‘esercito del Terzo Reich, reduce dai disastri di Stalingrado ed El Alamein di fine 1942, perse ogni prospettiva ragionevole di vittoria e si trovò a combattere una guerra perduta. Ed è proprio questo il titolo originale (The Wehrmacht Retreats. Fighting a Lost War, 1943) di un libro dello studioso americano Robert M. Citino, arrivato in Italia con il titolo 1943. Declino e caduta della Wehrmacht (Libreria Editrice Goriziana). L’autore, specializzato nella storia militare tedesca, parte dalla considerazione che fin dal Settecento la Prussia, uno Stato piccolo senza frontiere naturali significative, aveva dovuto elaborare una dottrina bellica che prevedeva guerre brevi e accanite, in cui l’inferiorità numerica era data per scontata e doveva essere bilanciata dall’audacia, dalla volontà di vittoria e dalla capacità di manovra.
Questa vocazione, tradita tra il 1914 e il 1918, trovò una nuova vitalità nella «guerra lampo» che all’inizio del secondo conflitto mondiale portò l’esercito tedesco dall’Atlantico alle porte di Mosca. Una dottrina operativa che, impiegata in chiave difensiva, dopo Stalingrado consentì a Erich von Manstein di bloccare le punte avanzate sovietiche e di stabilizzare nel 1943 il fronte orientale. Ma poi audacia e perizia non bastarono più.
Citino esamina tutte le battaglie seguenti, a cominciare dall’attacco di Kursk, in cui i tedeschi ammassarono il meglio delle loro forze corazzate senza però riuscire a sfondare. Subito dopo i sovietici passarono al contrattacco, respingendo i nemici in Ucraina. A occidente la campagna di Tunisia finì con un altro disastro, che spazzò via gli italo-tedeschi dall’Africa. L’invasione della Sicilia costrinse Hitler a ritirare dalla Russia un nucleo di truppe scelte che, sufficienti a disarmare l’esercito italiano dopo l’8 settembre, non impedirono lo sbarco alleato a Salerno e l’avvio della campagna d’Italia. Intanto sul fronte orientale l’assenza di quelle stesse truppe scelte consentì ai sovietici di superare il fiume Dnepr.
Le due guerre, a est e ovest, erano diventate una sola e la Germania ormai era semplicemente troppo debole per combatterla.

Repubblica 30.1.19
L’antico Egitto senza più tanti misteri
La prima uscita della serie è dedicata a una delle culture più affascinanti Un appassionante universo da scoprire tra storia, segreti, arte e vita quotidiana
di Luigi Gaetani


Con "Repubblica" ogni mese i volumi che raccontano "Le Grandi Civiltà" del mondo con un ricco apparato di illustrazioni Si comincia facendo un salto indietro nel tempo nella valle del Nilo
Chissà cosa deve essere passato per la testa dell’egittologo britannico Howard Carter mentre, nel novembre del 1922, percorreva i primi gradini d’ingresso al sepolcro di uno sconosciuto — fino ad allora — faraone della diciottesima dinastia, Tutankhamon. La tomba del re fanciullo, probabilmente morto a diciotto o diciannove anni, riaffiorata dalla Valle dei re praticamente intatta, avrebbe rivelato uno dei più ricchi tesori archeologici di tutti i tempi. La storia di quella scoperta clamorosa, che occupò per anni le cronache dei giornali di tutto il mondo, provocò un’ennesima ventata di "egittomania" che si propagò in tutto l’Occidente. Il magnifico trono del sovrano, il suo carro da parata, i tre sarcofagi che proteggevano la mummia e la celebre maschera funeraria d’oro e pietre preziose, sono solo alcuni tra i migliaia di reperti ritrovati, le cui forme influenzarono profondamente l’estetica Art Déco. Prova ne sono le tante architetture, i gioielli e i lussuosi mobili e oggetti in stile egyptian revival prodotti negli anni Venti e Trenta.
Quella della scoperta della tomba di Tutankhamon è solo l’ultima tappa della lunghissima storia di fascinazione che la civiltà dell’antico Egitto ha esercitato sugli europei. Non ne furono esenti i romani — basti pensare ai tanti obelischi che ancora oggi adornano le piazze della capitale o alla piramide che il ricco Caio Cestio si fece costruire sull’Ostiense — e nemmeno i filosofi e gli artisti rinascimentali, il cui interesse fu risvegliato quando nel 1505 Aldo Manuzio diede alle stampe, per la prima volta, il testo sulla scrittura geroglifica di Orapollo. La napoleonica campagna d’Egitto, nel 1798-99, inaugurò l’autentica passione documentaria per le vestigia archeologiche dei faraoni, stimolata dalla pubblicazione della Description de l’Égypte che raccoglieva osservazioni e disegni degli studiosi al seguito dell’esercito francese. Un interesse che dall’Ottocento è rimasto inalterato fino a oggi.
Proprio per questo, non poteva non partire dalle rive del Nilo la nuova collana di dodici volumi che Repubblica e National
Geographic dedicano alle grandi civiltà della storia, dall’India all’antica Roma, dai Maya all’impero Khmer. Il primo, intitolato, appunto, Egitto, è in edicola da oggi ( 12,90 euro più il costo del giornale). Oltre duecento pagine in grande formato per ripercorrere l’evoluzione millenaria della società, della cultura, dell’arte e della vita materiale di un popolo straordinario, attraverso un ricchissimo apparato iconografico e testi chiari ed esaurienti.
Non ci sono solo le famosissime vestigia dei grandi sovrani dell’Antico e del Nuovo regno.
Il libro parte dalle origini della più longeva civiltà della storia, ai tempi in cui, lungo la valle del Nilo, si stabilirono le prime comunità preistoriche. Dalle culture neolitiche nel quinto millennio avanti Cristo si arriva al 3000, quando i sovrani di Abido riuscirono per la prima volta a unificare il Paese. Dopo le prime dinastie, è con i sovrani della quarta — Cheope, Chefren e Micerino — che vengono eretti gli splendidi monumenti per i quali gli egizi sono universalmente conosciuti: le piramidi di Giza e la Sfinge, attorno alle quali sorsero le necropoli della famiglia reale e dei funzionari di corte. Parallelamente ai cambiamenti politici e sociali, il volume segue — con fotografie, illustrazioni e spiegazioni dettagliate che costituiscono il vero punto forte della collana — l’evoluzione dell’arte e dell’architettura, forse il maggiore lascito della cultura egizia. Delle piramidi è ricostruita l’evoluzione — a partire dalla più antica màstaba, passando per le strutture a gradoni — e sono riportate le ipotesi sulle tecniche costruttive, che ancora oggi affascinano studiosi e appassionati. Per quanto riguarda sculture, oggetti e monili, il libro ne ripercorre la trasformazione nel corso dei secoli, dai più antichi vasellami, sculture e incisioni, alle già elaboratissime e raffinate suppellettili della sepoltura della regina Hetepheres, madre di Cheope, ritrovate nel 1925 e oggi custodite al museo del Cairo.
Il racconto continua con la prima fase di frammentazione politica, con il periodo chiamato Medio regno e con l’invasione dei dominatori " stranieri" Hyksos. L’affermarsi della diciottesima dinastia segnò l’inizio del Nuovo regno, che vide leggendarie figure di faraoni come Akhenaton, Nefertiti, Tutankhamon e Ramesse II, il più grande edificatore della storia egizia, che regnò per più di settant’anni. Tebe divenne il centro politico e religioso: è il tempo di nuovi incredibili monumenti, come i templi di Karnak e Luxor e le tombe della Valle dei re. Il volume tocca, infine, anche l’ultimo periodo della storia dell’antico Egitto, quando, dopo un altro lungo periodo di divisioni e il dominio persiano, si aprì la strada alla conquista di Alessandro Magno, nel 332 avanti Cristo.
Con i sovrani della dinastia tolemaica e con la successiva dominazione di Roma, arte e tradizioni locali iniziarono a fondersi con elementi della cultura ellenistica.
L’imporsi del cristianesimo, nel quarto secolo, portò alla chiusura degli ultimi santuari degli antichi dei, ponendo fine a una civiltà durata quasi quattromila anni.
Dopo quello sull’Egitto seguiranno le uscite — una volta al mese, fino a dicembre — dei volumi dedicati alle altre civiltà, a partire, il 27 febbraio, da quello su una cultura altrettanto millenaria e — almeno per noi — in parte misteriosa: quella cinese.


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