mercoledì 9 gennaio 2019

La Stampa 9.1.19
“Riso e acqua razionata, come in cella”
Diario dalla nave che nessuno vuole
di Federico Scoppa


Prima dell’alba, la Sea Watch 3, la nave di soccorso battente bandiera olandese naviga lentamente, quasi a sfidare il passare del tempo, al sud delle coste di Malta. È qui per ripararsi dal vento di maestrale che da qualche giorno agita le acque del centro del Mediterraneo. Prima rimaneva più al largo, le autorità maltesi le impedivano di avvicinarsi. Il 22 dicembre ormai 19 giorni fa, questo vascello blu di cinquanta metri, ripescava in mare 32 persone. Li hanno trovati provenienti dalla Libia su di un gommone semi-affondato, la chiglia spezzata in due dalle onde, l’acqua salata iniziava a mescolarsi con la benzina bruciando la pelle di chi stava seduto sul fondo.
Questo è il carico che spaventa Malta e con lei tutta Europa. A tal punto da obbligare i membri dell’equipaggio, ventidue volontari e i loro ospiti alla distanza di sicurezza di tre miglia nautiche.
Uno spiraglio di luce entra dalla coperta di lana usata come porta nella stanza, l’aria è acre, si sente il calore di corpi ammassati e la mancanza di ossigeno. In 32, tra cui donne e bambini, riposano nonostante le onde. Siamo sul ponte della nave, entra un volontario. Le pesanti coperte di lana che avvolgono i corpi dei migranti cominciano a muoversi e la nave riprende vita. Lentamente, non si ha voglia di svegliarsi né affrontare un altro giorno uguale agli altri.
I volontari iniziano a preparare il tè, Fannie una giovane donna della Costa d’Avorio sfida il freddo del mattino, oggi anomalo anche a queste latitudini e si avvia verso le latrine, dei bagni chimici installati sul ponte dal quale esce un odore nauseabondo. Tornerà a breve, sua figlia di solo un anno si è svegliata ed il suo pianto interrompe il continuo borbottare del motore. Sono tre i bambini a bordo, altri tre i minori partiti soli.
Spazzolino e asciugamano, Dava e Ali si avviano verso uno dei rubinetti installati per loro a poppa della nave. Oggi potranno lavarsi solo i denti. Il desalinizzatore di bordo è in avaria e l’acqua dolce razionata, per loro e per i membri dell’equipaggio. Kim lo dice ogni volta che può, è il capo missione, inglese, un giovane dai modi gentili, rispettato da tutti come il capo villaggio africano.
Kim è preoccupato, le previsioni danno solo due giorni di tregua e poi un’altra burrasca colpirà la zona. Come ogni mattina aggiorna gli ospiti delle novità del mondo esterno. Un ruolo difficile, la loro situazione non varia da giorni.
«È come stare in prigione e in prigione si muore», cosi risponde Mohamed, lui è libico. Di tutti è quello che psicologicamente soffre di più, qualche giorno prima si è buttato in acqua, in maglietta e mutande. Voleva arrivare a Malta a nuoto. Preferiva tentare, anche rischiando la morte, anziché marcire qui.
Prigione, questo è l’unico paragone con il quale tutti i migranti a bordo riescono a descrivere approssimativamente la loro condizione.
I francofoni, congolesi e ivoriani, amano parlare. I loro discorsi iniziano sempre con un francese perfetto, ma a breve perdono la calma, la cadenza africana si fa forte e le espressioni anche: «Non siamo pesci e neanche pescatori, perché non ci vogliono? Abbiamo sangue nel corpo». Basta, non vogliono più parlare del loro passato vogliono parlare del futuro, ma di questo non sanno niente.
In questi giorni si aspettano i risultati delle elezioni in Congo, e loro chiedono notizie. Bob è scappato dal regime del presidente Kabila, porta ancora segni delle pallottole che la guardia presidenziale gli ha sparato nei piedi. Manifestava, voleva difendere la costituzione dice.
Arriva il pranzo, oggi è un po’ diverso. I volontari sono riusciti ad inventare una salsa piccantissima da aggiungere al riso e fagioli. Riso e fagioli è quello che si mangia a bordo praticamente ogni giorno. Dopo tanto tempo in mare un sapore forte, che ricordi la terra, aiuta gli animi.
Vuotato il piatto di latta, si torna alla noia. Splende un po’ di sole, tanto vale uscire dal rifugio e asciugare le ossa sul ponte superiore dove sono piazzati i veloci gommoni arancioni che li hanno salvati dal mare.
Intanto Frank, il dottore, si occupa del mal di mare. È più impensierito dalle menti che degli stomaci: «La situazione qui a bordo è instabile, il livello di stress sale». Il timore di qualche gesto estremo è vivo.
Ali prende un binocolo usato per avvistare i gommoni, scruta la costa maltese, una meta distate poco più sei chilometri. «Che bella Malta, è cosi grande, vedo le case, mi sembra di essere libero ma non lo sono». Non riesce a capire perché in questo mondo le persone non possano viaggiare liberamente.
Al calare del sole all’orizzonte le gialle scogliere di Malta, quasi a ricordare a migranti in quale assurda condizione si ritrovino, ad un passo dalla meta e ancora in alto mare.