martedì 8 gennaio 2019

La Stampa 8.1.19
La Chiesa riempie il vuoto lasciato dalla sinistra italiana


Se non fosse per i seminari vuoti e per gli episodi raccapriccianti che vedono coinvolti dei preti, potremmo affermare che la Chiesa di Francesco sta attraversando una nuova primavera. Nel vuoto lasciato dalla sinistra italiana su temi squisitamente di sinistra come le diseguaglianze sociali e le migrazioni, la Chiesa, anche con accenti forti («Vade retro Salvini» ha titolato tempo fa Famiglia Cristiana contro i toni del ministro giudicati aggressivi dalla Cei), appare l’unica in grado di raccogliere le sfide della «questione sociale» così definita già alla fine dell’Ottocento. Sopravvissuta alla caduta dell’Impero romano, a numerose rivoluzioni, quella francese, quella industriale e quella d’Ottobre in Russia; al modernismo e al ’68; riuscirà la Chiesa cattolica e il cristianesimo in generale, tra alti e bassi giunti sino al terzo millennio, a far parte del nuovo ordine sociale europeo nello scontro con le forze sovraniste? Sebbene appaia oggi, come tutta l’Europa del resto, stanca e invecchiata, inascoltata su temi che rientrano nella sfera morale e sessuale, la Chiesa cattolica può trovare dentro di sé buoni anticorpi, generati da esperienza millenaria e battaglie sul campo d’ogni genere.
Stefano Masino, Asti

Di fronte allo scempio dei migrantici alziamo in piedi senza paura
Vogliamo rimanere umani. E non staremo zitti se altri esseri umani vengono lasciati in mare, al freddo. Siamo in tanti ad alzarci in piedi e proclamare questo principio, come nella scena finale dell’«Attimo fuggente», con i ragazzi che salgono sui banchi per dire da che parte stanno senza paura.
Massimo Marnetto


il manifesto 8.1.19
L’ostentazione del disumano in assenza di opposizione politica
Opposizione morale e politica. Nella terra di nessuno dei valori, ricostruire un’articolazione tra l’opposizione morale - che resiste ma stenta a esistere - e un’opposizione politica che non c’è più e richiede una ricostruzione ab imis, diventa impellente e vitale
di Marco Revelli


Al punto più basso dei diritti umani nell’intera storia dell’Italia repubblicana, di fronte a un governo che alza come bandiera la propria ostentazione del disumano, dobbiamo constatare l’inedita assenza di un’opposizione politica. Opposizione morale sì, da parte di qualche sindaco coraggioso, di qualche vescovo fedele al vangelo, di qualche persona di buona volontà che non si arrende al deserto che cresce.
Ma sul piano politico il vuoto. Anzi un pessimo pieno, con una destra (FdI e FI) che sul terreno delle politiche securitarie e migratorie tende a scavalcare a destra la peggior destra di governo proponendo blocchi navali e politiche segregazioniste (leggetevi Libero e Il Giornale se siete di stomaco forte).
E QUELLA CHE FU LA SINISTRA che sul piano delle politiche sociali riesce ad essere persino peggio del governo difendendo austerità e legge Fornero, attaccando l’istituto stesso del reddito di cittadinanza, mettendosi al seguito degli impresentabili Commissari europei nell’assumere come dogmi i suicidi vincoli comunitari; mentre su quello delle politiche migratorie e della difesa della Costituzione manca totalmente di credibilità, delegittimata dalla propria stessa storia recente.
Si pensi a quanto accaduto alla Camera a fine anno, quando le esibizioni circensi di Emanuele Fiano in difesa della Costituzione platealmente umiliata dalla coalizione giallo-verde sono apparse a tutti grottesche, perché provenienti da chi quella stessa Costituzione aveva cercato di fare a pezzi con uno sciagurato referendum, e l’oltraggio alla discussione parlamentare l’aveva perpetrato compulsivamente (ricordate?) a colpi di canguri e voti di fiducia addirittura in materia di legge elettorale e revisione costituzionale.
O SI RIFLETTA SULL’ATTUALE caccia alle streghe nei confronti delle Ong, su cui il Pd è costretto a tacere dopo lo sciagurato «codice Minniti» che di quella damnatio boni aveva inaugurato la via. O, ancora, ci si soffermi sulla vicenda del cosiddetto decreto Salvini.
Possibile che nessuno abbia trovato nulla da eccepire (sia pur con il rispetto dovuto alla persona) alla scelta del Presidente della Repubblica di firmare senza se e senza ma quel testo indecente, palesemente in antitesi con i principi fondamentale della nostra Carta.
Se quel testo fosse stato rinviato alla Camere, o se almeno fosse stato accompagnato da un messaggio presidenziale con i necessari caveat, i «sindaci coraggiosi» non sarebbero stati costretti a quel ruolo di supplenza nella custodia della Costituzione che sarebbe spettato a figure istituzionali ben più in alto, incassando peraltro dal ceto politico di quella che illusoriamente continua a considerarsi «sinistra di governo» non una solidarietà piena, ma timidi balbettii, pieni di distinguo e di formalistici legalismi, come se il principio della disobbedienza civile e dell’obiezione di coscienza fossero cose di cui vergognarsi anziché strumenti necessari in casi di emergenza umanitaria.
La ragione di tanto fariseismo se l’è lasciata scappare Stefano Folli sulle pagine del quotidiano d’area, Repubblica, definendo «l’iniziativa ribelle di Orlando, subito sostenuto dal napoletano de Magistris» discutibile, anzi deplorevole perché compiuta «in sfregio alle istituzioni», e pericolosa, perché – qui sta il vero nocciolo del discorso – creerebbero, con il loro richiamo alla coscienza e il loro radicalismo, «un danno alla prospettiva di un centrosinistra allargato che voglia risalire la china».
S’INTUISCE QUI, neppur tanto tra le righe, il profilo di un progetto politico che sta venendo avanti sotto traccia, per allusioni e illusioni, e che vedrebbe – in opposizione ai nuovi populismi – la costruzione di un fronte unito esteso dai malpancisti di Forza Italia ai vetero-progressisti del Pd, composto da tutti i pragmatici dell’esistente, dai rappresentanti di tutte le élites, di tutti gli interessi, da quelli un tempo incarnati dal partito azienda berlusconiano fino a quelli visibili nel parterre della Leopolda renziana.
È IN FONDO L’ESPERIMENTO che si sta tentando nel laboratorio-Torino in vista delle regionali del Piemonte, dove il governatore uscente Chiamparino sta lavorando a un «fronte del SI» aperto a tutti i fautori del Tav e in generale delle Grandi opere (al «partito degli affari», insomma).
E dove il neo-eletto segretario regionale Pd, Paolo Furia, ha scoperto gli altarini dichiarando, nella sua prima intervista in carica, che in questa fase politica «è giusto interloquire con la pancia delusa di Forza Italia» (proprio così, non con la testa, che sarebbe già inquietante, ma con la pancia, cioè con l’organo più vorace), soprattutto se «la Lega continuerà a governare con i 5 Stelle» (che sono selezionati evidentemente come il «nemico principale», molto meno allarmante dello xenofobo Salvini e dei suoi pragmatici giannizzeri).
Paolo Furia è considerato esponente della «sinistra» del Partito (figuriamoci gli altri!). La sua vittoria sul renziano Mauro Marino è stata salutata come una svolta.
Ciò non toglie che utilizzerà la nuova adunata del 12 gennaio dei Si Tav – che con coazione a ripetere si sono dati di nuovo appuntamento in Piazza Castello, con tanto di madamine, notai e banchieri, industriali e commercianti – come apertura della lunga campagna elettorale per “rimontare la china” (come dice Folli).
IL FATTO È CHE NEL CORSO del lungo ciclo di sistematico taglio delle radici la sinistra ha via via decostruito l’intero proprio patrimonio culturale, politico e morale giungendo infine a questo «punto zero» dei valori e dell’identità, in cui la cultura diventa vizio salottiero e la morale viene stigmatizzata come moralismo, mentre l’unico metro di giudizio diventa il potere (potere senza egemonia, potere senza coscienza, infine potere senza potere, emblema di una sinistra incosciente e inconsistente, priva di radicamento sociale e di orizzonte ideale).
In questa terra di nessuno dei valori, ricostruire un’articolazione tra l’opposizione morale – che resiste ma stenta a esistere – e un’opposizione politica che non c’è più e richiede una ricostruzione ab imis, diventa impellente e vitale.
Con molta probabilità, a riempire quello iato tra etica e politica ci proverà la Chiesa, l’unica a conservare il senso della «coscienza» e delle obiezioni ad essa connesse, e a non risolvere l’idea di giustizia nella lettera della legge.
MA SAREBBE IMPRESA piena di rischi (sarebbe un ritorno di confessionalismo, etico certo, ma pur sempre confessionale) e non sarebbe indolore anzi, comporterebbe una concreta possibilità di scisma che allargherebbe il cratere in cui ci dibattiamo anziché bonificarlo.
Per questo la cultura laica non può chiamarsi fuori. Rivisitare la vecchia «questione morale» che funzionò a suo tempo come emblema di diversità, adeguandola al nuovo mondo, nell’affermazione della centralità dei diritti umani universali e della fraternità sociale, è una delle vie per uscire dal labirinto della paura e dell’impotenza in cui ci siamo cacciati. Prima che l’eterno Minotauro ci divori.

il manifesto 8.1.19
Rosa Luxemburg, per cambiare il mondo bisogna insorgere
Un’antologia di scritti dal 1898 al 1918, «Socialismo, democrazia, rivoluzione» per Editori Riuniti con un saggio di Guido Liguori
di Lelio La Porta


Il 15 gennaio ricorrerà il centesimo anniversario dell’assassinio di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, da parte dei Freikorps del socialdemocratico Gustav Noske. Molto opportunamente, quindi, viene proposta al pubblico italiano, in specie, come sottolineato nell’Avvertenza, quello «segnatamente studentesco e comunque giovanile», un’antologia di scritti della rivoluzionaria polacca (Rosa Luxemburg, Socialismo, democrazia, rivoluzione. Antologia 1898-1918, con un saggio di Guido Liguori intitolato Il pensiero politico di Rosa Luxemburg. Una introduzione, Editori Riuniti, pp. 307, euro 19,50). Una delle caratteristiche da sempre e da più parti riconosciute del pensiero luxemburghiano è lo spontaneismo (per esempio da Hannah Arendt che soprattutto, sottolineando l’identità di genere e di origine, ma certo non di militanza politica, fra lei e la rivoluzionaria polacca, metteva in evidenza come lo spontaneismo luxemburghiano fosse il contributo decisivo fornito alla teoria politica nell’ottica dell’individuazione delle fonti dell’agire politico), il rifiuto del settarismo, dell’autorità indiscussa dei leader, delle decisioni imposte dall’alto.
Liguori, leggendo lo scritto del 1906 intitolato Sciopero di massa, partito e sindacati mette in discussione o, se si preferisce, ridimensiona lo spontaneismo di Luxemburg facendo notare come le singole agitazioni di massa non possano essere decise «a tavolino» ma debbano essere consapevolmente indirizzate dal partito, nel caso specifico quello socialdemocratico (quanto Gramsci c’è in questa osservazione di Liguori, quanta dialettica fra spontaneismo e direzione consapevole tipica del Gramsci dei Quaderni del carcere?). E, a proposito di dialettica, Liguori legge nella Luxemburg la «rivendicazione della dialettica», del nesso Hegel – Marx che ne caratterizza la posizione sia all’interno del marxismo del suo tempo sia all’interno del marxismo della socialdemocrazia tedesca in alternativa, in questo secondo caso, al revisionismo sia di Bernstein sia di Kautsky.
Liguori, peraltro, muove anche degli appunti a Luxemburg, soprattutto in relazione all’astrattismo di alcune sue posizioni. Intorno al rapporto crisi-rivoluzione, nell’Introduzione, si fa un esplicito riferimento a Gramsci, sia quello precarcerario, sia quello del carcere, in cui la questione è vista in un’ottica di filosofia della praxis, o se si preferisce, leninianamente, «di analisi concreta della situazione concreta», che consente al comunista sardo di collocarsi in una posizione critica rispetto alla rivoluzionaria polacca.
Da questo punto di vista si può fare riferimento al discorso che Luxemburg tenne il 31 dicembre del 1918, che, pur non comparendo nell’antologia viene citato nell’Introduzione, al Congresso di fondazione del Kpd (Partito comunista tedesco); in quella sede si espresse nel modo seguente: «noi oggi viviamo nel più preciso significato della parola verità che appunto Marx ed Engels per la prima volta hanno enunciato come base scientifica del socialismo in quel documento grandioso che è il Manifesto comunista: il socialismo diventerà una necessità storica». E poco più avanti: «Il socialismo è diventato una necessità perché il proletariato non vuol più vivere nelle condizioni di vita che gli fanno le classi capitalistiche». Quasi a dispetto della dialettica, Luxemburg, come noterà Gramsci nelle note carcerarie, mostra una forma di «misticismo storico», come se il socialismo dovesse cadere dal cielo fatalisticamente, e sembra quasi ritenere che l’epoca della Rivoluzione debba protrarsi sine die con scarsa considerazione dei fatti. Si doveva passare, invece, dalla guerra manovrata a quella di posizione. Ciò, ovviamente, come sottolinea lo stesso Liguori, nulla toglie al ruolo ricoperto da Rosa Luxemburg nella «causa di riscatto delle classi subalterne» fino al sacrificio estremo. E che se ne possa parlare in concordia discors – ossia nella prospettiva comparativistica – con Gramsci, è auspicabile.

Repubblica 8.1.19
La battaglia per la democrazia
L’esempio di Palach
di Guido Crainz


Aveva poco più di vent’anni Jan Palach, lo studente che nel gennaio di cinquant’anni fa compì il gesto più drammatico dandosi fuoco in piazza San Venceslao, in una Praga resa sempre più cupa da mesi di invasione e dallo spegnersi della speranza. Faceva parte di una generazione che aveva creduto nel « socialismo dal volto umano» di Alexander Dub?ek, e vedeva quella speranza inabissarsi: il mio gesto è volto « a risvegliare la gente di questo Paese», lasciò scritto.
«Jan Palach ha messo davanti a noi uno specchio impietoso » , scrisse l’Unione degli studenti, mentre il settimanale degli scrittori pubblicava una poesia potente: «E qui scalpitano i tori di Picasso / e qui gli elefanti di Dalì marciano su zampette di ragno / e qui rullano i tamburi di Schönberg / e qui i Karamazov portano il corpo di Amleto». Morì dopo tre giorni di sofferenze e i suoi funerali videro una folla commossa ed enorme: « Corre il dolore bruciando ogni strada / e lancia grida ogni muro di Praga – per citare una splendida canzone di Francesco Guccini – (...) dimmi chi era che il corpo portava / la città intera che lo accompagnava...».
Altri gesti segnarono drammaticamente la fine della speranza: « Il suicidio di Palach, di Zaijc e dei molti altri che non dobbiamo dimenticare – scriveva Angelo Maria Ripellino sull’Espresso – è un grido lacerante che soverchia il fragore dei carri armati, un grido di orrore contro una realtà inaccettabile imposta con la violenza».
Di lì a poco la " normalizzazione" sovietica si imporrà definitivamente e il regime cercò perfino di svilire e infangare il gesto di Jan. Inutilmente, perché anche nel suo nome continuò la battaglia per la conquista della democrazia, svanita ormai l’illusione che il "comunismo reale" fosse riformabile. Continuò nella memoria, nonostante il regime avesse sin rimosso la sua tomba, e continuò poi con Charta 77, fondata da Václav Havel e da altri. Havel sarà arrestato per l’ultima volta il 16 gennaio del 1989, aveva deposto fiori in piazza San Venceslao a ricordo del gesto di Palach. Nel dicembre di quello stesso 1989 sarà presidente della Repubblica federale cecoslovacca mentre ministro della giustizia sarà una donna, Dagmar Burešová: da avvocato aveva rappresentato la famiglia di Palach contro le calunnie del regime.
Una altissima battaglia per la democrazia, dunque: cosa c’entra con tutto questo l’estrema destra italiana che – oggi come allora – tenta di impadronirsi vergognosamente del nome di Palach? Una destra favorita allora dalla insensibilità di larga parte della sinistra per le speranze della "Primavera di Praga" e oggi dalla crescente dissoluzione della memoria e della storia. Favorita, anche, da una più ampia " destra governante" che ostenta distaccata noncuranza di fronte alle violazioni della decenza e dell’umanità.
Una destra vicina alle forze che in Cecoslovacchia, in Polonia, in Ungheria e altrove hanno sconfitto le speranze di rinnovamento democratico e che oggi vorrebbero cancellare anche i suoi eroi. Da qui occorrerebbe partire, perché forse non basta indignarsi per la speculazione vergognosa delle nostre destre o ricordare Palach come merita (questo giornale non ha mai mancato di farlo). Forse nell’Europa del 2019 dobbiamo anche chiederci se – prima e dopo la Caduta del Muro – siamo stati realmente vicini a chi si batteva in quei paesi per una vera «democrazia dal volto umano». Davvero non potevamo fare di più – l’Europa non poteva fare di più – per contrastare l’avanzata delle "democrazie illiberali" oggi trionfanti? Parla ancora a noi, Jan Palach, e non solo al "noi" che eravamo cinquant’anni fa.

il manifesto 8.1.19
Aggressione neofascista ai giornalisti de L’Espresso
Roma. Commemorazione di Acca Larentia, il raduno al Verano organizzato da Avanguardia nazionale (rinata) e Forza nuova
di Gilda Maussier


Calci, schiaffi e una mano stretta sul collo per impedire ai due cronisti di svolgere il proprio lavoro. È quanto accaduto ieri mattina a Roma durante il raduno di estremisti neri che all’interno del cimitero monumentale del Verano commemoravano, come ogni anno, i morti di Acca Larentia (la strage avvenuta il 7 gennaio 1978).
Lo ha denunciato L’Espresso riferendo i dettagli della «violenta aggressione neofascista subita dal giornalista Federico Marconi e dal fotografo Paolo Marchetti», inviati dal settimanale a seguire la manifestazione organizzata da Avanguardia nazionale, formazione neofascista che sembra essere rinata da quella omonima sciolta negli anni ’70 in base alla Legge Scelba.
Secondo quanto riferito, «tra gli assalitori c’era anche il capo romano di Forza Nuova, Giuliano Castellino, che nonostante sia sottoposto al regime di sorveglianza speciale si trovava sul luogo infrangendo il divieto imposto». «È probabilmente questa la causa dell’aggressione. – scrive L’Espresso in un articolo pubblicato sul sito on line – Perché avremmo documentato la piena violazione della restrizione».
Era circa l’ora di pranzo, ieri, quando, subito dopo il «presente» a braccia tese davanti al Mausoleo eretto in memoria dei camerati caduti, un gruppo di neofascisti si sarebbe avvicinato al fotografo Marchetti e «con spinte e pesanti minacce gli hanno intimato di consegnargli la scheda di memoria della macchina fotografica». L’Espresso riferisce che dopo averla ottenuta, i facinorosi «non contenti, gli hanno chiesto il documento per identificarlo, senza che le forze dell’ordine intervenissero».
Nel frattempo, sempre secondo il racconto delle vittime, un altro gruppo di neofascisti ha accerchiato il giornalista Marconi gridando «L’Espresso è peggio delle guardie» e prendendolo a spintoni, schiaffi e calci. Tra questi c’era anche il capo di Forza Nuova Roma, Castellino, che «si è avvicinato al nostro cronista e lo ha preso per il collo» e gli avrebbe sottratto anche il telefono e alcuni effetti personali, «fino a quando non è intervenuta la Digos che seguiva a distanza l’aggressione».
La condanna dell’Anpi, dell’Fnsi, dell’Ordine dei giornalisti e di tutto il mondo democratico non si è fatta attendere. In molti, anche tra le fila del Pd e Leu che avevano già espresso «preoccupazione per l’arrivo di estremisti nazifascisti addirittura da altri Paesi», hanno chiesto lo scioglimento delle formazioni neofasciste protagoniste dell’aggressione.
L’intervento del ministro dell’Interno, sollecitato da tutta l’opposizione (anche dal Forza Italia) così come dagli stessi giornalisti de L’Espresso, è stato limitato ad uno slogan: «Il posto giusto per chi mena le mani è la galera», ha commentato Matteo Salvini. Poi, riferendosi a Castellino, ha aggiunto: «Cercheremo di capire perché era in libertà». E sciogliere le formazioni neofasciste incostituzionali? «Sono arrivati e saranno utilizzati a giorni – ha promesso il leader leghista – 1000 nuovi braccialetti elettronici».

La Stampa 8.1.19
Acca Larentia
Aggrediti cronista e fotografo dell’Espresso
di Michela Tamburrino


Aggressione fascista ai danni di un giornalista e un fotografo durante la commemorazione, al cimitero del Verano di Roma, delle vittime di Acca Larentia. È quanto denuncia l’Espresso sul sito on line spiegando che alcuni esponenti di «Avanguardia Nazionale e il capo di Forza Nuova Roma» ieri hanno colpito «con calci e schiaffi il cronista Federico Marconi e il fotografo Paolo Marchetti de L’Espresso al Cimitero Monumentale del Verano di Roma». «Tra gli assalitori - scrivono - c’era anche il capo romano di Forza Nuova Giuliano Castellino, che nonostante sia sottoposto al regime di sorveglianza speciale si trovava sul luogo infrangendo il divieto imposto. Castellino - scrive l’Espresso - si è avvicinato al nostro cronista e lo ha preso per il collo. Altri lo hanno spintonato, tirandogli anche un calcio sulle gambe e una serie di schiaffi. Il capo di Forza Nuova insieme a uno vecchio militante di Avanguardia Nazionale ha preso al giornalista il cellulare e il portafoglio per identificarlo. Dal telefono hanno cancellato foto e video della giornata». E tutto questo sotto gli occhi della forze dell’ordine intervenute solo in un secondo momento, ad aggressione già compiuta.
Le reazioni
Tante le reazioni di sdegno per l’atto ignobile. Il titolare del Viminale ha detto: «Il posto giusto per chi aggredisce è la galera. Chi mena le mani deve finire lì, a prescindere dal fatto che la persona aggredita sia un giornalista, un operaio, un poliziotto, un muratore o un netturbino. Chiederemo perché uno degli aggressori (appunto Castellino, sottoposto al regime di sorveglianza speciale) era in libertà».
Anche la sindaca di Roma Raggi stigmatizza l’episodio e ricorda su Twitter: che«Roma condanna ogni forma di violenza e di neofascismo». I deputati di Fi solidarizzano con gli aggrediti e chiedono che «chi di dovere chiarisca e si prenda le sue responsabilità». Il gruppo capitolino del Pd sottolinea: «Ancora una volta registriamo con forte preoccupazione l’attività intimidatoria e violenta messa in atto dagli estremisti della destra eversiva. Questi cortei debbono essere vietati e ci auguriamo che il ministro Salvini applichi la Costituzione». Pietro Grasso, senatore di Leu scrive: «I fascisti non si smentiscono mai: servono risposte dure. Il giornalista e il fotografo sono stati aggrediti perché facevano il loro lavoro». Anche il Cdr de La Stampa e il coordinamento dei Cdr di GNN condannano duramente l’aggressione neofascista ed esprimono solidarietà ai colleghi.

Repubblica 8.1.19
Commento
Assalto squadrista le parole non bastano
di Marco Damilano


Non ci accontentiamo, non ci possiamo accontentare.
Il ministro dell’Interno Matteo Salvini è intervenuto per commentare l’aggressione fascista ai giornalisti de L’Espresso Federico Marconi e Paolo Marchetti solo alcune ore dopo e soltanto perché sollecitato dalle domande di un cronista.
Guardate il video, l’aria annoiata con cui il ministro si è degnato di rispondere. Ha detto che chi alza le mani deve finire in galera, ci mancherebbe, e che questo figuriamoci - vale per tutti, giornalisti, netturbini, poliziotti. Giusto, ministro: quel Giuliano Castellino che lei ostenta di non conoscere, infatti, è stato arrestato in passato per violenza e resistenza contro pubblico ufficiale. Per questo non ci accontentiamo del suo bla bla di circostanza, un dichiarare vuoto, soprattutto se paragonato alle esternazioni torrenziali e eccitate con cui inonda i social e i teleschermi.
Non di una rissa si è trattato, ma della volontà manifesta di alcuni fascisti di impedire ai giornalisti di svolgere il loro lavoro.
Un’aggressione che avviene dopo mesi in cui siamo come giornalisti sotto attacco da più fronti, compreso quello di importanti esponenti del governo di cui Salvini fa parte.
Per questo la noia e la banalizzazione del ministro non ci bastano.
«Al popolo italiano di quello che scrivono e affermano i pennivendoli di regime poco interessa», ha commentato l’autore dell’aggressione a cose fatte: una rivendicazione.
Aspettiamo la condanna del titolare del Viminale, che ha per legge il dovere di garantire la sicurezza di tutti, compresi i giornalisti, e il rispetto delle regole della Costituzione repubblicana. E antifascista.

Il Fatto 8.1.19
Bruxelles, la Lega incontra i nazisti ciprioti ed estoni
Il vicepremier anche in Polonia per vedere i nazionalisti di Kaczynski
di Wanda Marra


Matteo Salvini domani sarà in Polonia, per incontrare Jaroslaw Kaczynski, capo e fondatore del Pis (Partito legge e giustizia), nazionalista ed euroscettico che – insieme ai conservatori inglesi, che non faranno parte del nuovo Parlamento europeo – è il soggetto politico più importante dell’Ecr, il gruppo dei Conservatori e Riformisti a Strasburgo. Contemporaneamente, il ministro della Famiglia, Lorenzo Fontana, da sabato è a Bruxelles per incontrare una serie di delegazioni e costruire una piattaforma comune in vista delle Europee, insieme a Paolo Borchia, coordinatore della Lega nel mondo. Oggi l’Ecr e l’Enf (Europa delle Nazioni e delle Libertà), gruppo di cui fa parte la Lega, contano rispettivamente 71 e 36 parlamentari. L’obiettivo dei leader del Carroccio è di arrivare a un unico gruppo di 150-200 europarlamentari, che sia il secondo a Strasburgo, magari dopo un Ppe portato sempre più a destra da Viktor Orban. Cosicché siano gli euroscettici a fare sponda con i Popolari (e non i Socialisti).
Nell’Enf siedono oggi, oltre ai leghisti, il Rassemblement National della Le Pen, l’FPÖ austriaco, l’Interesse fiammingo belga, il tedesco Alternative für Deutschland, il Partito per la Libertà dei Paesi Bassi, il Congresso della nuova destra polacco, oltre a due indipendenti (una uscita dall’Ukip e un rumeno). Tutte formazioni di estrema destra, per adesso minoritaria, da dopo il voto pronte a cambiare gli assetti dell’Europa. Tanto è vero che Fontana sta anche lavorando a una serie di dossier programmatici: migranti, commercio internazionale e superamento del Trattato di Maastricht.
Il ministro (che la Lega già vede Commissario europeo) sta cercando pure di costruire una squadra di funzionari e di burocrati. Vari i potenziali alleati incontrati tra ieri e oggi. Ci sono i ciprioti di Elam (per adesso non presenti in Parlamento), i gemelli neonazisti di Alba Dorata, che ce l’hanno con gli immigrati e vorrebbero l’unificazione con Atene.
Poi, gli estoni di Ekre (anche loro ancora non presenti a Strasburgo), nazionalisti, sovranisti, in ascesa in patria. Il loro numero due, Jaak Madison, si spinse a lodare il nazismo dal punto di vista economico. Sono anti russi, ma la Lega è pronta a giurare che nonostante il loro “inseguimento” di Putin, questo non sarà un problema. Tra gli incontri, anche quelli con due gruppi che ora siedono nell’Ecr. I Veri finlandesi, usciti dal governo in patria, dopo l’elezione come loro leader Jussi Halla-aho, che, oltre a volere l’uscita di Helsinki dalla Ue, nel 2012 fu condannato dalla Corte suprema finlandese per aver collegato, in alcuni post, l’Islam alla pedofilia e aver stigmatizzato i somali. E poi, il Partito popolare danese, che è arrivato a proporre la deportazione dei migranti non desiderati in una piccola isola fuori mano.
Tra i desiderata di Salvini c’è poi quello di allearsi anche con Vox, partito spagnolo con il vento in poppa. Lì c’è qualche problema, visto che la Lega per anni ha corteggiato (peraltro con pessimi risultati) gli indipendentisti catalani, loro acerrimi nemici. Centrale la visita del leader leghista in Polonia. La preparazione dura da mesi: più volte l’ha preceduto Guglielmo Picchi, Sottosegretario agli Esteri, che ha incontrato il ministro della Giustizia polacco. E poi ci hanno lavorato direttamente dal Viminale: il consigliere diplomatico di Salvini, Stefano Beltrame, l’ambasciatore italiano in Polonia, Aldo Amati (che prima stava a Varsavia), l’ex eurodeputato, Adam Bielan. Salvini spera si imposti un’alleanza in vista delle elezioni di maggio.

Il Fatto 8.1.19
I Vigili del fuoco a Salvini: “Togliti la nostra giacca”


Salvini, sei abusivo. Il fuoco amico – mai definizione fu più calzante – arriva da una categoria che in teoria dovrebbe essere vicina al ministro dell’Interno, quella dei pompieri. Ieri il sindacato di base dei Vigili del fuoco ha attaccato il capo della Lega per l’abitudine di indossare maglie e giacche delle forze dell’ordine. Scrive l’Usb: “Chiunque, fuori dei casi previsti dall’articolo 497-ter, abusivamente porta in pubblico la divisa o i segni distintivi di un ufficio o impiego pubblico (…) è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 154 a euro 929”. La polemica dei pompieri non è mossa solo da nobili ragioni ideali, ma da questioni economiche: “È sotto gli occhi di tutti che soprattutto noi vigili del fuoco, amati da tutti, usciamo dall’ultima Finanziaria senza l’ombra di un soldino in tasca”. Il “vezzo” di Salvini è stato criticato anche da Roberto Saviano, che ha definito “gravissimo” il fatto che il ministro strumentalizzi le forze dell’ordine. Pronta la replica del leghista: “Sono orgoglioso di aver ricevuto in dono in questi mesi giacche, magliette, cappellini e distintivi di tutte le Forze dell’ordine, doni che ripago con il mio lavoro quotidiano e provvedimenti concreti”.

La Stampa 8.1.19
Populismo contro sovranisti
di Federico Geremicca


Con la sobrietà di un post sul Blog delle Stelle, piuttosto che con la tradizionale diretta Facebook, Luigi Di Maio ha dunque aperto e già dato una linea alla campagna elettorale europea del suo Movimento.
I cinquestelle staranno con i gilet gialli - mettendo a loro disposizione addirittura la piattaforma Rousseau - perché hanno «lo stesso spirito che ha animato il Movimento Cinque Stelle» e perché assieme possono dar vita a una nuova Europa: «Quella dei movimenti e della democrazia diretta».
Il primo a intendere e a replicare alla mossa del collega vicepresidente del Consiglio è stato, naturalmente, Matteo Salvini: «Sostegno ai cittadini per bene che protestano... ma assoluta, ferma e totale condanna di ogni episodio di violenza». Se vuoi stare con i facinorosi, sembra insomma dire al ministro del Lavoro e dello Sviluppo, fai pure: mentre lui - Salvini, intendiamo - domani vola a Varsavia per incontrare Jaroslaw Kaczynsky, ex premier e presidente e co-fondatore di «Diritto e giustizia», potente partito nazionalista polacco.
Sia come sia, il dado del Movimento Cinque Stelle è tratto.
Dovendosi dare finalmente un profilo e una linea in vista del voto europeo, la scelta sembra esser caduta su quello che potremmo definire «populismo di piazza» (presa di campo certo insidiosa, vista la degenerazione delle manifestazioni parigine). Ma dopo anni di tentennamenti e di vere e proprie giravolte, una direzione di marcia andava ormai indicata: anche per fronteggiare quella sorta di «sovranismo istituzionale», che è il campo già scelto dall’amico-nemico leghista.
Di Maio con la protesta di piazza ed i gilet gialli, dunque, e Salvini con i leader sovranisti d’Europa; i Cinque Stelle al lavoro per cercare inedite alleanze, e la Lega a sviluppare i tradizionali e consolidati rapporti di vertice con le destre europee. Due vie diverse per cavalcare lo stesso malcontento: Di Maio con Jacline Mouraud e il suo nuovo partito per costruire una «Europa dei movimenti», Salvini con Orban, Le Pen e Kaczynsky per una Europa delle nazioni e delle frontiere, ordine e legalità prima di tutto.
Con queste premesse, non è difficile immaginare una lenta ma inarrestabile crescita del tasso di conflittualità tra i due partner di governo. Parallelamente alla scelta «movimentista» sul fronte delle alleanze europee, infatti, i Cinquestelle - obbligati a marcare più distinguo dallo scomodo alleato leghista - stanno moltiplicando anche le prese di distanze sul piano interno, e le recenti polemiche in materia di salvataggi in mare e sicurezza sulla terraferma potrebbero esserne solo un antipasto.
I rischi di tale dinamica sono evidenti: un progressivo aumento dei toni dello scontro - una sorta di vero e proprio duello - fino a giungere al voto europeo con un governo in stato pre-comatoso. Se le cose dovessero andare così, allora l’esito delle elezioni di fine maggio finirebbe davvero per diventare decisivo per la sopravvivenza dell’esecutivo e forse della legislatura stessa. Una prospettiva ed un epilogo poco esaltanti perfino per chi aveva creduto davvero nel cosiddetto «governo del cambiamento».

il manifesto 8.1.19
«A bordo condizioni disperate. Serve subito una soluzione»
Proposta indecente. L’allarme dei medici che si trovano sulle navi con i migranti. «Rischio gesti di autolesionismo». Malta blocca l’accordo Ue
di Carlo Lania


Mentre Roma, La Valletta e Bruxelles giocano a rimpiattino aspettando di vedere chi farà la prima mossa, 49 migranti a bordo di due navi aspettano nel Mediterraneo che la politica finisca di fare i suoi giochi permettendogli finalmente di toccare terra. In condizioni che, dopo 18 giorni passati in mezzo al mare, cominciano a diventare sempre più pesanti. «Il livello di stress sta aumentando, questa situazione deve finire il prima possibile se si vuole evitare una catastrofe», ha lanciato l’allarme ieri Frank Doerner, medico della Sea Watch3 che ha a bordo 32 uomini, donne e bambini. Mentre sulla Professor Albrecht Penck, della ong Sea Eye, hanno iniziato a razionare l’acqua, sia quella potabile che quella per i servizi, e il carburante sta cominciando a finire. «Se continua così dovremo chiedere supporto a Malta», ha spiegato il capomissione, Jan Ribecck.
C’è stato un momento, ieri sera, in cui è sembrato che si fosse finalmente trovata una soluzione. Da Bruxelles fonti diplomatiche fanno infatti sapere che al temine della riunione tra gli ambasciatori sarebbe stato raggiunto un accordo per dividersi i 49 migranti a bordo della due navi. A farsi avanti, al termine di intenso lavoro di contatti con le varie cancellerie europee svolto in questi giorni dal commissario Ue all’Immigrazione Dimitris Avramopoulos, è un gruppo di una decina di Paesi in cui tra gli altri sono presenti anche Francia, Italia, Portogallo, Romania, Germania, Lussemburgo e Olanda, disponibili all’accoglienza non appena Malta darà il via libera allo sbarco.
Nella trattativa, però, si sono inserite le autorità della Valletta chiedendo di far rientrare nella divisione anche i circa 300 migranti sbarcati sull’isola dal primo gennaio. E tutto si ferma. Almeno fino a oggi quando la questione dovrebbe essere affrontata nel corso del consiglio Affari generali.
Un rinvio che potrebbe avere conseguenze drammatiche. A bordo delle due navi, che entrambe in acque maltesi distanti 8,5 miglia una dall’altra, la situazione fisica e soprattutto psicologica dei 49 migranti si fa sempre più difficile. Sulla Sea Watch alcuni di loro hanno rifiutato cibo e acqua, più cime un gesto di disperazione che di protesta. C’è chi non dorme da giorni e chi non capisce perché, dopo essere riuscito finalmente ad arrivare in Europa al termine di un viaggio durato anche anni, adesso non può scendere a terra. «Queste persone sono davvero al limite» spiega Dorner, il medico di bordo. «La situazione diventa ogni giorno peggiore specie dal punto di vista psicologico». E le cose non vanno certo meglio a bordo dell’altra nave, della ong tedesca Sea Eye, dove ormai comincia a scarseggiare tutto; acqua, cibo e perfino il carburante. Al contrario di SeaWatch3, che alcuni giorni fa è stata rifornita di tutto da una nave partita da Malta, la Professor va ancora avanti con le sue scorte., giunte però al limite. I 17 migranti che si trovano a bordo, tra i quali una donna di 24 anni e tre ragazzi di 17, dal 29 dicembre, giorno del salvataggio, si alternano nel dormire sottocoperta e un in un container sul ponte. Anche qui, però, la cosa più difficile è la tenuta psicologica del gruppo.
Oggi i responsabili della Sea Watch terranno una conferenza stampa a Berlino per fare il punto della situazione. Nel frattempo ieri la portavoce in Italia, Giorgia Linardi, ha risposto alle accuse di palazzo Chigi e del ministro dei Trasporti Toninelli a proposito di presunte irregolarità nel salvataggio avvenuto al largo delle coste libiche. «Nessuno dei rilievi che ci ha fatto il governo italiano rappresenta una violazione del diritto internazionale», ha spiegato Linardi. «Il barcone su cui si trovavano i migranti non era già affondato, e questo è un bene, ma non presentava le condizioni di navigabilità che un natante deve avere come specificato dal regolamento di Frontex».
Spiegazioni che non smuovono di un millimetro il titolare degli Interni. Che non cambia idea neanche di fronte agli allarmi lanciati dai medici sulle condizioni di salute dei migranti e respinge anche la possibilità di accogliere solo donne e bambini, come proposto dal premier Conte e dall’altro vicepremier Di Maio: «Sarebbe un cedimento che farebbe dire agli scafisti: ’10 oggi, 15 domani…’».

il manifesto 8.1.19
Regioni in campo contro il ‘decreto sicurezza’
Diritti negati. La Toscana ufficializza il ricorso alla Consulta. Piemonte, Umbria ed Emilia Romagna faranno altrettanto, anche Basilicata, Lazio e Sardegna sul punto di muoversi. Impugnati davanti alla Corte Costituzionale l'articolo 1 e l'articolo 13 del "decreto Salvini", quelli che cancellano la protezione umanitaria e l'iscrizione anagrafica. Porte aperte ai sindaci "disobbedienti", per la decisione della Corte Costituzionale necessario circa un anno di tempo.
di Riccardo Chiari


FIRENZE Un fiume in piena. Al ricorso alla Consulta contro il ‘decreto sicurezza’ da parte della Toscana, ufficializzato con una delibera ad hoc, si sono aggiunte prese di posizione analoghe da parte di Umbria, Piemonte ed Emilia Romagna. Mentre Calabria, Lazio, Basilicata e Sardegna sono sul punto di muoversi. “Ci coordineremo con le Regioni e i Comuni che ci hanno chiesto di capire cosa stiamo facendo – tira le somme il presidente toscano Enrico Rossi – siamo già in contatto. Si sta creando un movimento davvero ampio. E nella delibera abbiamo puntualizzato che vogliamo rivolgerci ai Comuni: siamo a disposizione per consentire anche a loro il ricorso alla Consulta, perché possono farlo attraverso le Regioni, è stabilito per legge. Il ricorso sarà redatto dalla nostra avvocatura, quindi non spenderemo fuori niente, e inviato entro un mese. Poi sarà la Corte Costituzionale che si pronuncerà”. Fra circa un anno, osservano in proposito gli addetti ai lavori.
Sono tre i passaggi del testo del “decreto Salvini” impugnati dalla Toscana. “L’oggetto del ricorso è principalmente l’articolo 1 – spiega Rossi – quello cioè che elimina la protezione umanitaria. Pensiamo infatti che questo sia un modo per aumentare il numero degli irregolari, non consentendo quindi di svolgere fino in fondo il nostro ruolo, previsto anche dalla Costituzione, di assistere in maniera universalistica le persone sul profilo delle cure, dell’assistenza sociale essenziale ed elementare, penso a un tetto o un piatto di minestra calda, e dell’istruzione come diritto fondamentale”. Questo, secondo la delibera, va contro agli articoli 2, 3, 10 e 117 della Costituzione.
Altro articolo contestato del decreto è il numero 13: “Eliminando l’iscrizione anagrafica – osserva sul punto il presidente toscano – l’articolo rende invisibili queste persone. Spariscono, non sappiamo dove cercarle e come poterle assistere. Un medico mi faceva presente che i ragazzi, i bambini, non essendo iscritti all’anagrafe non si possono neppure vaccinare. La Costituzione però ci dice che la salute è un diritto fondamentale, che non appartiene al cittadino ma alla persona, ed è allo stesso tempo interesse della collettività, come già specificato dalla Consulta”.
Dalla Sardegna, l’assessore regionale Filippo Spanu anticipa un’altra mossa politica: “Ci stiamo muovendo in coordinamento con le altre Regioni per richiedere un confronto politico al governo in sede di Conferenza delle Regioni, nello specifico con la commissione delle migrazioni”. Mentre il presidente laziale Nicola Zingaretti annuncia: “Nella legge regionale di bilancio abbiamo stanziato 1,2 milioni di euro per non far chiudere gli Sprar”, i centri di accoglienza diffusi sul territorio.
Nella scia di Leoluca Orlando e Luigi De Magistris si stanno muovendo infine anche molti sindaci, nell’attesa del direttivo Anci di giovedì. Sul punto il vicepresidente dell’associazione Roberto Pella, forzista, invita “a rispettare sempre la legge”. Sembra rispondergli Enrico Rossi, quando puntualizza: “I sindaci non sono dei ‘pierini’, ma persone elette che consapevolmente si assumono la responsabilità di sottoporsi a un procedimento penale”. A ruota un’ultima osservazione: “Da parte nostra non stiamo facendo disobbedienza civile, stiamo esercitando un diritto-dovere. La nostra è una democrazia complessa, e bisogna che si abitui anche Salvini a vivere dentro una democrazia complessa, in cui ci sono istituzioni e bilanciamenti di poteri. Aggiungo solo che apprezzo molto i sindaci per le posizioni che hanno preso. Anche quelli che dicono che non si può non applicare la legge, ma si dichiarano apertamente contrari al decreto”.

Corriere 8.1.19
«Decreto sicurezza incostituzionale»
I ricorsi delle Regioni di centrosinistra
Le scelte dal Piemonte all’Umbria. Sea Watch, alcuni migranti in sciopero della fame
di Fabrizio Caccia


ROMA Si allarga il fronte delle Regioni «rosse» mobilitate contro il decreto sicurezza. La Toscana di Enrico Rossi, l’Umbria di Catiuscia Marini e l’Emilia-Romagna di Stefano Bonaccini ieri hanno deliberato ufficialmente il loro ricorso alla Consulta. Ma anche il Piemonte di Sergio Chiamparino, dopo averlo da giorni annunciato, ha concluso che esistono «le condizioni giuridiche» per presentarsi davanti alla Corte Costituzionale. Il decreto, secondo i governatori, impedendo il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi umanitari, avrà ripercussioni sulla gestione dei servizi sanitari e assistenziali che sono di competenza delle Regioni. Così, sono ormai prossime al passo formale anche la Sardegna di Francesco Pigliaru, la Calabria di Mario Oliverio e la Basilicata della vicepresidente reggente Franca Franconi. E farà lo stesso pure il Lazio di Nicola Zingaretti, il governatore candidato alle primarie del Pd: «Il decreto è vergognoso, rende i migranti fantasmi — ha detto ieri Zingaretti —. Abbiamo già stanziato 1,2 milioni di euro per non far chiudere gli Sprar».
«Questo decreto porterà più insicurezza — è anche la tesi del governatore della Toscana, Enrico Rossi —. Lascerà persone senza diritti, accrescerà il numero di irregolari». Ma, avverte Rossi, questo non significa sposare la linea dei sindaci dissidenti, da Orlando a de Magistris: «Non abbiamo intenzione di compiere atti di disobbedienza civile», chiarisce il governatore. A tutti loro, ieri, ha replicato il ministro dell’Interno, Matteo Salvini: «Sono sconvolto. Toscana, Piemonte e Umbria contro il decreto sicurezza? Mi sto facendo mandare il numero dei cittadini delle tre regioni che aspettano una casa popolare: mi fa specie che ci siano sindaci e governatori che invece di fare il loro lavoro si preoccupano di cose del governo. Mi fa specie l’ignoranza di alcuni governatori, penso a quello del Lazio, che parlano di diritto alla salute violato: se oggi un immigrato fa ricorso al pronto soccorso, gli vengono concesse tutte le cure necessarie».
Ma il titolare del Viminale, in queste ore, è alle prese anche col caso migranti. Non solo Papa Francesco. Ieri, per la prima volta, anche la Comunità ebraica di Roma ha fatto sentire la sua voce sul caso dei 49 profughi ancora a bordo delle due navi delle Ong Sea Watch e Sea Eye: «La vita umana è sacra e deve essere anteposta a qualsiasi considerazione politica». Salvini, però, va avanti per la sua strada: «Possono farmi tutti gli appelli che vogliono, io non cambio idea. Aspettiamo novità da Malta, Berlino o Amsterdam...». I porti dell’Italia restano chiusi, insomma, anche se il commissario Ue per l’immigrazione, Dimitris Avramopoulos, ha chiamato i vari leader europei per assicurare uno sbarco già nelle prossime ore dei 49 migranti da giorni al largo di Malta. Secondo fonti diplomatiche, una decina di Paesi tra cui l’Italia stessa, eppoi Germania, Francia, Portogallo, Lussemburgo, Olanda e Romania si sarebbero offerti per accoglierli appena La Valletta si deciderà a dare l’ok allo sbarco. Ma è proprio questo il nodo: il governo maltese chiede che oltre ai 49 siano ridistribuiti nell’Ue anche gli altri 249 profughi da loro salvati di recente. Così, in attesa di sviluppi, la situazione a bordo delle due navi si fa difficile: l’acqua ormai è razionata e alcuni dei profughi hanno deciso di cominciare lo sciopero della fame. Si temono gesti di autolesionismo. Salvini, però, ieri ha ribadito la chiusura totale all’arrivo in Italia persino delle donne, dei bambini e dei loro familiari a bordo, 15 persone in tutto, a cui invece avevano aperto uno spiraglio il premier Conte e il vicepremier Di Maio. «Uno, 15, 150. No, non arriveranno. Sarebbe un segnale di cedimento. Farebbe dire agli scafisti “continuiamo ad andare a prenderli perché tanto prima o poi in Italia ci arrivano”. E invece io dico basta».

La Stampa 8.1.19
Azione fascista in associazione pro migranti
Indagati in 13
di Paolo Colonnello


Fu un’azione in perfetto stile fascista: l’ingresso marziale e minaccioso, i capelli rasati, i giubbotti bomber, l’ordine di «fare silenzio assoluto» e poi la lettura di un lungo comunicato che stigmatizzava le attività di alcuni volontari a favore degli immigrati. Non una bravata ma una vera e propria opera d’intimidazione studiata nei minimi dettagli quella messa in atto nei confronti dei volontari di un’associazione di aiuto agli stranieri, «Como senza frontiere», nel novembre del 2017. Autori furono tredici appartenenti al gruppo «Veneto Fronte Skinheads» per i quali ora la Procura di Como si appresta a chiedere un rinvio a giudizio. Il decreto di chiusura indagini è stato infatti depositato ieri dal procuratore di Como, Nicola Piacente, che ha concluso così un anno e mezzo di indagini ipotizzando accuse che vanno dalla violenza privata, per avere «pianificato e organizzato» l’irruzione nei locali del Chiostro Sant’Eufemia «con fare intimidatorio», all’aggravante di aver commesso il fatto in più persone riunite e, per uno dei militanti comaschi, per aver «promosso e organizzato» il reato «con invio di messaggi inerenti anche l’abbigliamento da indossare in occasione dell’ irruzione e gli aspetti logistici».
I precedenti
In seguito alla vicenda, la Digos aveva svolto perquisizioni in quasi tutto il Nord Italia, ricostruendo così una mappa piuttosto circostanziata del gruppo di estrema destra e scoprendo che quella di Como era stata solo l’ultima di una serie di azioni quasi identiche avvenute, curiosamente sempre a novembre, nei due anni precedenti: a Modena nel 2016 con un’irruzione presso la Facoltà di Giurisprudenza dove si stava svolgendo un convegno sull’immigrazione e a Medola (Mantova) nel 2017 con l’interruzione della presentazione di un libro sull’integrazione scritto da una giovane marocchina. Nel caso di Como, con un rituale para nazista, gli skinheads di «Veneto Fronte», si erano minacciosamente sistemati alle spalle dei volontari e filmando la scena, dopo aver intimato il silenzio, avevano letto il loro farneticante comunicato. Nelle abitazioni dei tredici indagati, gli inquirenti hanno trovato il peggio dell’armamentario dell’ultradestra: svastiche, manifesti nazisti e anti ebrei, ingiurie verso Anna Frank, statuette del duce. Gli indagati sono residenti nelle province di Brescia, Mantova, Genova, Milano, Piacenza, Varese e Lodi oltre che Como.

La Stampa 8.1.18
La scelta di Salvini “Non chiudo gli stadi per i cori razzisti”
Un ritorno al passato per uscire dall’emergenza: treni speciali e partite a rischio non in notturna
di Francesco Grignetti


È una ricetta antica, quella del ministro Matteo Salvini sul calcio e il tifo. Un ritorno al passato. Alla vigilia della ripresa del campionato di calcio, metabolizzata la giornata di straordinaria violenza di Milano, durante la quale è morto l’ultras varesino Daniele Belardinelli, il ministro riapre la strada ai famosi treni per tifosi. «Vietare le trasferte, non va bene. Come chiudere gli stadi. È la resa dello Stato. Ma meglio evitare le trasferte fai-da-te. Sono più controllabili 1000 tifosi che viaggiano tutti assieme, e se qualcuno danneggia le carrozze ferroviarie ne risponderà, piuttosto che avere 100 minivan che entrano in città da tutte le parti».
Le trasferte organizzate esistevano un tempo. Poi furono abolite perchè sembravano fuori controllo. Nel frattempo sono state inventate le tessere del tifoso, i tornelli agli ingressi, il biglietto nominativo. E come raccontano troppi episodi di cronaca nera, le violenze degli ultras si sono spostate lontano dagli impianti sportivi, persino favorite dall’afflusso disordinato di tifosi in trasferta. Questa caratteristica del tifo violento, comune alla Gran Bretagna, alla Germania, o ai paesi nordici, non è sfuggita all’Osservatorio sul calcio presso il nostro ministero dell’Interno. Lo conferma il ministro Salvini, che si fa vanto di essere un buon frequentatore degli stadi e delle curve. «Ci si picchia ormai negli autogrill, sulle tangenziali, ai caselli di autostrada». E contro questa violenza diffusa, pulviscolare, un pur imponente sistema di sicurezza può fare poco. Molto meglio tornare ai treni, allora. «Con tifosi che ci danno garanzie, il numero del biglietto, il codice fiscale, il casellario giudiziario...».
Quanto al resto, vietato vietare. Con buona pace di chi avrebbe voluto una stretta ulteriore sui cori razzisti, sugli striscioni, e pure sui tamburi, il ministro ha rovesciato l’ottica: no alla chiusura delle curve, no alle trasferte off-limits, no alla sospensione di partite. «Chi decide? Non l’arbitro, che ha già i suoi problemi. Non il funzionario di polizia, che deve preoccuparsi dell’ordine pubblico. Finisce che lasciamo la decisione nelle mani di pochi tecnici».
A dare la linea, dunque, è innanzitutto il Salvini con la sciarpa, che a fiuto sente di doversi schierare con il «popolo» delle curve piuttosto che con l’establishment sportivo, che siano i vertici del Coni o i presidenti delle società. A questi ultimi, promettendo assieme a Giancarlo Giorgetti che quanto prima avranno una legge speciale che favorirà la costruzione di nuovi stadi, intima però di fare la loro parte. «Vengono mobilitati 75mila agenti. Sarebbe gradito che le società collaborino alla spesa (circa 40 milioni di euro, ndr) che finora grava sulle tasche dei contribuenti».
Ma sono ipotesi per il futuro. Da subito, il ministro chiede alle società di rivedere gli orari delle partite. A cominciare da una partita in particolare. «Non mi sfugge che la ripresa del campionato prevede Genoa-Milan, e siccome i rapporti tra le due tifoserie non sono dei migliori, vorrei tanto che quella partita si facesse con la luce del giorno».
Come i treni per tifosi, anche disputare di giorno e non di notte le partite «difficili» sarebbe una misura di prevenzione che aiuterebbero la polizia a svolgere il proprio lavoro. E però qui c’entrano i soldi: i diritti televisivi, la girandola di partite che è diretta dalle emittenti, i contratti. I presidenti delle società hanno subito fatto muro. Ma Salvini insiste: «Il diritto alla gioia viene prima del diritto al business, prima del contratto con Sky o con Dazn». È il populismo politico applicato alle curve, ai tifosi-elettori che vanno blanditi, non tenuti a distanza o peggio bastonati. E perciò: «Mi rifiuto di confondere milioni di persone perbene con pochi criminali, quelli che vanno allo stadio con le roncole. Sono contrario ai divieti. Il tifo deve essere colorato e colorito».

La Stampa 8.1.18
Subito identificati e messi al bando
Così l’Inghilterra combatte i razzisti


Anche nel calcio inglese, il più ricco del mondo, l’allarme-razzismo è tornato di recente a suonare forte. Lassù, però, da tempo sanno come comportarsi. Negli stadi nulla sfugge a telecamere e steward. Così, a dicembre, il tifoso del Tottenham che ha lanciato una banana in campo verso Aubameyang dell’Arsenal è stato identificato al volo e punito con un bando di 4 anni e una multa di 500 sterline. Poi, a essere bersagliato da epiteti razzisti da «tifosi» del Chelsea è stato Raheem Sterling, attaccante del Manchester City. Fermati dalla polizia, ai quattro colpevoli è stato ritirato l’abbonamento: sono stati sospesi, in attesa della chiusura del procedimento aperto dallo stesso club, che in Europa League è pure finito nel mirino dell’Uefa a causa dei canti antisemiti intonati nell’ultima trasferta in Ungheria contro i rivali del Tottenham. Episodi che hanno indotto i dirigenti della Premier League a lanciare lo scorso 14 dicembre un appello chiedendo al pubblico di segnalare comportamenti non appropriati e di denunciarli sia agli steward negli stadi che attraverso la piattaforma «Kick It Out», che in Inghilterra raccoglie segnalazioni e casi.

La Stampa 8.1.18
La ministra Grillo e la cuoca di Lenin
di Francesco Bei


I fatti. L’ottimo Corrado Zunino, il collega di Repubblica che si occupa da anni di questi temi, scopre che la ministra della Salute, Giulia Grillo, ha ordinato agli amici cinque stelle un dossieraggio sui precedenti politici dei trenta membri del Consiglio superiore di Sanità poi mandati a casa.
L’inchiesta interna su questi luminari - parliamo di scienziati di fama mondiale come Silvio Garattini o Bruno Dallapiccola, con centinaia di pubblicazioni internazionali - è stata affidata dal ministro a tal Celeste D’Arrando, un diploma di tecnico di laboratorio e formatrice di venditori di assicurazioni presso i call center, miracolata il 4 marzo e ora capogruppo in commissione Sanità alla Camera. Da tale attività di inchiesta, confermata da Grillo e chissà perché bollata come fake news, risultano gravissime colpe in particolare a carico del prof. Adelfio Elio Cardinale, “beccato” ad avere come moglie un magistrato «precedentemente direttrice dell’ufficio di gabinetto dell’ex ministro Schifani» di Forza Italia, del prof. Antonio Colombo, «uno dei medici che ha operato Berlusconi», e del prof. Francesco Bove, che si sarebbe macchiato del reato di aver scritto su Repubblica.
Le opposizioni hanno parlato di «dossieraggio fascista», di «emergenza democratica» e hanno chiesto le dimissioni del ministro. Eppure bastava leggere bene quello che la Grillo ha definito un semplice «appunto informale» per buttarla a ridere. Vito Schifani è stato presidente del Senato per Forza Italia, mai ministro. Anzi, forse è l’unico forzista di rango che Berlusconi non ha mai nominato in uno dei suoi governi. Il cardiologo Colombo, ha fatto notare anche un po’ piccato su Twitter il vero medico del Cavaliere, Antonio Zangrillo, non ha mai alzato un dito sul suo illustre paziente. Infine il professor Bove, docente di Anatomia alla Sapienza, ha scritto sì qualche articolo in vita sua, ma ai tempi di Paese sera, non su Repubblica. Insomma, altro che Stasi o Kgb, per avere un lavoretto fatto bene al ministro della Salute sarebbe bastato andare su Wikipedia e avrebbe evitato certi sfondoni. Se la ricerca del merito vantata dai cinquestelle è questa, allora tanto vale affidarsi alla cuoca di Lenin. E nominare nel nuovo Css trenta formatori di call center.

La Stampa 8.1.19
Morto l’italiano che combatteva lo Stato Islamico insieme ai curdi
di Giordano Stabile


La lotta all’Isis ha un suo caduto italiano. Non un militare ma un volontario della Brigata internazionale che combatte a fianco dei curdi sull’ultimo fronte del califfato, al confine fra Siria e Iraq. La sua morte, dovuta «a uno sfortunato incidente», è stata annunciata ieri sul sito dello Ypg, le “Unità a protezione del popolo” protagoniste della battaglia contro lo Stato islamico a Raqqa e in tutto il Nord-Est della Siria. Il combattente si chiamava Giovanni Francesco Asperti ed era originario di Bergamo. Il suo nome di battaglia, ha specificato lo Ypg, era Hiwa Bosco.
Asperti è morto il 7 dicembre, a quanto pare in un incidente d’auto, «mentre era in servizio a Derik», vicino alla frontiera con l’Iraq. La località è conosciuta anche con il nome arabo di Al-Malikiyah e si trova subito dopo il posto di confine di Semalka, l’unico valico fra il Kurdistan iracheno e il Rojava, il Kurdistan siriano. Derik non si trova in una zona interessata dai combattimenti. Asperti era forse appena rientrato in Siria dal Kurdistan siriano. La sua morte è stata confermata dalla Farnesina, mentre il consolato a Erbil «sta seguendo il caso con la massima attenzione ed è in contatto con i familiari».
La lotta all’Isis
Volontari da tutta Europa si sono uniti allo Ypg nella lotta contro l’Isis a partire dal 2014. La Brigata internazionale ha combattuto con le forze speciali curde sul fronte di Raqqa, dove si era specializzata in assalti notturni. Nell’estate del 2017 contava su una decina di volontari italiani. Fra loro c’era anche Claudio Locatelli, di Curno, in provincia di Bergamo, che ieri ha espresso il suo «dolore dovuto a ogni combattente che ha scelto la via del campo». E’ possibile che alcuni di loro, compreso Asperti, abbiamo partecipato anche all’ultima battaglia, ancora in corso lungo l’Eufrate, dove resiste l’ultimo nucleo di irriducibili jihadisti. Assieme ai curdi ci sono anche forze speciali americane ed europee, e due britannici sono rimasti feriti.
I curdi, nell’annuncio del «martirio» di Asperti, sottolineano che «il compagno Hiwa si è unito ai ranghi della libertà con lo steso spirito e motivazione di tutti i combattenti stranieri influenzati dalla rivoluzione democratica del Rojava». Motivazioni che però sono sotto attacco sia in Gran Bretagna che in Italia, in quanto lo Ypg è considerato dalla Turchia una organizzazione terroristica, e molti volontari rischiano sono ora accusati di “complicità” in attività “eversive”. Una beffa per chi, pur al di fuori degli schemi istituzionali, si è unito alla lotta contro il terrore jihadista, anche a costo della propria vita.

Corriere 8.1.19
Combatteva l’Isis insieme ai curdi, morto il «guerrigliero» italiano
Ucciso in un incidente in Siria, è il primo caduto del nostro Paese in Siria
di Maddalena Berbenni, Marta Serafini


Ucciso «in un incidente» in Siria, è il primo caduto del nostro Paese in Siria
Geologo, un lavoro nel settore petrolifero. Giovanni Francesco Asperti, 53 anni, non era il primo italiano ad essersi unito alle forze curde impegnate nel nord della Siria per combattere l’Isis e per la creazione di uno stato autonomo. Hiwa Bosco — questo il suo nome di battaglia — però è il primo «combattente» italiano morto.
A darne notizia ieri in un comunicato lo Ypg, le milizie curde, che parlano «di uno sfortunato incidente» nella zona di Derik, vicino al triangolo al confine tra la Siria, la Turchia e l’Iraq. Il decesso, confermato dalla Farnesina che è in contatto con la famiglia e con il consolato di Erbil nella regione autonoma del Kurdistan iracheno, sarebbe avvenuto almeno un mese fa. Difficile però stabilire ancora con esattezza la dinamica della morte, se sia per il momento possibile recuperare il corpo e se Asperti avesse lasciato indicazioni al momento dell’arruolamento, come è prassi per i combattenti stranieri. Difficoltà che aumentano anche dato il quadro nella regione, a pochi giorni dall’annuncio del presidente Trump sul ritiro delle truppe Usa e a poche ore dalla visita in Israele e in Turchia del consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton, che ha ribadito sì il disimpegno, ma che ha corretto il tiro dando garanzia che le forze turche non attaccheranno i curdi, alleati degli americani nella campagna contro l’Isis.
Originario di Ponteranica, alle porte di Bergamo, sposato e padre di due figli (un ragazzino di 13 e una ragazzina di 14 anni), Asperti era partito per il Medio Oriente alla fine dell’estate scorsa. Una decisione presa in segreto, tanto che a Ponteranica quasi nessuno sapeva del suo interesse per la Siria. «Vado in Kuwait», aveva detto.
Chi era
Geologo, originario di Ponteranica, alle porte di Bergamo, era sposato e padre di due figli
Ma dati i suoi frequenti viaggi in Medio Oriente per lavoro nessuno si era allarmato più di tanto. In paese Asperti era noto anche per la sua storia familiare. Al padre Piero, morto nel 2004, è dedicata la piazza principale. Un medico condotto, ex Dc passato al Pci, che per anni aveva collaborato con la Cgil nelle prime battaglie per la salute sui luoghi di lavoro e che con Lucio Magri era stato tra i fondatori del Manifesto. La madre, Vittoria Chiarante, è invece la sorella di Giuseppe Chiarante, deputato del Pci di Berlinguer, senatore ed ex vice presidente del Consiglio nazionale del ministero per i Beni Culturali e Ambientali.
A piangere per la morte di Hiwa Bosco anche gli altri italiani «combattenti» dello Ypg. «Non lo conoscevo, e ha un profilo diverso rispetto a quello degli altri, soprattutto per l’età», spiega Claudio Locatelli, 30enne, anche lui bergamasco e anche lui passato in Siria per combattere l’Isis a Raqqa.
La famiglia
Suo papà Piero era stato, con Lucio Magri, tra i fondatori del «Manifesto»
Una battaglia in cui, in questi anni, sono morti al fianco dei siriani e dei curdi decine di giovani europei. Insieme a Locatelli sono infatti altri 17, comprese due donne, gli italiani considerati in forza allo Ypg (in curdo Yekîneyên Parastina Gel, ovvero Unità di Protezione Popolare). Profili che da qualche mese sono nel mirino. Se è infatti del gennaio 2015 il decreto con cui l’allora ministro dell’Interno Angelino Alfano ha inteso contrastare le partenze dei foreign fighters e che prevede fino a 10 anni di carcere per chi si auto addestra e va all’estero a sostenere una causa, è solo dal 2018 che gli italiani arruolati coi curdi sono stati perseguiti, pur avendo profili diversi dai miliziani partiti per unirsi all’Isis.
Per cinque di loro, militanti No Tav e del centro sociale Askatasuna, la pm torinese Emanuela Pedrotta ha chiesto la sorveglianza speciale. La conferma è attesa per il 23 gennaio.

Repubblica 8.1.19
Da Bergamo alla guerra all’Isis giallo sulla morte di un italiano
Aveva cinquant’anni. Le milizie curde con cui combatteva: "Incidente sfortunato"
È la prima vittima del nostro Paese tra i foreign fighter schierati contro il califfato
di Jacopo Ricca e Fabio Tonacci


Con un bollettino in lingua curda, lo Ypg ha annunciato al nostro Paese il primo martire italiano caduto in Siria. Il nome di battaglia che si era scelto, " Hiwa Bosco", significa "speranza". Ma di certo l’ultima cosa che sperava l’ingegnere 50enne bergamasco Giovanni Francesco Asperti, quando pochi mesi fa si è arruolato volontario nello Ypg, l’esercito popolare curdo, per combattere contro quel che resta dell’Isis, era di morire non sul campo di battaglia ma in un non meglio precisato « sfortunato incidente » . Un incidente di cui si conoscono il luogo (Derik), la data (il 7 dicembre scorso) ma non la dinamica.
La Farnesina ha confermato la morte di Asperti e il consolato a Erbil, in contatto con i familiari, sta seguendo il caso. Asperti ha due figli adolescenti. Non è chiaro cosa sia successo esattamente, ma la regione in cui è avvenuto il fatto si trova nel nord est della Siria, al confine con la Turchia e l’Iraq, ed è completamente sotto il controllo curdo. Non ci sono combattimenti in atto in quella zona, e questo fa pensare a un incidente automobilistico provocato forse dall’alta velocità o da un incendio a bordo. C’è chi parla di un episodio fortuito avvenuto durante l’addestramento ( in quella zona ci sono diversi campi) ma, in assenza di versioni ufficiali, ogni ipotesi è un azzardo.
Il bollettino dello Ypg riporta i nomi dei genitori, Vittoria e Pietro, e specifica solo che è stato « uno sfortunato incidente mentre era in servizio » . Ricorda il " compagno Speranza" con queste parole: «Era uno dei cercatori di libertà. Come tutti i combattenti internazionali, era una persone innamorata dalla ricerca di libertà e democrazia in Rojava. La sua intera vita è stata dedicata alla lotta rivoluzionaria » . Un tributo a cui si associa Karim Franceschi, il primo degli italiani ad essersi unito ai curdi all’inizio del 2015, quando l’Isis aveva invaso Kobane. «Non conoscevo personalmente Asperti, credo sia arrivato in Siria da poco. È un partigiano caduto per la libertà, difendendo il sogno democratico del popolo curdo».
Giovanni Francesco Asperti ha tre fratelli. Suo padre Pietro, morto nel 2004, era un medico che aveva iniziato a far politica con la Gioventù italiana di azione cattolica alla fine degli anni Quaranta, poi aveva aderito al Pci. Una sua biografia che si ritrova in Rete dice che era «tra i fondatori della cooperativa " Rinascita", punto di forte aggregazione culturale, e nel 1970 era fra i più convinti sostenitori della nascita de " il Manifesto", che a Bergamo ha un ampio seguito».
Il sindaco di Ponteranica dove vive la famiglia, Alberto Nevola, ricorda così Giovanni: « Un ingegnere che lavorava sulle piattaforme petrolifere, era spesso via, ma quest’estate aveva annunciato che sarebbe partito per non tornare».
La notizia della morte di Asperti ha colpito la comunità dei volontari italiani rientrati dal Rojava, cinque dei quali sono stati oggetto recentemente di una contestata richiesta di sorveglianza speciale da parte della procura di Torino. Claudio Locatelli, bergamasco come Asperti: «È il primo martire italiano, il nostro primo martire. È ora che i comuni, a partire da quello di Bergamo, riconoscano il sacrificio dei propri cittadini che, volontariamente, sono andati a combattere contro il terrorismo internazionale ».

il manifesto 8.1.19
Ucraina, «insurrezione dei minatori»: sciopero della fame in quattro stabilimenti
I sindacati ucraini sono intervenuti più volte con collette per aiutare queste famiglie, ma anche alla solidarietà c’è un limite, perché questa situazione ormai si protrae dall’inizio della guerra civile
di Yurii Colombo


Da Ugledar è partita più di un mese fa quella che adesso i giornali ucraini chiamano «l’insurrezione dei minatori».
Ugledar (letteralmente «Dono del carbone») è un centro di 14mila anime nella zona del Donbass controllata dal governo ucraino. Il paese sorse nel 1964 quando nella zona vennero scoperti dei giacimenti di carbone. Da allora il carbone è stata la principale risorsa di sostentamento per la popolazione. Ancora oggi sono 7mila le persone che lavorano nelle due miniere di proprietà statale: la Yuzhnodonbasskaya e la Surgay.
Qui, a inizio dicembre, i minatori sono entrati in sciopero della fame a rotazione, per ottenere il pagamento dei salari arretrati che li costringono da mesi alla fame e ora, con l’arrivo dell’inverno, al freddo.
«Ogni giorno il carbone viene spedito con i tir, in soli 2 mesi sono state estratte 40 tonnellate di carbone solo in una delle due miniere, ma non ci sono soldi per i nostri stipendi» dichiara Sergey al giornale Strana. I lavoratori sono ricorsi allo sciopero della fame quando qualche mese fa, durante un meeting di protesta i servizi segreti ucraini erano piombati in città minacciando l’arresto dei dimostranti e condanne fino a 8 anni. «Nella nostra miniera è stato pagato l’ultimo stipendio il 17 dicembre, ma si trattava dell’arretrato di ottobre. Lo stipendio di mio marito è 6mila grivne al mese (circa 180 euro N.d.r). Abbiamo 3 figli e il nostro frigorifero è vuoto. Ci hanno tagliato anche il riscaldamento ora» racconta Anna.
I sindacati ucraini sono intervenuti più volte con collette per aiutare queste famiglie, ma anche alla solidarietà c’è un limite, perché questa situazione ormai si protrae dall’inizio della guerra civile
Sull’esempio di Ugledar in altre 4 miniere compresa quella di Yuzhnodonbasskaya sono iniziati gli scioperi della fame, sostiene il capo del sindacato dei minatori Mikhail Volynets.
Ma in tutte le 33 miniere del paese i minatori sono sul piede di guerra. «Sono in rivolta tutte le regioni carbonifere del paese da Lviv a Volyn, dal Donbass a Kryvbas utilizzando però metodi più tradizionali di lotta come il rifiuto di abbandonare i pozzi o i blocchi stradali» dichiara ancora Volynets.
La linea difensiva del governo è nota. I pozzi lavorano in perdita e i costi di gestione sono il doppio dei ricavi. E i collaboratori del presidente Poroshenko ricordano di aver stanziato in estate 50 milioni di euro a sostegno dell’industria carbonifera. Una miseria che ha permesso appena di tenere aperti i pozzi, mentre il governo incassava da Ue e Fmi 5 miliardi di euro. In realtà, secondo i sindacati, si vuole mandare in fallimento le miniere non per chiuderle definitivamente ma per imbastirci un ultimo sporco gioco sulle spalle dei minatori. L’oligarca Vitaly Kropachev sarebbe pronto ad acquistare per pochi spiccioli le miniere in fallimento dallo Stato, garantendosi al contempo che quest’ultimo poi le sussidierà con generosità giocando sui timori di un’esplosione sociale incontrollata.

Repubblica  8.1.19
L’Unione e il paradosso di Bucarest
di Massimo Riva


La guida dell’Unione in questo primo semestre 2019 spetta, in forza delle regole consolidate, all’attuale e controverso governo di Bucarest. Una formazione politica fortemente contestata in patria per vicende di corruzione e di clientelismo diffusi. Ma assai sospetta anche agli occhi del resto d’Europa per riforme del codice penale e del sistema giudiziario mirate ad aggirare quel principio della separazione dei poteri che è elemento costitutivo dello Stato di diritto.
L’agenda Ue dei prossimi sei mesi prevede scadenze di grande rilievo: entro marzo, nel bene o nel male, la conclusione del dossier Brexit, a fine maggio il voto per il rinnovo del Parlamento di Strasburgo, nel frattempo l’avanzamento delle procedure contro Polonia e Ungheria per violazione proprio dello Stato di diritto. Accade così che il coordinamento delle attività comunitarie sarà affidato alle mani di chi, sotto più di un aspetto, si sta rivelando insofferente verso le regole dell’Unione e non perde occasione per polemizzare contro le "ingerenze" di Bruxelles nei propri affari interni.
Perfino in un Circolo della vela o Golf Club qualche socio avrebbe qualcosa da ridire sul fatto che la presidenza, seppur temporanea, venga assunta da chi se ne infischia dello statuto e spara sul quartier generale. Nel caso di specie, nessun membro dell’Unione ha fiatato. Solo Jean-Claude Juncker, il presidente della Commissione, ha alzato un sopracciglio esprimendo il dubbio «che il governo di Bucarest non abbia ancora compreso appieno cosa significhi assumere la presidenza dei Paesi della Ue». Un modo un po’ ipocrita per dire e non dire, lasciando di fatto le cose come stanno ma precostituendosi l’alibi di aver segnalato l’esistenza del problema.
Una simile reticenza, al limite dell’omertà, non è però politicamente innocua. Essa certifica il pessimo stato di salute del progetto europeo in una fase nella quale le pulsioni sovraniste stanno diffondendosi anche in Paesi e in elettorati finora più refrattari ai richiami nazionalisti. Piaccia o no, infatti, la benevola negligenza attorno al problema della presidenza romena della Ue significa non voler vedere — e meno che mai affrontare — la minacciosa metamorfosi involutiva che l’Unione sta ormai subendo da qualche anno. In particolare, dopo il suo allargamento all’Est, sotto la pressione di forze politiche e sociali troppo a lungo (quando non da sempre) digiune di esperienza di vita democratica secondo i canoni dello Stato di diritto.
Significa, insomma, non avvertire che dietro la formula della "democrazia illiberale" si contrabbanda una sorta di diritto asiatico nel quale la gestione del potere si afferma e si perpetua in termini di dittatura della maggioranza.
Una prospettiva politica che sta già minacciosamente cominciando a raccogliere adepti fra i movimenti populisti anche nella parte occidentale del continente, Italia per prima.
Che la questione sia diplomaticamente spinosa e politicamente impegnativa è un fatto perché rimette in discussione l’impianto stesso dell’Unione attuale e riapre la ferita di un allargamento all’Est condotto con qualche eccesso di precipitazione. Ma è altrettanto un fatto certo che la costruzione unitaria può soltanto regredire ad area commerciale se non si scioglie ogni ambiguità sul nodo cruciale della democrazia interna di ogni singolo Paese membro. Perché l’Europa o sarà sovranazionale o non sarà.

il manifesto 8.1.19
Sessanta anni vissuti pericolosamente
Tutte le date della rivoluzione. Il giorno prima della tentata invasione mercenaria organizzata dalla Cia di Playa Girón del 16 aprile 1961, Fidel Castro annuncia: «La rivoluzione cubana è una rivoluzione socialista». 26 luglio ’53, attacco alla Moncada, dicembre ’56, sbarco del Granma, poi la guerriglia nella Sierra. Fino alla crisi dei missili dell’ottobre ’62 e al ’bloqueo’ economico degli Usa
di  Aldo Garzia


Cristoforo Colombo arriva a Cuba nel 1492. L’isola diventa indipendente dalla Spagna nel 1898, seppure sotto il protettorato degli Stati uniti. Nel 1961 la rivoluzione guidata da Fidel Castro del 1959 si dichiara «socialista», Washington replica dichiarando l’embargo economico che dura tuttora. Si tratta di tre date fondamentali nella storia cubana che subisce una svolta nel 1952, quando il generale Fulgencio Batista prende il potere nella notte del 10 marzo con un golpe.
Nel 1953, anno del centenario della nascita di José Martí, figura simbolo della lotta per l’indipendenza, si avvia il primo focolaio rivoluzionario contro Batista. Il 26 luglio un gruppo di giovani raccoltosi intorno all’avvocato Fidel Castro, proveniente dalle file del Partito ortodosso, dà l’assalto al quartiere militare Moncada di Santiago. Nella caserma si spara per un’ora. Dei 160 assaltanti, 70 vengono uccisi, 32 saranno processati, una quarantina riesce a tornare in incognito a L’Avana. Alla fine, Fidel e i dispersi sono arrestati. Castro prepara da solo la sua autodifesa in tribunale che diventa famosa con il titolo La storia mi assolverà.
Il 1 novembre 1954, Batista è eletto presidente di Cuba. Castro e i suoi compagni, grazie all’amnistia che segue le elezioni presidenziali, vengono liberati il 15 maggio 1955. I dirigenti del Movimento 26 luglio si stabiliscono in Messico. Al gruppo originario di nazionalità cubana si aggiungono Ernesto Guevara, giovane medico argentino, Gino Donè, un italiano che aveva combattuto nella resistenza antifascista, e il dominicano Ramón Mejía del Castillo. Castro acquista da una coppia di statunitensi lo yacht Granma per preparare il ritorno a Cuba (in teoria può trasportare solo 20 persone, finisce per imbarcarne 82).
A Santiago il Movimento 26 luglio si dà l’obiettivo di organizzare l’insurrezione il 30 novembre 1956, in contemporanea con il previsto arrivo del Granma. Però lo yacht sbaglia rotta, incontra mal tempo e arriva sulle coste dell’isola solo il 2 dicembre e molto distante dal luogo stabilito. I militanti del Movimento 26 luglio sono sorpresi dalle truppe di Batista nella località di Alegría de Pío. Sono arrivati a Cuba in 82, ma i sopravvissuti dello scontro a fuoco con l’esercito sono solo 12. Tra i superstiti, c’è anche l’italiano Doné, che però non riesce a ricongiungersi con Castro.
Sulle montagne della Sierra Maestra il manipolo guidato da Castro si riorganizza in cerca della rivincita che arriva alla fine del 1958, dopo due anni di guerriglia supportata dalla rete clandestina dei movimenti rivoluzionari nelle città. La guerriglia, dopo qualche tentennamento politico dovuto ai dissensi sui metodi di lotta, conquista l’appoggio del Partito socialista popolare che nel corso del 1957 aveva scartato l’ipotesi della lotta armata.
Anche il Direttorio rivoluzionario s’incorpora nella guerriglia. Dal 1952 al 1959 l’Avana si era trasformata nella capitale della prostituzione e del gioco d’azzardo per le scorribande dei cittadini statunitensi e di capi mafia come Lucky Luciano.
Tra il 2 e il 3 gennaio del 1959 i barbudos (chiamati così per le lunghe barbe che si erano fatti crescere sulla Sierra Maestra) fanno il loro ingresso a L’Avana. Prima arriva la colonna guidata da Ernesto Che Guevara, poi quella di Camilo Cienfuegos. Il dittatore Batista, nella notte di Capodanno, riesce a fuggire all’estero. Castro giunge nella capitale l’8 gennaio, dopo aver attraversato l’isola e tenuto un primo discorso programmatico sulla piazza centrale di Santiago.
Castro è nominato primo ministro il 16 febbraio del 1959. «È solo ora che inizia la rivoluzione», avverte. Un mese dopo, prima ancora che vengano affrontati temi economici e sociali, si istituisce con un’apposita legge l’Istituto per l’arte e l’industria cinematografica (Icaic). Ad aprile Castro viaggia negli Stati Uniti, dove è ricevuto con diffidenza da alcuni dirigenti del Dipartimento di Stato. A maggio, si vara la riforma agraria che abolisce i latifondi e ridistribuisce la terra espropriando le proprietà americane. Il 17 luglio, Castro si dimette per le resistenze che incontra la nuova riforma agraria. Poi va in televisione dove punta l’indice contro il presidente Manuel Urrutia, accusato di bloccare l’azione del governo.
Nel 1960 i primi obiettivi del nuovo governo di Castro sono la «campagna di alfabetizzazione» per estirpare l’analfabetismo dall’isola e la riforma urbana per ridurre gli affitti, ridistribuire il patrimonio edilizio e calmierare il prezzo dell’elettricità. Tra febbraio e luglio 1961, si stringono i primi rapporti commerciali con Mosca e Pechino. Ad agosto, Cuba viene espulsa dall’Organizzazione degli Stati americani (Osa). Castro, a settembre, torna a New York dove nell’Assemblea delle Nazioni Unite condanna la politica neocoloniale degli Stati Uniti. La politica delle nazionalizzazioni prosegue. Diventano di proprietà dello Stato cubano molte industrie statunitensi.
Fidel Castro parla al popolo cubano armato il giorno prima dell’invasione della Baia dei Porci
Fidel Castro parla al popolo cubano armato il giorno prima dell’invasione della Baia dei Porci
Nel 1961, il giorno prima della tentata invasione mercenaria di Playa Girón del 16 aprile (sconfitta in quarantott’ore), finanziata dagli Stati uniti alla cui presidenza c’è John Fitzgerald Kennedy, Fidel Castro fa un annuncio: «La rivoluzione cubana è una rivoluzione socialista. Gli Stati uniti non ci perdonano di averla fatta a pochi chilometri dal loro impero». La dichiarazione politica arriva a conclusione dei funerali delle vittime di un raid aereo contro gli aeroporti di L’Avana e Santiago. Da quel momento in poi si stringono ancora di più i rapporti con l’Urss e i paesi socialisti dell’Est. Gli Stati Uniti avviano il blocco economico contro l’isola che entra ufficialmente in vigore nel 1962. L’isola si proclama «territorio libero d’America».
Nell’ottobre 1962 si svolge la «crisi dei missili», o «crisi di ottobre». Washington, dopo aver decretato il blocco navale di Cuba, minaccia l’intervento armato contro l’isola, se i sovietici non sospendono l’installazione di missili nucleari sul territorio cubano. Nikita Krusciov, leader di Mosca, accetta il diktat. Il mondo assiste con il fiato sospeso al corso degli eventi. Nel 1965 si forma il Partito comunista cubano, all’interno del quale confluiscono i movimenti che avevano partecipato alla fase iniziale della rivoluzione. Il Che, che aveva ricoperto l’incarico di ministro dell’industria, non compare in quel congresso. Castro legge la lettera con cui Guevara annuncia di aver scelto di abbandonare Cuba per altre iniziative rivoluzionarie.
Nel 1967 in Bolivia è assassinato Ernesto Che Guevara che aveva guidato il tentativo guerrigliero d’insurrezione in quel paese con l’obiettivo di aprire nuovi fronti rivoluzionari in America latina per far uscire Cuba dall’isolamento e dalla dipendenza da Mosca. Dopo il suo assassinio, la rivoluzione cubana ripiega nelle sue frontiere e rinsalda i rapporti con i paesi del «socialismo reale». Fino a quel momento, L’Avana aveva tentato di proporsi come terzo polo della politica mondiale in riferimento ai movimenti di liberazione del Terzo mondo. Dopo che Castro appoggia inaspettatamente l’invasione sovietica della Cecoslovacchia nel 1968, nel 1970 fallisce la campagna per la raccolta di 10 milioni di tonnellate di canna da zucchero che avrebbe dovuto far decollare l’economia cubana. I rapporti economici tra Mosca e L’Avana diventano ancora più stringenti (il primo viaggio di Fidel in Urss è del 1963). In America latina, intanto, vengono stroncati uno dopo l’altro tutti i movimenti di guerriglia e pure il governo democratico di Salvador Allende in Cile.
Il 1989 è un’altra data storica per Cuba. La caduta del Muro di Berlino e la dissoluzione dei paesi del «socialismo reale» provocano la solitudine dell’isola nello scacchiere mondiale. Negli anni Novanta e Duemila, Cuba cerca di reinserirsi nella nuova realtà internazionale senza rinunciare alla peculiarità della sua storia. Gli Stati uniti, prima con la Legge Torricelli (1992) e poi con la Legge Helms-Burton (1995), stringono ancora di più il cappio del blocco economico. L’assemblea delle Nazioni Unite condanna ripetutamente la politica di Washington. Le risoluzioni non hanno tuttavia effetti pratici. Il viaggio di Barack Obama a L’Avana nel 2016 fa ben sperare, la presidenza di Donald Trump riporta invece indietro l’orologio.
Cuba nel frattempo è ancora lì che resiste, dopo sessant’anni dal 1959 e dopo trent’anni dall’eclissi del «socialismo reale». La sua storia recente assomiglia a un cruciverba, con molte pagine gloriose e altre grigie o discutibili.

il manifesto 8.1.19
Freccero e Rai2 alla prova “governativa”
di Giandomenico Crapis


A leggere i titoli di Repubblica che parla di «fatwa» o «epurazione» a proposito delle scelte di Carlo Freccero per il nuovo palinsesto di Rai2 (non lo fanno Stampa e Corriere), verrebbe da chiedersi se sia più demente o più ridicolo tutto questo.
Poi propendi per la seconda perché francamente una testata come quella fondata da Scalfari si fa fatica a vederla completamente obnubilata dalla furia dello scontro. Scrivere che i due comici Paolo e Luca, più Mia Ceran, vengono «eliminati dai palinsesti» perché «pagano la satira sul ministro Toninelli», che il ritorno di Luttazzi è «un raffinato scambio sul ponte» che fa tirare un sospiro di sollievo al ministro, conoscendo la storia e l’indipendenza intellettuale di Freccero, nonché la verve ingestibile di Luttazzi, ci sembra un vulnus all’intelligenza prima che un pensiero viziato dalla, per altri versi sacrosanta, polemica giornalistica. Comporre titoli come «ecco la Rai sovranista (sic!) di Freccero», solo perché quest’ultimo ha espresso la volontà di sostituire Ncis con prodotto italiano e senza dire che lo stesso ha opzionato The good doctor, lascia lo spazio al sospetto della forzatura lessicale, ad effetto ma poco utile ad informare sui fatti.
Seguire i Romano, o peggio gli Anzaldi sul terreno dell’invettiva per la libera satira violata, contro la nuova Rai che censura (e pensare che Anzaldi censurava l’imitazione della Boschi!), quando da un lato i due bravi comici, peraltro molto presenti sulle reti pubbliche, continuano le loro performances a Quelli che il calcio, e dall’altro il ritorno di Luttazzi, mai tenero con Grillo, è certo che non lascerà indisturbato il potere attuale, significa perdere la misura degli eventi. Le scelte del nuovo direttore di Raidue sono magari opinabili, ma non si può dire che non siano la conseguenza di un piano editoriale rinnovato e di una nuova idea della rete.
Lo ha spiegato bene lo stesso Freccero, lui che di Raidue è stato osannato direttore dalla fine degli anni ’90 fino al 2002: al posto di Quelli che dopo il Tg c’è bisogno di un talk politico perché «il servizio pubblico in questi anni si è svuotato dell’informazione di approfondimento a favore di Mediaset e La7. La Rai ha un punto debole: l’approfondimento delle notizie del giorno. È una lacuna che deve essere colmata subito». Un ragionamento che risponde peraltro ad una critica mille volte sollevata verso l’azienda da chi si occupa di tv. Ma il programma aveva, dicono, un’audience in crescita: a guardarci meglio nelle ultime tre settimane (ha chiuso il 30 novembre e non adesso, come si è scritto) i suoi ascolti hanno oscillato tra il 4 e il 6% di share, mentre negli ultimi sette giorni sono stati spesso sotto il 5 e il programma che l’ha temporaneamente sostituito, Lol :), ha raccolto comunque tra il 4 e il 5%.
Non ci piace la Rai gialloverde, lo abbiamo scritto su questo giornale più volte, ma quella di Freccero è forse una delle pochissime, forse l’unica, scelta di livello fatta dal nuovo potere in tema di televisione. Una scelta che non assolve i nuovi governanti dalle colpe accumulate nel frattempo sul tema dell’informazione. Ma criticare con gli argomenti usati dal quotidiano diretto da Calabresi ( gli stessi de il Giornale) non ci pare né serio né utile.
Ps: sabato sera lo speciale voluto dal nuovo direttore di Raidue su Celentano ha fatto il botto, con quasi il 15% di share.

La Stampa 8.11.18
Un programma sui siti sovranisti
Rivoluzione di Freccero e Foa
di Jacopo Iacoboni


La Rai di Marcello Foa i fuochi d’artificio di Capodanno li ha sparati il 3 gennaio. Carlo Freccero, nuovo direttore di rete, teneva una conferenza stampa sulla nuova Rai 2 in cui, assieme ad alcune intuizioni - tipo la promessa, si vedrà se realizzabile, di riportare Daniele Luttazzi in Rai - ha annunciato un programma abbastanza indicativo del mood tele-sovranista del governo giallonero: «L’ottavo blog».
Se il motto di Rt, la tv del Cremlino, è «question more», metti tutto in dubbio, premessa per rivedere - diciamo così - il concetto di verità nel giornalismo, la Rai 2 di Freccero-Foa propone un programma giornalistico che, parole di Freccero, sarà «una rassegna dell’informazione che non deve essere divulgata. Lo sapete benissimo, ci sono dei giornali che ritengono queste notizie sempre complottiste, ed è sbagliata, questa cosa». Insomma, ha spiegato, un programma «sull’attualità secondo Internet, Internet che diventa mainstream». Lo sdoganamento del complottismo.
Freccero ha citato alcuni blog e siti (L’intellettuale dissidente, Lantidiplomatico, Il nodo gordiano), alcuni intellettuali (Enzo Pennetta, Federico Dezzani), nello stile dell’informazione «alternativa» che piace anche a Foa. E che va brevemente illustrata. L’antidiplomatico è il sito non ufficiale che però dà molta della linea geopolitica grillina. I lettori della «Stampa» lo conoscono da anni: filo Putin, filo Assad, fortemente anti-europeo, e anti-israeliano. Fu registrato a nome di Alessandro Bianchi, collaboratore di Alessandro Di Battista. Il sito ebbe per un periodo tra i collaboratori Achille Lollo, ex militante di Potere Operaio condannato per il rogo di Primavalle (fu incendiata la casa di Mattei, morirono un bambino di 10 e un ragazzo di 22, figli del segretario della sezione missina di quel quartiere romano). Il nome di Lollo scomparve dopo un articolo della «Stampa» che raccontava la cosa. L’antidiplomatico è molto dentro la galassia social pro M5S. Ovviamente adora i gilet gialli.
Molto interessanti anche gli altri due siti citati da Freccero. «L’intellettuale dissidente» si presenta così: «Contro il monopolio dell’informazione di massa e la finta alternanza dei punti di vista», «luogo in cui fissare il messaggio antagonista». Le citazioni della Rivoluzione Conservatrice tedesca si sprecano (Ernst Jünger su tutte), più vario rossobrunismo e molto sovranismo. Il primo titolo ieri in home page era: «Sovranità o barbarie». Il direttore e fondatore è Sebastiano Caputo, che ha in curriculum reportage dal Medio Oriente e dal Donbass (il territorio ucraino occupato dai russi), e propone in home una bella intervista a Steve Bannon, titolata: «Dove va il populismo». Il 24 settembre Caputo scrive: «Di passaggio a Roma sono stato uno tra i primi giornalisti italiani ricevuti nella terrazza della sua stanza d’albergo». Dalle terrazze romane, Bannon, riferisce Caputo, racconta che il disegno è fronteggiare Cina, Iran e Turchia, e per far ciò c’è «la necessità di riportare la Russia di Putin nel blocco occidentale», e occorre «depotenziare l’Unione europea». Tutto molto eurasiano e rossobruno.
«Il nodo di Gordio» è una rivista online e think tank, che pubblica interviste a Michael Ledeen e Luttwak, parla bene di Trump e della Russia, male di Macron. Il direttore è Daniele Lazzeri. Suoi articoli su gasdotti e oleodotti sono apparsi, informa la sua biografia sul sito, in Francia e «in Russia, Azerbaijan, Turchia e Kazakhstan». Lazzeri fa parte della cerchia di Savona su euro e Ue: a fine settembre scrisse su Facebok (mai smentito), e Il Nodo di Gordio lo riportò: «Questa mattina mi ha scritto il ministro Savona: “Senza una forte volontà politica non si sarebbe potuto fare nulla. Abbiamo lanciato il guanto di sfida alla vecchia Europa, ora dobbiamo vincere la guerra, perché guerra sarà. Grazie e buon lavoro. Paolo”. Grande Professore!». Siamo ansiosi di vedere questa trasmissione tv, magari già durante la campagna elettorale verso le Europee.

La Stampa 8.1.19
I due volti di Matera che diventa Capitale:
la cultura viaggia tra le opere incompiute
di Emanuela Minucci


«Guardi i Sassi: sembra che qualcuno abbia capovolto la palla di vetro facendo cadere sul presepe la neve». Trova il tempo di fare il romantico Antonio, uno dei ragazzi che con l’Ape Car cabriolet porta su e giù per la vecchia Matera i turisti che arrivano da mezzo mondo per un selfie. Si scivola sul ghiaccio, di fronte a quel paesaggio che nel 1950 - e ora pare solo polverosa leggenda - De Gasperi definì «vergogna nazionale». Quelle grotte dimenticate da un Cristo che si fermava a Eboli sono diventate boutique e hotel da 400 euro a notte, con il vezzo della luce affidata alle candele e della brocca d’acqua, rigorosamente senza bollicine, sul comodino.
Nell’ex convento Santa Lucia, aulica sede della Fondazione Matera 2019, le facce dei 70 dipendenti appaiono concitate ma sorridenti. È qui la festa, adesso. Mancano pochi giorni al taglio del nastro, sotto gli occhi del presidente Mattarella e del mondo intero, di «Matera capitale europea della Cultura».
Una sfida scandita da 2 mila eventi. I lucani se li godranno con un passaporto che dura 365 giorni al prezzo di 12 euro, tutti gli altri ne pagheranno 19: finora ne sono stati venduti 7000 e aumentano al ritmo di 500 al giorno. Dopo la crescita record del 176% dal 2010, l’obiettivo è arrivare al milione di turisti.
Sul territorio sono piovuti 200 milioni di euro. Ma un mix di conflitti politici (cinque tra governatori e sindaci di diverso colore cambiati in pochi anni) e di lentezza burocratica ha allungato il catalogo delle opere incompiute. Parcheggi fantasma, raddoppio dei binari della Bari-Matera su cui transitano i treni locali (in assenza delle ferrovie statali), infiniti lavori in corso sulla statale 96 che collega (per lunghi tratti a una corsia) con la Puglia e navette dall’aeroporto di Bari non ancora potenziate da 4 a 10 lasciano la sensazione di una magia lontana, se non isolata.
Per non dire della piazza della stazione progettata da Stefano Boeri, davanti al Comune. Se va bene, sarà pronta a maggio. «Una vergogna», aveva tuonato la ministra per il Sud Barbara Lezzi. Ieri, indossando il caschetto per la visita ai cantieri, ha moderato i toni: «Dobbiamo fare ancora i conti con ritardi e progetti mai realizzati. Era in programma una conferenza dei servizi che è stata rinviata a metà febbraio chiederò al Comune di anticiparla».
Il direttore artistico Paolo Verri allarga le braccia: «Capisco la preoccupazione ma noi abbiamo organizzato il palinsesto degli eventi culturali che è da urlo. E se poi devo dirla tutta, noi non vogliamo un over-tourism, non possiamo diventare Venezia e tanto meno Disneyland». Il sindaco Raffaello De Ruggieri ha sempre tenuto il punto: è più importante rafforzare l’immagine di Matera a suon di contenuti ed eccellenze culturali «anziché finire una rotonda o angosciarsi per qualche cantiere ancora in progress». Perciò il 31 gennaio il Comune parteciperà all’asta, offrendo 2,5 milioni, per comprare quel Teatro Duni, unico in città, sprangato da anni per un contenzioso con la proprietà. Più che un palcoscenico in disuso, il simbolo di una disfatta.
“Siamo agli sgoccioli”
A Capodanno ha radunato in piazza 22 mila persone, più di un terzo della sua popolazione. E vuole trasformare i vicinati contadini in vicinati digitali. «Vicino ai Sassi - dice il sindaco - creeremo un hub in cui si insedieranno 14 imprese creative nel campo delle nuove tecnologie». Matera è così: primordiale e supersonica. Ma è sulle cose semplici che torna immobile come la pietra in cui è scolpita. Anche la meravigliosa Cava del Sole che ospiterà la cerimonia inaugurale, il grembo di tufo ormai esausto da cui sono stati ricavati tutti i Sassi, è rimasta orfana di un parcheggio. Al suo posto è spuntato un distributore di gas.
Gli operai lavorano 10 ore al giorno «perché siamo agli sgoccioli come la neve che si scioglie dai tetti». D’altronde i materani sono un popolo spaccato in due, come il Sasso Caveoso e quello Barisano. A spiegarlo è Giuseppe Guarino, ex professionista del mobile imbottito mandato in crisi dal ciclone Ikea, che ora arreda bed & breakfast leziosi con l’insegna in ferro arrugginito ad arte: «Da un lato propulsivi come il lievito madre, dall’altro autolesionisti come quei tre tagli che stanno sopra alla stessa forma».
Le quattro librerie rimaste arrancano anche nella capitale della cultura. «D’altronde prova a comprare su Amazon un cornetto appena sfornato» scherza Massimo Cifarelli, giovane presidente dei panificatori. «Siamo diventati un suk, con bed and breakfast e focaccerie ovunque. Il 1° gennaio 2020 non resterà niente», sospira Nicola Buccico, avvocato ed ex sindaco che lanciò la candidatura a capitale della cultura. In tre anni le strutture ricettive extra-alberghiere sono passate in tre anni da 157 a 556.
Brian Eno e Ali Sohna
A consigliare il viaggio non solo il New York Times e El Pais ma anche Arab News, che mettono in fila gli eventi di Matera 2019: dal concerto di Brian Eno a cinquant’anni dalla conquista della Luna al Dante recitato dai lucani diventati artisti. Tra loro Ali Sohna, il profugo ghanese di vent’anni che vide morire il fratello fra le onde. La compagnia teatrale Iac non solo gli ha fatto tornare la voce persa per lo choc, ma lo ha trasformato in attore. Ora sorride e parla come fosse il sindaco: «A Matera ci sentiamo al centro del mondo. Non solo perché una grotta nei Sassi costa come un attico a New York, ma perché è la cultura che fa uscire dalla periferia delle cose».

Corriere 8.1.19
Il benemerito re di Napoli
Alfonso d’Aragona trasformò la città in una vera capitale del Rinascimento
Una biografia di Giuseppe Caridi (Salerno) dedicata al sovrano che, nel XV secolo, diede grande lustro alla cultura partenopea. Oltre ad avviare una serie di importanti lavori pubblici, mostrò sempre una straordinaria generosità
di Paolo Mieli


Nel giro di vent’anni, a metà del Quattrocento, Napoli è diventata una delle principali città europee del Rinascimento. Cosa lo rese possibile? È questo il nodo centrale che cerca di sciogliere il libro di Giuseppe Caridi, Alfonso il Magnanimo, che sta per essere pubblicato da Salerno editrice. L’Alfonso di cui al titolo del libro era nato nel 1396 e nel 1416 era subentrato al padre Ferdinando I come titolare della corona d’Aragona, costituita dagli Stati iberici di Aragona, Catalogna, Valenza, Maiorca e dalle isole italiane di Sicilia e Sardegna. Nel 1421 accadde qualcosa che gli avrebbe cambiato la vita: la regina di Napoli Giovanna II, che non aveva figli, lo chiamò nella sua città a che le desse man forte contro Luigi III d’Angiò. In cambio gli promise che lo avrebbe nominato erede del suo regno. Anzi, lo adottò all’istante come figlio, rendendo così implicita la successione.
Attratto dalla prospettiva di allargare il regno d’Aragona con una città importante come già era all’epoca Napoli, Alfonso accettò di trasferirsi alla corte della madre adottiva. La quale però — insofferente ai modi con i quali il sovrano aragonese aveva iniziato a svolgere il suo ruolo — due anni dopo revocò l’adozione. Lì per lì Alfonso fu ben lieto di rientrare in patria a sedare i conflitti insorti tra i suoi fratelli e Giovanni II, re di Castiglia. Ma non si diede pace del ripensamento della regina Giovanna e alla sua morte tornò nel 1435 in terra italica per far valere i propri diritti in una guerra per la successione al trono di Napoli. Guerra nel corso della quale si scontrò con Renato d’Angiò. Vinse, nel 1442, e da quel momento si stabilì definitivamente a Napoli senza tornare mai più nella terra natia.
Napoli, scrive Giuseppe Caridi, divenne di fatto la capitale dei domini di Alfonso e, grazie al mecenatismo in virtù del quale accolse letterati, artisti e tecnici, la sua corte divenne «un importante centro del Rinascimento italiano». In più Alfonso adottò in campo edilizio ed economico provvedimenti che, insieme con la promozione della cultura, proiettarono potentemente la sua nuova «capitale» verso la modernità.
Caridi si muove nel solco tracciato da Giuseppe Galasso — Il Regno di Napoli. Il Mezzogiorno angioino e aragonese (1266-1494) edito da Utet — e Mario Del Treppo — Il Regno aragonese nella Storia del Mezzogiorno a cura di Giuseppe Galasso e Rosario Romeo per le Edizioni del Sole — che già avevano messo in grande risalto l’importanza del primo re aragonese di Napoli. Alfonso viene presentato, secondo la descrizione che ne diede Enea Silvio Piccolomini (futuro Papa Pio II), come un uomo «di corporatura fragile, pallido in volto, di aspetto gioviale, naso aquilino occhi vispi, capelli neri che tuttavia cominciavano a incanutirsi e tesi verso le orecchie, di media statura, molto sobrio nei pasti e nelle bevande, che non beveva vino se non mescolato con molta acqua»
Nel gennaio 1444, poco tempo dopo aver piegato i suoi competitori, nemici e rivali (in una lunga serie di battaglie e cambiamenti di alleanze che il libro ricostruisce con meticolosità), Alfonso, ormai insediatosi stabilmente sul trono di Napoli, mentre si trovava a Pozzuoli, fu colpito da una grave malattia che lo ridusse in fin di vita. Le sue condizioni peggiorarono a tal punto che ai primi di aprile si diffuse la notizia della sua morte. Immediatamente a Napoli scoppiò una rivolta, i sudditi catalani e aragonesi ebbero l’occasione di toccare con mano l’odio sviluppatosi nei loro confronti e dovettero cercar riparo nei luoghi più disparati. Qualcosa di assai simile accadde oltretutto a molti esponenti della nobiltà partenopea, solo perché erano stati leali con il sovrano aragonese. Poi il re all’improvviso guarì, ma «quanto era accaduto nel periodo della sua infermità fu per lui un forte campanello d’allarme» e gli fece conoscere l’«incostanza del baronaggio» nonché la scarsa affidabilità dei sudditi locali.
Alfonso fece di tutto per dissimulare il suo malumore facendo buon viso a cattivo gioco, ma per rafforzarsi decise di far sposare al figlio (illegittimo) Ferrante — da lui designato a proprio erede sul trono di Napoli — la figlia del principe di Taranto Giovanni Antonio Orsini, che esercitava un forte ascendente sull’intera classe nobiliare dell’Italia meridionale. Ancora un anno per risolvere alcune importantissime questioni militari e stabilì che nel 1445, al massimo nel 1446, sarebbe tornato in Spagna.
Invece non rimise piede in terra iberica. Secondo i cronisti dell’epoca, perché si innamorò di Lucrezia d’Alagno, figlia di un nobile napoletano. Alfonso la conobbe che aveva già superato i cinquant’anni, non volle mai distaccarsene anche se Caridi sembra propendere per la tesi che tra i due si fosse stabilito solo un rapporto platonico. È un fatto però che Lucrezia ebbe un colloquio con il Papa Callisto III per indurlo a concedere l’annullamento del matrimonio di Alfonso (e fu lo stesso pontefice a rivelare successivamente che «quel che essa si pensava ottenere non era possibile, perché egli non voleva andare all’inferno con lei»). In ogni caso, secondo Caridi, «l’infatuazione per la giovane napoletana influì certamente sul mancato rientro in Spagna di Alfonso, che, avendo deciso di risiedervi, fece di Napoli l’effettiva capitale della corona d’Aragona».
Già prima di incontrare Lucrezia, peraltro, Alfonso aveva dedicato alla città «particolare attenzione sotto il profilo urbanistico con opere di riqualificazione che andarono dalla selciatura, livellamento e ampliamento di strade, alla costruzione, restauro e abbellimento di edifici pubblici, dalla sistemazione di acquedotti e reti fognarie alla ristrutturazione dei moli del porto, della città muraria e degli stessi castelli notevolmente danneggiati nel corso degli assedi subiti durante la guerra di successione al trono». In particolare Castel Nuovo fu in quell’occasione ricostruito pressoché interamente e lì il sovrano fissò la sua principale dimora.
La consacrazione della Napoli aragonese avvenne nel 1452 con la visita in città di Federico III d’Asburgo che, subito dopo l’incoronazione, con quel viaggio sancì «il riconoscimento al massimo livello del ruolo di primo piano acquisito da Napoli nel consesso delle potenze cristiane». La visita si protrasse per dieci giorni (avrebbero dovuto essere otto). Alfonso ordinò ai negozianti della città di consegnare alle persone al seguito dell’imperatore qualsiasi mercanzia da loro richiesta. Al pagamento avrebbe poi provveduto la corona, senza alcun aggravio per i sudditi. Venuto a conoscenza di questa disposizione, Federico d’Asburgo raccomandò ad alcuni suoi agenti di evitare che si abusasse della liberalità del sovrano aragonese e che si preoccupassero perciò di «proibire a chi aveva già ricevuto un regalo di andare a chiederne un altro».
Ci fu un solo «incidente» riconducibile a questo eccesso di prodigalità. L’imperatore Federico — come Alfonso — era solito bere pochissimo vino, mai fuori dai pasti e mescolato all’acqua. A sua moglie Eleonora, che «non aveva mai assaggiato vino nella casa paterna» ed era di conseguenza astemia, i medici avevano ordinato di berne per poter avere dei figli. Venuta a conoscenza di tale prescrizione, la corte napoletana fece di tutto per somministrargliene in abbondanza. Dovette intervenire l’imperatore per ordinare alla consorte di non berne, dicendo nei modi più espliciti che avrebbe preferito avere una moglie «sterile anziché ubriaca». Vino a parte, «con l’ostentazione della larghezza di risorse finanziarie di cui disponeva, manifestata mediante la sontuosità dei festeggiamenti», Alfonso raggiunse lo scopo di destare «grande ammirazione nella suprema autorità politica della cristianità». L’eco della prodigalità del sovrano di Napoli (avrebbe speso, secondo Vespasiano da Bisticci, la bella somma di 150 mila ducati) si diffuse rapidamente in tutta Europa «con riflessi estremamente positivi per il suo prestigio, che era l’obiettivo al quale in definitiva il re tendeva e di cui aveva voluto si fossero fatti interpreti gli uomini di cultura attratti a corte dalla sua magnanimità». Ed è da questo particolare che viene il suo soprannome di «Magnanimo».
Attrasse alla sua corte quanti più intellettuali riuscì (per primi Lorenzo Valla, autore della celeberrima confutazione della «donazione costantiniana», Antonio Beccadelli detto il Panormita, poi Bartolomeo Facio, Giovanni Gioviano Pontano, Candido Decembrio, Gregorio da Tiferno, Lorenzo Buonincontri, Giorgio da Trebisonda, Teodoro Gaza, Costantino Lascaris, Poggio Bracciolini, Giannozzo Manetti). A tutti diede compensi più alti di quelli che loro stessi chiedevano. Del resto fin dal suo insediamento a Gaeta, Alfonso aveva provveduto a fornire la corte di una «cospicua biblioteca». Al termine del saccheggio delle città conquistate, compensava munificamente qualsiasi soldato gli portasse un libro. E aveva fatto sapere agli altri sovrani di gradire il dono di testi preziosi. Cosimo de’ Medici gli regalò un manoscritto di Seneca che si diceva fosse appartenuto a Petrarca e lui lo accolse con entusiasmo vincendo le perplessità dei suoi consiglieri, i quali sospettavano che il signore fiorentino ne avesse avvelenato i fogli. A lui va ricondotta la fondazione dell’Accademia promossa dal Panormita e che poi prese nome da Pontano.
Ebbe solo benemerenze il re aragonese? No. Caridi nota come Pontano avesse già all’epoca evidenziato qualche «ombra» su Alfonso. Ad esempio il fatto che «la prodigalità del sovrano, pur diffusamente da lui stesso elogiata, lo avesse indotto a contrarre ingenti debiti». Dopodiché «in preda al dispiacere e alla collera per le difficoltà ad onorarli, il re di Napoli cercò di rifarsi a spese degli agenti del fisco», spogliati dei loro beni con l’ingiusta accusa «di non aver compito in modo efficace il loro dovere». Una «condotta arbitraria — secondo Pontano — tipica dei sovrani il cui governo degenera in tirannide».
In ogni caso, scrive Caridi, grazie alla presenza e alle iniziative dei numerosi intellettuali e tecnici che lì operarono, la corte napoletana di Alfonso costituì uno dei principali centri del Rinascimento. Al di là dell’uso di carattere propagandistico (per il consolidamento della nuova dinastia da lui insediata) al sovrano aragonese «va riconosciuto il merito di aver notevolmente contribuito alla promozione della cultura in una parte dell’Italia fino ad allora avulsa dal dinamismo intellettuale già in auge in altre aree della penisola».
È un fatto che «a contatto con gli intellettuali della corte napoletana numerosi connazionali spagnoli di Alfonso provenienti dalla Sicilia e dai regni iberici, si avvicinarono all’umanesimo italiano». Nella qual cosa — ha osservato Ernesto Pontieri nel libro Alfonso il Magnanimo re di Napoli (1435-1458) (Edizioni Scientifiche Italiane) — «il re correggeva se stesso perché ciò che di medievale egli conservava, in comune con i suoi connazionali, andò via via affievolendosi al contatto della civiltà italiana, assai più colta e moderna». Quello del re aragonese fu a suo modo un salto. In effetti, scrive Caridi, in campo culturale, edilizio e anche sotto il profilo economico «mostrò una lungimiranza che sembrava allontanarlo dalla tradizione medievale e farlo tendere alla modernità».
Riflessi positivi di carattere culturale si ebbero anche nei regni iberici del Magnanimo, dati gli stretti contatti mantenuti con essi da Napoli, dove erano del resto affluiti numerosi sudditi di quegli Stati che con il decisivo sostegno del sovrano si inserirono nelle file della feudalità e ricoprirono cariche di rilievo nell’amministrazione pubblica. In seguito la corte alfonsina fu senza dubbio il canale attraverso cui «le prime correnti significative del Rinascimento italiano trovarono la via di penetrazione verso la Spagna» Anche se va considerato che nella stessa Spagna il diffondersi della moda e dello stile italiano non cancellò mai l’influenza castigliana. Ma Napoli divenne da quel momento una grande capitale europea. E fu merito di Alfonso.

Corriere 8.1.19
Pezzi di ricambio umani sul mercato, il traffico che inquieta
Un libro a due voci di Franca Porciani e Patrizia Borsellino (Franco Angeli) denuncia la crescita del commercio illegale di organi a scopo di trapianto
di Paola D’Amico


«La verità è tanto più difficile da sentire quanto più a lungo la si è taciuta». È tratta dal Diario di Anne Frank l’epigrafe sul frontespizio del saggio Vite a perdere (Franco Angeli) di Franca Porciani, medico e giornalista, e Patrizia Borsellino, professore di Filosofia del diritto all’Università Milano-Bicocca.
Ed è la sintesi perfetta di un’inchiesta giornalistica che solleva ogni velo sul dramma del traffico di organi. Perché non sono mistificazioni o fake news quei racconti che, negli anni, hanno fatto notizia per un giorno per poi ripiombare sotto una pesante coltre di silenzio. Un’eco inquietante che ha accompagnato di fatto il meraviglioso racconto delle conquiste chirurgiche sin da quando, negli anni Settanta, l’arrivo sul mercato di un farmaco di origine fungina che impediva il rigetto dell’organo (la ciclosporina) permise il decollo dei trapianti. E non solo numericamente, perché quel farmaco aprì infatti scenari che fino ad allora erano stati immaginati solo nei libri di fantascienza. Si pensi al trapianto di mano o, traguardo questo ancor più straordinario, del viso.
Ma, come ben documenta Franca Porciani, i successi nei trapianti rimasero un bel capitolo di storia confinato nel mondo occidentale progredito. E fu chiaro da subito che per una banalissima legge di mercato — la domanda di organi superava e ancora supera ampiamente l’offerta di quelli disponibili — avrebbe potuto aprirsi lo scenario di una compravendita illegale, dove il ricco si compra il pezzo di ricambio da chi non ha altro da vendere che se stesso.
Un mercato che, come si legge nel libro di Porciani e Borsellino, nel corso degli anni Duemila è «diventato maturo». Un rene indiano all’epoca valeva mille dollari, uno sudafricano o filippino poco di più. Un mercato che va avanti, nonostante i governi dei Paesi in via di sviluppo tentino di arginarlo, con leggi e divieti. Eppure le cliniche clandestine continuano a fiorire come funghi e ci sono Stati che, come la Cina, fanno da battistrada a questo tipo di pratiche, aprendo nuovi scenari e giganteschi problemi etici del tutto inediti. Nel 2005 il gigante asiatico dispone infatti (dietro consenso…) l’utilizzo degli organi dei condannati a morte.
La disponibilità degli organi era già del resto da tempo un affare di Stato per l’Iran degli ayatollah che, dieci anni prima, aveva inaugurato una strategia — finora imitata (per fortuna) soltanto da Singapore —, aveva cioè varato un rimborso per i donatori di rene.
Infine, il capitolo più inquietante, legato a doppio filo a quello del traffico di uomini, donne e bambini che si svolge da anni attraverso il Mar Mediterraneo. Ecco le sevizie e gli orrori di migranti che vengono mutilati del proprio rene, quando non addirittura uccisi e abbandonati nel deserto del Sahara. Dal quale poi partono aerei diretti con i «carichi umani» alle cliniche del Cairo.
Insomma, uno scenario per nulla rassicurante. Il trapianto di organi, come scrive Patrizia Borsellino, non è solamente un «osservatorio privilegiato delle straordinarie potenzialità della medicina… ma anche dei risvolti biomedici ed etici».

Repubblica 8.1.19
Cari compagni il capitalismo è fatto di byte
di Maurizio Ferraris


Più che nelle merci, più che nei soldi o nella finanza il vero valore sta oggi nei documenti che girano in rete. E questo perché ogni nostro movimento lascia tracce sul web che arricchiscono chi saprà sfruttarle
Quando ero bambino, il ritornello era l’annuncio del prossimo crollo del Capitalismo sotto il peso delle sue contraddizioni, e dell’imminente avvento del Comunismo. Era messianico e un po’ noioso, e oltretutto autorizzava governi di destra che ci avrebbero salvati dai bolscevichi.
Dopo il 1989 il ritornello è cambiato: il Capitalismo ha vinto e inanella un successo dopo l’altro (posizione frustrante, perché suppone un Capitale intelligentissimo e un Comunismo stupidissimo).
La situazione era resa possibile, per paradossale che possa sembrare, da un errore filosofico: per deferenza rispetto a Hegel, Marx aveva visto nella contraddizione il motore della storia, dunque si aspettava che il Capitale sarebbe crollato sotto il peso delle sue contraddizioni lasciando spazio al Comunismo.
Gli amici del Capitale hanno avuto buon gioco a obiettare che quelle contraddizioni non ci sono state, ma non vedevano che il nuovo capitale realizzava il Comunismo (li si può scusare, visto che nemmeno gli amici del Comunismo sembrano aver notato questa circostanza).
Nel mondo sociale sta invece sorgendo un nuovo macro-oggetto, quasi un nuovo mondo, che potenzialmente conterrà tutti gli altri. Si tratta del capitale documediale, un nuovo capitale più ricco di quello finanziario, e che avrà un impatto senza precedenti sulla creazione del valore, sui rapporti sociali e sull’organizzazione della vita delle persone. Sebbene ancora oggi più di un essere umano su due non possieda un cellulare, è significativo osservare che il numero di dispositivi connessi è pari a 23 miliardi: più di tre volte la popolazione mondiale. Questa connessione, ogni giorno, produce un numero di oggetti socialmente rilevanti maggiore di quanto non ne producano tutte le fabbriche del mondo: una mole immane di atti, contatti, transazioni e tracce codificati in 2.5 quintilioni (2.5 x 1030) di byte. Questi documenti possono essere deboli, ossia registrazioni di fatti (il tale si trovava nel luogo tale all’ora tale: lo dice il suo telefonino), e forti, ossia registrazioni di atti: Tizio ha postato un commento su un social network, Caio ha comprato un biglietto, Sempronio ha navigato servendosi di un motore di ricerca. Documenti deboli e documenti forti costituiscono il vero capitale del XXI secolo, molto più potente del capitale industriale, che si limita a produrre merci, ora in gran parte fabbricate da macchine, o del capitale finanziario, che ci dà conto solo di ciò che il denaro ci può dare, ossia non molto e comunque non tutto. Nel caso del capitale documediale si ha accesso a informazioni ampie, sicure, e in molti casi capaci di spingersi sino al dettaglio dell’individuo, che non riguardano solo la ricchezza (che ci dice l’essenza delle cose con la stessa approssimazione con cui il prezzo ci informa della qualità del prodotto) ma i comportamenti, gli interessi, le credenze e le speranze degli esseri umani.
Non stupisce allora che nel capitale documediale si assista a una transizione carica di conseguenze dalle merci ai documenti.
Questa trasformazione va in due direzioni. Da una parte, le merci vengono prodotte come documenti, ossia con modalità che, come nella stampa 3D, fanno vacillare la distinzione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale giacché l’interfaccia di cui si serve il lavoratore è la macchina universale, il computer. Ora, vale la pena di osservare che una delle caratteristiche infallibili della società comunista è per Marx il fatto che non ci sia più differenza tra lavoro intellettuale e lavoro manuale. E se era molto facile sostenere che chi lavorava a una catena di montaggio stava svolgendo un lavoro manuale, è molto più difficile sostenere che quello di chi produce con una stampante 3D è un lavoro manuale, a meno che non si consideri manuale anche il lavoro che sto facendo in questo preciso momento, ossia picchiare sui tasti.
Vien meno dunque (e verrà meno sempre più) una delle caratteristiche distinzioni del mondo borghese, quella tra colletti blu e colletti bianchi. Ma questa è una circostanza sociologicamente non troppo rilevante, visto che il numero di chi lavora con stampanti 3D sarà comunque irrisorio rispetto ai lavoratori alla catena di montaggio. Molto più interessante è invece un altro aspetto, ossia la circostanza per cui non solo le merci vengono prodotte con gli strumenti che tradizionalmente si adoperavano per produrre i documenti, ma – questo il punto fondamentale – le merci più pregiate diventano i documenti, che sono ben più importanti di quella merce tradizionalmente pregiatissima che è il denaro.
Come risultato: le merci tradizionali spesso sono offerte gratis o a prezzi bassissimi, purché in cambio chi compra (svolgendo in effetti il lavoro fondamentale, quello del consumo, che non può essere sostituito da agenti meccanici) lasci i suoi dati. Dati che valgono molto più del denaro perché ci parlano non di ciò che ha ma di ciò che è, delle sue credenze, delle sue debolezze, delle sue speranze.
Questa circostanza, più che una contraddizione all’interno del Capitale, che rinuncia all’accumulo di denaro per dar valore alla conoscenza delle persone, è in effetti la rivelazione sia della natura del denaro (che è essenzialmente uno strumento di informazione, nella fattispecie circa la nostra solvibilità) sia – cosa importantissima per il comunismo realizzato – la rivelazione delle merci. In che senso? Semplicemente, quello che per Marx costituiva l’arcano delle merci, il fatto che fossero un rapporto tra persone che si solidifica e nasconde in un oggetto, è ora svelato, visto che il documento è un rapporto tra persone. E oggi ogni nostro movimento, poiché ha luogo sul web, lascia tracce e produce documenti (dunque valore e ricchezza, per chi li sa usare).
Perciò, non c’è più alcun arcano: oggi è chiaro come il sole che l’archivio che familiarmente chiamiamo Web vale perché contiene dei documenti che sono infinitamente più ricchi della moneta perché tengono traccia di ogni atto dell’umanità, una Biblioteca di Babele che gli algoritmi trasformano in una fonte di predizione e di conoscenza del mondo sociale.
Di qui una conseguenza meritevole di riflessione.
Il neoliberismo ha sbagliato, ma il suo errore non è consistito nel considerare il capitale come imprescindibile (in effetti, lo è).
Ma nel pensare che il capitale sia il capitale finanziario, finalizzato al profitto, quando è molto più di questo, proprio come aveva sbagliato il marxismo a pensare che il capitale fosse produzione di merci e lavoro, quando è molto più di questo.
Il capitale è la forma essenziale della cultura umana, dunque della natura umana (non esiste una natura umana fuori della cultura), perché è la condizione di possibilità della tecnica e degli oggetti sociali: senza archivio, cioè senza capitale, non saremmo liberi dalla schiavitù del denaro, ma piuttosto (come nell’immagine della disgrazia secondo Omero) saremmo «senza famiglia, senza legge, senza focolare».
La rivoluzione documediale ha dunque reso potenzialmente marginale quel documento informativamente povero che è il denaro: il denaro, che rappresentava in modo incompleto l’archivio, è stato sostituito dall’archivio in quanto tale.
Il capitale documediale, così, si può rappresentare nella forma di una lavagna universale, in cui siano annotati tutti gli atti sociali in forma indelebile e accessibile alla intera umanità.
– 2. Continua
Si può avere accesso a informazioni ampie, sicure, e in molti casi capaci di spingersi sino al dettaglio dell’individuo, ai suoi interessi, alle sue credenze e speranze Le connessioni, ogni giorno, producono un numero di oggetti socialmente rilevanti maggiore di quanto non ne producano tutte le fabbriche del mondo


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