lunedì 7 gennaio 2019

La Stampa 7.1.19
Palestinese uccisa a pietrate, sotto accusa cinque minorenni ebrei
La famiglia: sapevano che erano stati gli abitanti degli insediamenti
di Giordano Stabile


I servizi interni israeliani, lo Shin Bet, hanno arrestato cinque minorenni ebrei, residenti in un insediamento in Cisgiordania, con l’accusa di aver ucciso a pietrate il 12 ottobre scorso Aisha Rabi, madre di otto figli. La donna era stata colpita alla testa mentre guidava la sua auto vicino a Nablus. Gli arresti, sabato, hanno suscitato un’ondata di proteste in Israele ma sono stati accolti con scetticismo fra i palestinesi. La famiglia di Aisha Rabi ha detto di non essere sorpresa: “Sapevamo fin dall’inizio che erano stati abitanti degli insediamenti”. La donna, 45 anni, aveva due figli maschi e sei figlie.
Il marito Yakub, che era con lei nell’auto quando è stata uccisa, ha confermato oggi di aver saputo “da amici” dell’arresto dei cinque minorenni: “Abbiamo sentito queste voci – commentato – ma non c’è nulla di ufficiale. In questo momento vogliano soltanto continuare con le nostre vite. Gli arresti arrivano troppo tardi, se si fosse trattato di arabi li avrebbero presi dopo un giorno o due”. In ogni caso, ha aggiunto, “sapevano che erano stati loro, non è il primo attacco di questo genere contro gli arabi di quella zona, gli arresti non mi restituiranno la mia vita”.
La famiglia Rabi vive nelle villaggio di Bidya in Cisgiordania, vicini alla cittadina di Netanya. Aisha era molto conosciuta e migliaia di persone hanno partecipato la funerale e la donna è stata dichiarata una “martire”. I cinque adolescenti sono accusati di “grave atto terroristico e omicidio”. I servizi interni guardano con preoccupazione l’emergere di quello che è stato definito “terrorismo ebraico” in Cisgiordania.

Repubblica 7.1.19
Coldcase
Dopo 100 anni tutta la verità sul delitto Luxemburg
di Tonia Mastrobuoni


Poco prima di mezzanotte del 15 gennaio 1919 un gruppo di Freikorps, di miliziani di destra al soldo del ministro della Difesa Gustav Noske (Spd), assalta l’auto che sta portando Rosa Luxemburg al carcere di Moabit. Un uomo salta sul predellino e le spara in testa. Il corpo della leader spartachista viene poi gettato in un canale. Mezz’ora prima Karl Liebknecht subisce un destino simile: viene fucilato alle spalle in un’imboscata. La versione ufficiale è che il capo dei rivoluzionari sia morto durante un tentativo di fuga; su Luxemburg si sparge la voce che sia stata linciata dalla folla.
Mentre ci si avvia al centenario di quell’atroce assassinio, la domanda che continua a impegnare gli storici è quella della responsabilità della Spd.
Che ci fosse l’ombra dei socialdemocratici e in particolare di Noske sulla duplice esecuzione, è noto. Lo ha ricordato persino di recente Andrea Nahles. Ma che, ansiosi di stroncare sul nascere la rivoluzione, i vertici della Spd fossero direttamente responsabili della doppia imboscata, sembra emergere da documenti inediti citati dalla Faz. Che gettano una luce inquietante anche sull’uomo che da lì a qualche settimana sarebbe diventato il presidente della neonata Repubblica di Weimar, Friedrich Ebert.
Poteva non sapere? Per la Faz ormai non ci sono dubbi: è stato un socialdemocratico a organizzare materialmente le due esecuzioni, il capitano dell’esercito guglielmino Waldemar Pabst. Molti anni dopo, nel 1961, Pabst viene registrato durante un incontro con ex commilitoni. L’articolo cita l’inedito discorso: «Con quella giusta punizione», cioè l’assassinio di Luxemburg e Liebknecht, «spezzammo la schiena alle persone» che sostenevano la rivoluzione socialista, racconta.
Aggiungendo di aver sentito di persona i comizi di Luxemburg: «Adolf Hitler non era neanche lontanamente così bravo. La gente era pazza di lei». L’ex militante Spd diventata rivoluzionaria e il suo compagno di strada andavano insomma eliminati. Nei giorni di Natale del 1918, Pabst e il ministro della Difesa della Spd Noske organizzano dunque la riconquista di Berlino con le milizie dei Freikorps. Quando catturano «i due alti traditori» Luxemburg e Liebknecht, come li chiama Pabst nelle sue memorie, lui contatta il ministro Noske. «Eravamo d’accordo sul "cosa", ma quando gli chiesi il "come", Noske mi disse: "Non è affar mio! Spaccherebbe il partito».
Nell’olimpo della Spd — lo ha ricordato anche Nahles di recente — continua a brillare la stella di Rosa Luxemburg. Ma alla luce di queste rivelazioni, sulla sua morte andrebbe alzato ogni velo.

Il Fatto 7.1.19
I gesuiti di Bergoglio vs. i sovranisti: “Il populismo è la morte della fede”
Il manifesto politico della “Civiltà Cattolica” in sette parole, tra cui paura, migranti, democrazia e partecipazione
di Fabrizio d’Esposito

Lo spettro di un nuovo partito cattolico continua a ossessionare i media clerical-salviniani e anche i semplici retroscenisti di Palazzo. E così un giorno sì e l’altro pure si dà per certa la nascita di una formazione centrista modello Dc con a capo questo o quel cattolico (l’ultimo potenziale leader indicato è il sindacalista Marco Bentivogli).
È l’ennesimo modo riduttivo e sciatto per “leggere” le iniziative della Chiesa di Bergoglio dopo un lustro di neutralità politica in Italia, necessario per depurare la Curia dalle scorie del bertonismo, tragico epigono dell’invasiva dottrina ruiniana dopo la fine della Dc. Al contrario, l’interventismo della Cei di Bassetti (il capo dei vescovi) e il dibattito di Avvenire sull’impegno dei credenti per il bene comune segnalano il ritorno di quel cattolicesimo democratico osteggiato per gran parte del pontificato di Giovanni Paolo II e per l’intero regno di Benedetto XVI.
La conferma più evidente è la ritrovata centralità della Civiltà Cattolica, il quindicinale dei gesuiti, la Compagnia da cui proviene papa Bergoglio. Dopo anni di marginalità, il direttore della rivista, padre Antonio Spadaro, e il suo principale analista politico, padre Francesco Occhetta, sono diventati il punto di riferimento della linea francescana. E sarebbe sbagliato tradurre in termini politicisti l’ultimo scritto di Spadaro che fissa in sette parole la “reazione” a questi cupi tempi sovranisti: paura, ordine, migrazioni, popolo, democrazia, partecipazione e lavoro.
In particolare, la critica di padre Spadaro (da Trump al nostrano Salvini) al populismo è densa e coerente: con la “coesione etnica” perseguita dai sovranisti e che si pone “al di sopra della persona” viene a mancare ogni “baluardo al totalitarismo politico”.
Un illiberalismo, si badi bene, che è l’humus ideale per le “attuali alleanze tra cristianesimo e forme aggressive di populismo”. Di qui “la morte della fede” perché la religione finirebbe per diventare un’ideologia politica. Un “appartenere senza credere”. Una critica lucidissima al network clericale anti-bergogliano che sostiene la Lega. E che ha sullo sfondo un altro precedente funesto, Mussolini “cattolico e anticristiano”.

Il Fatto 7.1.19
Il Papa chiama i leader europei: “Dimostrate concreta solidarietà”


Dopo i vescovi, è arrivato ieri direttamente da Papa Francesco l’appello a far sbarcare i 49 migranti che da giorni sono a bordo delle navi delle ong Sea Watch e Professor Albrecht Penck. “Rivolgo un accorato appello ai leader europei, perché dimostrino concreta solidarietà nei confronti di queste persone”, ha detto Papa Bergoglio. Quello del pontefice è stato una sorta di Sos lanciato urbi et orbi per smuovere una situazione pesante e di sostanziale stallo. Il testo che il Papa ha preparato per l’Angelus è un concentrato di allegorie che rimandano alle cronache di questi giorni, in particolare alla via Crucis che misurano ogni giorno i migranti in fuga, alla ricerca di un avvenire migliore in Europa. “Ben diversa – ha detto ieri il Papa – è l’esperienza dei Magi. Venuti dall’Oriente, essi rappresentano tutti i popoli lontani dalla fede ebraica tradizionale. Eppure, si lasciano guidare dalla stella e affrontano un viaggio lungo e rischioso pur di approdare alla meta e conoscere la verità sul Messia. Erano aperti alla novità, e a loro si svela la più grande e sorprendente novità della storia: Dio fatto uomo”.

Repubblica 7.1.19
A chi parla il Vaticano
di Alberto Melloni


E alla fine è arrivato il " vescovone", Francesco. Non era pensabile che la tragedia di 49 persone in mare, ostaggi della propaganda, non suscitasse una reazione del Papa. Certo: sono ben più di 49 le persone e i bambini che ieri notte hanno patito sofferenza nel mondo. Ma ignorare quelle 49 nel mare nostrum non vorrebbe dire aiutarne di più, bensì negare il Vangelo. Francesco dunque parla. E dà un’indicazione alla Chiesa italiana, di cui è primate, molto politica e molto cristiana: attendere per capire se la spaccatura che si è aperta nel governo modificherà il modo cattolico di vedere i due partiti della coalizione.
La Chiesa deve capire se quel mondo cattolico conservatore che ha fatto credito a Matteo Salvini questa volta si sveglierà: e si chiederà se 49 " povericristi" e "gesùbambini", per i quali Cristo ha versato il sangue in croce, sono davvero "l’invasione". E se quel cattolicesimo a bassa coscienza democratica che si è affidato ai grillini si chiederà se l’uso del linguaggio della guerra (è lì che "donne e bambini" formano una categoria protetta) è quello che li esprime.
Gesti eclatanti la Chiesa li avrebbe a disposizione (ospitare tutti coloro che stanno negli Sprar nelle cattedrali; o mandare 49 passaporti vaticani in mare e chiedere il rispetto del Concordato): se preferisce attendere, senza tacere, è perché conosce l’assioma secondo cui " nulla di violento è perpetuo" ( nihil violentum perpetuum). E sa che il suo compito — dare alla dialettica democratica coscienze formate e quel " personalismo comunitario" di cui Sergio Mattarella ha dato una fondazione teorica nel discorso di fine anno — va svolto in questo tempo di violenza senza alimentare la retorica salviniana del "millimetro".
La Lega s’è imbarcata in una campagna lunghissima: l’ha iniziata a gennaio del 2018 e la finirà solo a metà 2019, quando dovrà decidere se provare a trasformare i voti europei, fatti di umori momentanei, in un’opa di destra sui moderati e liberali. Questa campagna infinita ha bisogno di tacere sui grandi problemi del nostro Paese ( il lavoro, il credito, la ricerca, la mafia, la credibilità internazionale, i big data, l’innovazione, la fragilità del suolo, ecc.) e di ipnotizzare tutti sulla sola questione dell’immigrazione. Non è un’idea originale: ovunque in Occidente è il tema che rende. E in Italia lo si può agitare senza spendere, vantandosi appunto di non arretrare di un "millimetro" in un Paese con 20 milioni di immigrati interni e 5 di immigrati esterni. Consapevole di questo congegno ideologico il vasto pianeta della carità cristiana si è mosso da tempo senza menar vanto di nulla del moltissimo che fa. Sia perché nel Cristianesimo autentico si usa così. Sia per non fornire benzina alla propaganda del "millimetro". Così anche ieri con una astuzia diplomatica elegantissima il Papa ha ignorato il governo italiano e si è rivolto all’Europa: perché è giusto. Ma anche per avere il tempo di capire la portata dello scontro che si è aperto dentro il governo.
I partiti della coalizione hanno imparato che dissensi, anche finti, sono indispensabili per aumentare i rispettivi consensi. Forti di un terzo dei voti (che in democrazia dista parecchio dalla meta del 51%) né Lega né M5S hanno saputo creare quelle correnti culturali interne che nei grandi partiti fidelizzano i militanti, preparano le alleanze e selezionano le intelligenze. Per cui devono mimare conflitti fra alleati, sperando che basti a guadagnare quei pochi punti percentuali che in regime proporzionale decidono di grandi equilibri di potere. Sanno tutti che il rischio è che poi arrivi un evento — tragico — che trasforma le baruffe dei capi in spaccature dei ceti di riferimento. Ed è per capire questo che la Chiesa ha deciso di attendere senza restare muta.

La Stampa 7.1.19
Enrico Rossi
“L’assistenza sociale compete alle Regioni. Il decreto sicurezza è pura propaganda”
Oggi parte il ricorso alla Consulta della regione toscana contro il decreto sicurezza.
di Alessandro Di Matteo


Il governo assicura che non è precluso l’accesso degli stranieri alla sanità, perché dite che sono incostituzionali?
«Questa legge ostacola il nostro lavoro: erogare assistenza sociale. Invade una materia che la Costituzione ci affida. Per questo oggi deliberiamo in giunta il ricorso. Secondo i nostri conti almeno in Toscana ci sono almeno 6mila persone che diventano “invisibili”. Gli stessi volontari dicono: se continuiamo a tenere queste persone nei nostri centri verremo accusati di favoreggiamento della clandestinità? Pensi in che condizioni hanno messo il Paese! Dall’oggi al domani rischiamo di ritrovarci in giro decine di migliaia di giovani disperati, altro che maggiore sicurezza».
Cioè il decreto aumenta l’insicurezza?
«Cosa fa Salvini? Le rimpatria tutte queste persone? Aveva già promesso di rimpatriarne 600mila, ma non mi pare che nel suo semestre radioso siano aumentati i rimpatri, anzi. È una legge propagandistica, gli serve solo a mostrare i muscoli. A voler pensar male, da un lato pare che si voglia far crescere una riserva di manodopera a basso prezzo, dall’altro sembra punti ad aumentare la rendita di posizione di chi specula sull’immigrazione: aumenta l’insicurezza, aumentano i voti alla Lega».
Condivide i sindaci che rifiutano di applicare la legge Salvini? La presidente del Senato dice che così si finisce nell’anarchia. E anche Renzi pensa che «il decreto Salvini crea problemi, ma in attesa della Consulta le leggi si rispettano».
«È un concetto un po’ astratto, i sindaci non sono mica ragionieri. Naturalmente ci vuole ragionevolezza: non è che si può ogni giorno disapplicare una legge, ci deve essere in ballo qualche principio di fondo. Ma in questo caso non si può parlare di politica irresponsabile. Peraltro, i sindaci si assumono una bella responsabilità, pronti a pagare le conseguenze: possono essere accusati di abuso di ufficio. Io sono dalla loro parte. C’è un fatto che forse sfugge, purtroppo anche a Renzi: noi presidenti di regione e sindaci non abbiamo l’immunità parlamentare. Tra tutti i privilegi che si vogliono abolire, questo lo conservano».
Ma la paura nei confronti degli immigrati è diffusa soprattutto in quelle periferie che la sinistra vuole riconquistare. Non pensate di fare un favore a Salvini accettando questo terreno di sfida?
«Non voglio riaccendere polemiche, ma penso che purtroppo il successo di Salvini nasce dalla timidezza e dall’arretramento culturale della sinistra. Lo “ius soli” non si è fatto perché non erano maturi i tempi, la Bossi-Fini non è stata cancellata... Si è creata una prateria e questi l’hanno percorsa. Si doveva fare leva sui sindaci per impiegare questi ragazzi in attività socialmente utili, invece che tenerli a bighellonare pagando 35 euro per ciascuno a una cooperativa. Questo ha creato una reazione negativa, è stato un errore del governo precedente».
L’argomento di Salvini è proprio questo: ci sono tanti poveri in Italia e aiutiamo gli stranieri? Lo ha detto anche a lei: «Rossi pensi ai 119 mila toscani poveri...»
«Lo ha detto, però non vuole fare una discussione. Io l’ho sfidato a discutere in pubblico: vediamo cosa ho fatto io per i poveri e cosa ha fatto lui. Ma non ha accettato, ha detto che ha troppo da fare. Posso assicurare che la Toscana sui problemi del lavoro, dell’uguaglianza, del sostegno a chi ha bisogno ha fatto tanto».A.d.m.

Corriere 7.1.19
Da Jan Palach a Nagy
La memoria che a est dà fastidio
di Paolo Mieli


A meno di un ripensamento dell’ultimo minuto, nella Repubblica Ceca del nazionalpopulista Milos Zeman non ci saranno il prossimo 16 gennaio cerimonie di Stato per rendere onore a Jan Palach in occasione dei cinquant’anni dal suo suicidio. Nel gennaio del 1969, il giovane studente cecoslovacco, ispirandosi al clamoroso gesto compiuto sei anni prima dai monaci buddisti di Saigon, si diede fuoco per protestare contro l’intervento dei carri armati sovietici che il 21 agosto avevano brutalmente messo fine alla stagione liberalizzatrice passata alla storia come «Primavera di Praga».
In Ungheria, un altro leader sovranista, Viktor Orbán , ha fatto di peggio: dieci giorni fa ha ordinato la rimozione della statua di Imre Nagy, il capo del governo di Budapest che nell’ottobre del 1956 si oppose al doppio intervento militare russo nel suo Paese. Nagy, deposto dopo essere stato primo ministro per soli tredici giorni, ai primi di novembre di quello stesso ’56 si era rifugiato nell’ambasciata jugoslava, quindi era stato catturato dal Kgb su ordine del quale nel giugno del ’58, a seguito di un misterioso «processo», era stato condannato a morte. E subito impiccato.
Sia Palach che Nagy furono per decenni oggetto di un’opera di denigrazione da parte delle autorità comuniste sovietiche, cecoslovacche e ungheresi. Nel caso di Palach, i servizi segreti russi fecero l’impossibile per comprometterne l’immagine.
Un recente film di Agniezska Holland, «Il roveto ardente», ha documentato come quel ragazzo che ebbe il coraggio di auto-immolarsi venne dipinto alla stregua di un demente, esaltato, convinto da «agenti occidentali» a simulare il suicidio versandosi addosso un liquido che gli avevano garantito essere non infiammabile. Dopodiché il suo gesto fu imitato da altri giovani e tale circostanza interruppe quel genere di insinuazioni. Ma, nel frattempo, se la Praga rimasta fedele ad Aleksandr Dubcek gli aveva reso solenni onoranze funebri (non certo ufficiali ma con la silenziosa partecipazione di centinaia di migliaia di persone), in Occidente la figura del Palach martire per la libertà aveva stentato ad affermarsi. Soprattutto nella sinistra — non solo quella comunista — che lo aveva abbandonato all’oblio.
Per quel che riguarda Nagy, i sovietici — con l’evidente scopo di infangarne l’immagine — offrirono un’abbondante documentazione di come negli anni Trenta si fosse messo a disposizione dei loro servizi (con il nome di Volodya) macchiandosi di colpe gravissime. È vero, Nagy — come moltissimi comunisti di ogni parte d’Europa, quasi tutti — alla vigilia della Seconda guerra mondiale aveva avuto solidi collegamenti con la macchina del terrore staliniano. Ma dopo la morte di Stalin se ne era emendato assai prima che Krusciov al XX congresso del Pcus (1956) denunciasse i crimini del dittatore georgiano. Nel ’53 — con l’appoggio dell’astro emergente dell’Urss post staliniana, Georgij Malenkov — era stato nominato primo ministro d’Ungheria e, in contrasto con Matyas Rakosi, aveva avviato un’iniziale politica liberalizzatrice. Politica che si era però interrotta nel 1955 quando, a Mosca, Malenkov era stato travolto da Chruscev: dopo la sconfitta del suo protettore Malenkov, Nagy era stato immediatamente deposto e addirittura espulso dal partito. Partito che su due piedi lo riabilitò e lo richiamò alla guida del governo ungherese il 23 ottobre del ’56, giusto in tempo perché incoraggiasse il suo popolo a non rassegnarsi, ipotizzasse l’uscita del suo Paese dal Patto di Varsavia e per dover conseguentemente affrontare due invasioni sovietiche, quella del 24 ottobre e quella del 4 novembre. Per poi fare la fine terribile di cui si è detto.
Molti mesi prima della caduta del muro di Berlino, Palach e Nagy divennero personaggi nel cui nome si ebbero i primi segnali dell’imminente fine del comunismo. Dal 15 al 21 gennaio del 1989 a Praga in piazza San Venceslao si svolse una settimana di celebrazioni della figura di Jan Palach, alla quale parteciparono moltissimi coraggiosi tra i quali il drammaturgo Vaclav Havel, futuro presidente della Cecoslovacchia non più comunista. Il quale Havel alla fine di quei giorni venne arrestato assieme ad altre mille e quattrocento persone. Trascorsero cinque mesi dalla «settimana per Palach» e il 16 giugno a Budapest furono organizzati solenni funerali postumi per Imre Nagy. Anche in quest’occasione scesero in strada migliaia e migliaia di cittadini, tra i quali — paradossi della storia — l’uomo che adesso ha ordinato la rimozione della statua di Nagy: Victor Orbán.
Il senso di quel che sta accadendo in due dei quattro Paesi di Visegrad (nel terzo, la Polonia di Kaczynski, anch’essa in vena di rimozioni storiche dalle identiche caratteristiche, andrà in visita mercoledì prossimo Matteo Salvini a stringere patti in vista delle elezioni europee di maggio) è quello di voler progressivamente cancellare dalla mente di cechi e ungheresi la memoria non solo dei personaggi di cui si è detto ma delle cerimonie a loro dedicate nel 1989. Cerimonie in qualche modo rituali che furono e sono restate a simbolo della transizione dal comunismo a un regime democratico. Senza contare il fatto (o forse mettendolo deliberatamente nel conto) che, accantonata la rimembranza della stagione comunista e del passaggio da questa a quella liberaldemocratica, ai due Paesi resterà solo il ricordo degli anni precedenti. Anni in cui la Repubblica ceca conobbe il brutale Protettorato nazista di Boemia e Moravia di Konstantin von Neurath e Reinhard Heydrich (il «boia di Praga» ucciso il 27 maggio del ’42 con uno spettacolare attentato ordito dalla resistenza cecoslovacca). Mentre l’Ungheria sperimentò il regime autoritario dell’ammiraglio Miklos Horthy e, dal ’44 al ’45, quello delle spietate Croci frecciate di Ferenc Szalasi. Precedenti ingombranti per i sovranisti dell’Europa di oggi. Imbarazzanti, ammesso che — nell’area della «democrazia illiberale» — i seguaci di Zeman e Orbán abbiano una qualche sensibilità per questi temi. Anzi, peggio, molto peggio che imbarazzanti.

La Stampa 7.1.18
“La mossa dei governatori può sospendere la legge”
di Andrea Carugati


Se andasse in porto, la strada del ricorso alla Corte Costituzionale di una o più regioni contro la legge Salvini sull’immigrazione sarebbe molto più rapida rispetto ad altre. Potrebbe portare nel giro di pochi mesi ad una sospensione delle norme a rischio di incostituzionalità (come quella che impedisce ai Comuni di concedere la residenza ai richiedenti asilo). E in tempi un po’ più lunghi anche alla cancellazione delle stesse norme. Una strada decisamente più veloce, quella del ricorso “in via principale” da parte delle Regioni, le uniche che hanno titolo a rivolgersi direttamente alla Consulta. Senza cioè dover passare prima da un giudice, cosa che invece tocca a un singolo cittadino o anche a un sindaco che contesti la norma. Il nodo, spiega l’ex ministro della Giustizia ed ex presidente della Corte Giovanni Maria Flick, «riguarda la negata concessione della residenza, fatto che secondo alcune regioni impedisce di erogare ai richiedenti asilo alcuni servizi come le prestazioni sociali e l’istruzione e rende più difficile l’accesso ai servizi in tema di sanità e lavoro».
«Il punto è che su queste materie le Regioni hanno una competenza concorrente con lo Stato centrale, e dunque possono rivolgersi alla Corte per ottenere il rispetto delle proprie prerogative sacrificate dalla legge dello Stato», spiega Flick. Un contenzioso tipico, quello tra Stato e Regioni sulle competenze legislative, già ampiamente sperimentato. Questa volta però la questione è più complessa: «L’immigrazione è un tema di competenza dello stato centrale, e questo potrebbe portare a respingere i ricorsi delle Regioni», avverte Cesare Mirabelli, altro ex presidente della Consulta. E aggiunge: «È difficile definire rigidamente i confini di competenza di una norma: in questo caso si tratta di norme sull’assistenza sociale o sull’immigrazione?». E ancora: «Le Regioni non hanno competenza sullo stato civile». Mirabelli ricorda che le Regioni possono presentare obiezioni di costituzionalità solo «in riferimento a una eventuale delle proprie competenze legislative». Non altro. Un singolo cittadino, cui venissero negati diritti a causa della legge Salvini, avrebbe un ventaglio più ampio di argomenti da sottoporre al giudice ordinario. Il quale, a sua discrezione, potrebbe decidere di ricorrere alla Corte se rilevasse la violazione di un principio costituzionale. I due tipi di ricorsi, del singolo o di una o più Regioni, non si escludono a vicenda. Possono viaggiare in parallelo. È questa la doppia sfida di sindaci e governatori a Salvini.

Il Fatto 7.1.19
Sar libica: le panzane maltesi, la furbizia italiana, l’ipocrisia Ue
Sull’affidabilità dei porti nordafricani si basa la strategia comune per lasciare a mare chi prova a venire in Europa
di Antonio Massari

“Se si fosse accettato di far sbarcare le navi delle due Ong sin dall’inizio senza chiarimenti, i bulli avrebbero vinto, mentre i paesi come Malta, che rispettano le leggi e salvano vite, sarebbero finiti per essere le vittime”. Parola del primo ministro maltese Joseph Muscat al 16esimo giorno di stallo per le navi Sea Eye e Sea Watch 3 e i 49 naufraghi a bordo. Pura propaganda. In realtà, sulla loro pelle si sta giocando l’ennesima battaglia sull’immigrazione irregolare – e sul consenso per le elezioni europee – ingaggiata in Europa e in Italia. Muscat, Salvini, Di Maio: ognuno ha la sua partita. Bruxelles inclusa. E ed è per questo che, da ben 17 notti, 39 maschi adulti e 10 tra donne e bambini restano in mare. Un anno fa sarebbe andata diversamente. A innescare questa situazione è stata l’Italia.
La zona Sar libica
La Libia ha dichiarato la propria zona di soccorso e recupero (zona Sar) nel giugno 2018. Che accade se un barcone viene soccorso in acque sar libiche? In base al trattato di Amburgo si chiede all’autorità nordafricana di coordinare i soccorsi e fornire un posto sicuro per lo sbarco dei naufraghi. La Libia – peraltro nelle attuali condizioni d’instabilità – non avrebbe potuto rivendicare una zona Sar se l’Italia non le avesse fornito, con il governo Gentiloni, motovedette e addestramento. È stato questo il modo in cui l’Italia è riuscita a obbligare chi presta i soccorsi a riportare i naufraghi in Libia.
Il porto insicuro
Da quando esiste la sua zona Sar, sosteniamo che la Libia è in condizioni di offrire un “porto sicuro”. L’ipocrisia delle formule burocratiche non può però modificare la realtà: non può offrire alcun porto sicuro perché non è un luogo sicuro. La Libia versa in condizioni di pericolosa instabilità, con ripetute violazioni dei diritti umani, inclusi stupri, torture e sequestri per i migranti, che si sottopongono a tutto questo per racimolare i soldi utili a raggiungere l’Ue. La verità è che l’Ue – con il grande aiuto dell’Italia – ha deciso che i migranti debbano essere restituiti ai loro aguzzini.
Ti affondo per salvarti
Con zona Sar e possibilità di indicare un porto sicuro, chi soccorre i migranti in acque Sar libiche ora deve coordinarsi con la Guardia Costiera nordafricana e consegnarli a Tripoli. E se la Guarda costiera libica individua un natante, oppure riceve un sos – quasi impossibile che accada, visto che i migranti scappano – invia le sue motovedette. Il Fatto ha rivelato quali sono, molto spesso, le modalità di salvataggio utilizzate dai marinai libici: poiché i migranti non hanno alcuna intenzione di ripiombare tra torture e stupri, si rifiutano di salire sulle motovedette. I libici a quel punto le affondano, trasbordando i migranti direttamente dal mare. A volte però tra le onde resta qualche cadavere: nel luglio 2018, oltre la sopravvissuta Josefa, che era moribonda, la Ong Proactiva recuperò il cadavere di una donna e un bambino. Sono questi i motivi per i quali Ong e migranti si rifiutano di coordinarsi con la Libia e si allontanano dalla sua area Sar dopo i soccorsi.
Questione politica
Il rifiuto di coordinarsi con la Libia sradica il soccorso dalle leggi del mare e lo porta nel territorio delle scelte politiche. L’obbligo della Ong era chiedere un porto alla Libia. E la Libia era obbligata a fornirlo. Nessun altro Stato ha l’obbligo di indicare un porto sicuro. La questione si sposta così sulla scelta che ogni singolo stato Ue – legittimamente – può operare in materia di immigrazione e sicurezza. E qui entra in ballo la propaganda.
Le menzogne di Malta
I maltesi sostengono che Sea Watch 3 e Sea Eye abbiano soccorso – anzi solo trasbordato – i migranti in acque più vicine all’Italia che a La Valletta. È falso. Il Fatto ieri ha pubblicato atti che dimostrano qualcosa di peggio: nell’agosto scorso Malta s’è rifiutata di soccorrere 190 naufraghi, nelle sue acque Sar, indirizzandoli all’Italia. Fu la nostra Guardia Costiera a salvarli da un naufragio certo in acque sar maltesi.
La guerra giallo-verde
Sulla pelle dei 49 naufraghi fermi da 17 giorni si consuma anche la guerra di governo tra Lega e M5S. Di Maio, strizzando l’occhio all’elettorato di sinistra, propone di accogliere solo donne e bambini – dieci persone – e Salvini nessuno. Posto che sarebbe disumano separare nuclei familiari, 10 persone sul piano della realtà non fanno la differenza, ma sul piano della propaganda sì. La pelle di questi 49 naufraghi è già il territorio della campagna elettorale europea.
La “guerra” Ue
Se la redistribuzione dei naufraghi su base europea fosse operativa, e si superasse il trattato di Dublino, che prevede la permanenza dei migranti nei luoghi di sbarco, la situazione muterebbe. Le principali coste d’approdo sono infatti quelle italiane e maltesi alle quali, prima della zona Sar libica, le convenzioni consentivano di richiedere il coordinamento dei soccorsi. La “guerra” sugli sbarchi nasce anche da questo: Bruxelles non è meno ipocrita e disumana di Roma o La Valletta.

Il Fatto 7.1.19
Il segno di Belzebù indelebile sul Paese
Imperitura memoria – L’impronta lasciata sul seggio di Palazzo Madama da Giulio Andreotti, in Senato dal ‘91 al 2013 dopo 45 anni passati alla Camera
di Pino Corrias


Come le mani disegnate in rosso sulle parete delle caverne ci dicono che l’uomo del Pleistocene passò da lì, così la gobba di Giulio Andreotti incisa sul cuoio della sua sedia al Senato ci ricorda che in un tempo remoto della Repubblica siamo stati tutti democristiani – volenti o nolenti, eretti o quadrumani – lungo un’era che gli archeologi del nostro tempo chiamano per l’appunto Andreottiana.
Il capostipite era più alto di quanto oggi si possa immaginare. Aveva un pallore da sagrestia su un volto senza labbra, le orecchie aguzze, il passo veloce e scivoloso. Dormiva poco. Usciva ogni mattina all’alba per la Messa. Faceva l’elemosina ai mendicanti raccolti sul sagrato. Mangiava in bianco. Vestiva oscuri completi Caraceni col panciotto. Soffriva di emicrania e di persistente disincanto. Nel raro tempo libero giocava a gin-rummy e collezionava campanelli. Nell’ampio tempo del lavoro accumulava nemici e segreti.
I nemici li ha seppelliti quasi tutti. I segreti invece sono diventati la nostra storia e il suo leggendario archivio, nutrito per molto più di mezzo secolo, da quando la sua giovinezza fu rinvenuta tra le mura vaticane da Alcide De Gasperi, futuro plenipotenziario della Democrazia Cristiana, più o meno mentre le bombe degli angloamericani violavano il sacro suolo di Roma città aperta, estate 1943, impolverando la stola di papa Pio XII.
A 24 anni Giulio stava già nel posto giusto, tra gli inchiostri dell’eterno potere e al cospetto della grande Storia, intraprendendone da allora i cospicui labirinti che lo condussero, tra maldicenze e applausi, a indossare 27 volte i panni di ministro, 7 volte la corona di presidente del Consiglio.
Per poi passare, a intermittenza, dalle luci dello statista alle ombre del grande vecchio, 27 volte inquisito dalla magistratura e 27 volte salvato dalle Camere che a maggioranza negavano l’autorizzazione a procedere. Salvo soffriggere, udienza dopo udienza, sul banco degli imputati del tribunale di Palermo, anno 1995, per il celebre bacio a Totò Riina, e poi su quello di Perugia, dove era accusato di essere il mandante dei quattro colpi di pistola con cui venne cancellato il giornalista romano Mino Pecorelli, suo acerrimo nemico, le sue imminenti rivelazioni sul caso Moro e su certi assegni finiti tra i velluti e i sughi della sua corrente, detta anche lei andreottiana.
Inciampi giudiziari mai davvero prescritti e che hanno nutrito la sua leggenda nera – passata per Piazza Fontana, i Servizi deviati, lo scandalo petroli, il Banco Ambrosiano, Gladio, la morte solitaria del generale Dalla Chiesa sull’asfalto di Palermo – ma anche il suo fatalismo romanesco di eterno sopravvissuto al suo stesso danno: “Preferisco tirare a campare che tirare le cuoia” come recitava la sua massima preferita, che poi era anche il cuore della sua politica, talmente malleabile da rendersi disponibile a destra e a sinistra, purché immobile sotto l’ombrello angloamericano e in cambio di un costante incasso elettorale che gli garantivano, guarda caso, i collegi del Lazio e della Sicilia. Oltre naturalmente alla benevolenza della Chiesa, i sette papi che conobbe in vita, lasciandosi ispirare da una fede mai troppo intransigente, disponibile all’umano peccato purché con l’Avemaria sempre incorporata. “Quando andavano insieme in chiesa – scrisse Montanelli – De Gasperi parlava con Dio, Andreotti con il prete”.
La zia, i libri, la chiesa e la proposta al cimitero
A dispetto del molto che avrebbe intrapreso, Giulio nasce fragile il 14 gennaio del 1919. Orfano di padre, cresce cagionevole aiutato da una vecchia zia e dalla piccola pensione della madre. Fa il chierichetto e lo studente modello. Si laurea in Giurisprudenza. Alla visita militare il medico lo scarta e gli pronostica sei mesi di vita. Racconterà: “Quando diventai la prima volta ministro gli telefonai per dirgli che ero ancora vivo, ma era morto lui”.
Diventa sottosegretario con De Gasperi nel 1947, entra in Parlamento l’anno dopo. Ci rimarrà per sempre. Sotto ai suoi governi è nata la Riforma sanitaria, è stato legalizzato l’aborto, firmato il Trattato di Maastricht. E dentro alla sua ombra l’Italia è diventata un Paese industriale, alfabetizzato, un po’ più europeo, un po’ meno cialtrone, al netto del clamoroso debito pubblico e delle quattro mafie.
A trent’anni si sposa, dichiarandosi a Donna Livia “mentre passeggiavamo in un cimitero”. Avrà quattro figli. Una sola segretaria, la mitica Enea. Una sola vocazione: “Non ama le vacanze – dirà la figlia Serena – non ama il mare, non ama le passeggiate. La verità è che se non fa politica si annoia”.
Amici scomodi e nemici uccisi sempre col sorriso
Diventandone il prototipo incorpora tutti i pregi e i difetti dei democristiani. Conosce la pazienza e la prudenza. Uccide gli avversari con estrema gentilezza e sorride per buona educazione. È in confidenza con Kissinger e ammira Arafat. Si commuove alla morte di Paolo VI e a quella di Alberto Sordi, che poi sarebbero il sacro e il profano della sua esistenza. Maneggia il potere in silenzio, come un gioco di prestigio. E i cattivi come fossero i buoni. Tra i banchieri d’avventura predilige il piduista Michele Sindona, quello del crack della Banca Privata, a cui aveva appena conferito il titolo di “salvatore della lira”, per poi guardarne imperturbabile il naufragio dentro a un caffè avvelenato, nella cella singola di San Vittore, detenuto per l’omicidio di Giorgio Ambrosoli.
Non ha amici, ma soci momentanei di cordata, mai Fanfani e De Mita, qualche volta Forlani, più spesso Cossiga che lo nominerà senatore a vita. Educa Gianni Letta a fargli da scudiero per poi affidargli il giovane pupillo piduista Luigi Bisignani. Tutti i suoi sottocapi sono tipi da prendere con le molle: Vittorio Sbardella, detto “lo squalo” mastica per lui il Lazio. Ciarrapico è il re del saluto romano, delle acque minerali e degli impicci da sbrogliare. Franco Evangelisti è il faccendiere di “A Fra’ chette serve?”. Cirino Pomicino, detto “’O ministro” digerirà a suo nome 42 processi e 40 assoluzioni. E naturalmente Salvo Lima, il suo alter ego in Sicilia, morto sparato tra i cassonetti di Mondello per ordine dei corleonesi, la mattina del 12 marzo 1992, alba della stagione delle stragi.
Esecuzione che cancellò il suo unico sogno inconcluso, quello di salire al Quirinale, indossare finalmente i panni di presidente della Repubblica e (forse) sistemare gli scheletri del suo notevole armadio. Cominciando dallo scandalo fondante, anno 1963, il tentato golpe di un certo generale De Lorenzo, capo dei servizi segreti, e la scomparsa dei fascicoli che aveva accumulato sui protagonisti della vita pubblica italiana. Archivio quanto mai avvelenato e formidabile arma di ricatto che proprio Andreotti, all’epoca ministro della Difesa, era incaricato di distruggere. E che invece sarebbe riemerso nelle molte nebbie future e persino nei dossier di Licio Gelli, il finto o vero titolare della loggia massonica P2, forse a fondamento di un suo potere sussidiario esercitato per conto (proprio) di chi li aveva maneggiati per primo.
Da Moro agli anni di B.: è lui il capo dei diavoli
“Livido, assente, chiuso nel suo cupo sogno di gloria”, gli avrebbe scritto Aldo Moro dalla prigione brigatista, colmo di rancore e di rassegnazione per il nulla che il governo di solidarietà nazionale riuscì a fabbricare nei 55 giorni impiegati da Mario Moretti a eseguire la sentenza.
Bettino Craxi lo battezzo Belzebù, il capo dei diavoli. Lo temeva e forse lo ammirava, ma non imparò nulla dalla sua quieta imperturbabilità nelle aule di Giustizia e una volta inquisito da Mani pulite, strillò così tanto, da dichiararsi colpevole, pretendere l’impunità e finire latitante.
A differenza di quasi tutti, Andreotti non si lasciò sfiorare dalla volgarità delle tangenti, che lasciò volentieri alle mandibole dei suoi. Né dall’incantesimo delle notti romane. Una sola volta una nobildonna provò a trascinarlo sulla pista da ballo: “Non ho mai danzato con un presidente del Consiglio”, gli disse lei leziosa. “Neanch’io” rispose lui secco, allontanandosi.
Non capì il bianco e nero di Berlinguer e non prese mai sul serio i troppi colori di Berlusconi. Sopravvisse alla morte della Dc e di due repubbliche. Scrisse migliaia di pagine senza mai rivelare un segreto. Sembrava eterno. Sembrava un destino. Invece anche lui, uscendo di scena a 94 anni, incollato alla sedia e in piena luce, è diventato un altro anniversario del nostro buio.

Il Fatto 7.1.19
Il Divo che commise il reato di associazione con la mafia
di Gian Carlo Caselli


Subito dopo la morte di Falcone e Borsellino ho chiesto il trasferimento a Palermo. Ho avuto l’onore di guidare la procura di questa città per quasi sette anni. Nel contrasto all’ala militare di Cosa nostra i risultati sono stati imponenti: basti ricordare gli innumerevoli processi contro mafiosi “doc” conclusi con condanne per 650 ergastoli e un’infinità di anni di reclusione. Ma la mafia (tutti son bravi a dirlo, pochi a trarne le conseguenze sul piano investigativo) non è solo “coppola e lupara”. È anche complicità e collusioni assicurate da “colletti bianchi”. Ecco quindi vari processi contro imputati “eccellenti”. Fra gli altri Marcello Dell’Utri e Giulio Andreotti. Del primo (condannato in via definitiva a sette anni di reclusione) non si parla, se non quando vengon fuori i suoi problemi di salute. Del secondo è stata calpestata e fatta a pezzi la verità che emerge chiara dagli atti.
In primo grado c’è stata assoluzione, sia pure per insufficienza di prove. In Appello (mentre per i fatti successivi è stata confermata tale assoluzione) fino alla primavera del 1980 l’imputato è stato dichiarato colpevole, per aver commesso (sic!) il reato di associazione a delinquere con Cosa nostra. Il reato commesso è stato dichiarato prescritto, ma resta ovviamente commesso. La Cassazione ha confermato la sentenza d’appello e quindi anche la penale responsabilità dell’imputato fino al 1980. Processualmente è questa la verità definitiva ed irrevocabile. Ed è evidente che chi parla di “assoluzione” è fuori della realtà. Non esiste in natura, è una bestemmia la formula “assolto per aver commesso il reato”.
La corte d’Appello si è basata su prove sicure e riscontrate. Ad esempio, ha ritenuto provati due incontri del senatore con il “capo dei capi” di allora , Stefano Bontade, per discutere il caso di Pier Santi Mattarella, integerrimo capo della Dc siciliana, che pagò con la vita il coraggio di essersi opposto a Cosa nostra. La corte sottolinea tra l’altro che l’imputato ha “omesso di denunziare elementi utili a far luce [sull’omicidio] di cui era venuto a conoscenza in dipendenza dei suoi diretti contatti con i mafiosi”. Secondo la corte d’Appello, Andreotti ha contribuito “al rafforzamento della organizzazione criminale , inducendo negli affiliati, anche per la sua autorevolezza politica, il sentimento di essere protetti al più alto livello del potere legale. Così realizzando “una vera e propria partecipazione all’associazione mafiosa apprezzabilmente protrattasi nel tempo”.
Chi ha nascosto o stravolto la verità – oltre a truffare il popolo italiano in nome del quale si pronunziano le sentenze – non ha voluto elaborare la memoria di ciò che è stato, perché teme il giudizio storico su come in una certa fase, almeno parzialmente, si è formato il consenso nel nostro Paese. Ma in questo modo si rende un pessimo servizio alla qualità della democrazia. Perché si finisce per legittimare (ieri, oggi e domani) la politica che ha rapporti con la mafia.

Il Fatto 7.1.19
Il verde pubblico martoriato
di Tomaso Montanari


“Le città italiane sono le più povere di verde pubblico d’Europa: e i parchi storici scampati alle lottizzazioni sono in condizioni pietose. Un esempio è il parco di Monza, di 680 ettari, creato da Napoleone nel 1805 (progettisti Luigi Canonica e Luigi Villoresi) capolavoro di competenza botanica e paesistica, unico grandioso polmone verde nella congestionata area metropolitana milanese settentrionale. Ma da noi il verde non è considerato altro che un ripostiglio dove relegare quel che non si sa dove mettere: così il gran parco è per oltre la metà privatizzato da corpi estranei: allevamento di cani e cavalli, golf, ippodromo e, peggiore di tutti, l’autodromo”. Così scriveva nel 1987, su l’Espresso, Antonio Cederna: oggi, trentuno anni dopo, non solo la battaglia per allontanare l’autodromo sembra persa per sempre, ma la privatizzazione è avanzata a grandi passi, fino a travolgere la stessa Villa Reale.
Ripercorrere la storia tormentata di questo straordinario monumento significa misurare l’inarrestabile decadenza che l’idea stessa di bene comune ha dovuto subire in questi trent’anni. Nel 1996 la Villa venne sdemanializzata e passata in proprietà dei Comuni di Milano e di Monza: così finiva l’idea stessa di un “monumento nazionale”, e a causa del contemporaneo massacro della finanza degli enti locali, quel monumento veniva condannato a una vita di stenti. Nel 2008 è stato costituito un Consorzio Villa Reale e Parco di Monza cui affidare il compito di valorizzare il bene: cioè in pratica di piazzarlo, in qualche modo, sul mercato. Detto fatto: nel 2010 un raggruppamento di imprese private for profit denominato Nuova Villa Reale spa si è aggiudicata la gestione ventennale del monumento. Contro tutto questo si oppose Legambiente, presentando un ricorso che fu rigettato dal Tar, che in sentenza affermò che l’attività del gestore sarebbe stata condizionata da paletti irremovibili, come la destinazione della Villa ad attività compatibili con il suo carattere storico-artistico e come la necessità di garantirne la fruizione pubblica: come peraltro dispone il Codice dei Beni culturali.
Oggi possiamo dire che aveva ragione Legambiente: e possiamo dirlo grazie ad un comitato di cittadini nato per vegliare sul parco e sulla Villa e che si è voluto intitolare proprio ad Antonio Cederna, sorta di nume tutelare del bene più prezioso di Monza. Il comitato ha denunciato in tutte le sedi un fatto clamoroso, che costituisce un triste primato anche nel martoriato mondo dei beni culturali italiani. La Villa è stata chiusa al pubblico per la bellezza di un mese (dal 1° novembre al 1° dicembre del 2018) perché Luxottica ha affittato gli Appartamenti Reali e parte del giardino al prezzo (da saldo stracciatissimo) di 25.000 euro. Non si trattava di un evento culturale: ma semplicemente della possibilità di utilizzare una location strepitosa per il proprio business. Una destinazione puramente commerciale inconciliabile con il carattere storico e artistico della Villa. In più, per questo lunghissimo periodo nessun cittadino italiano, pur mantenendo il monumento con le proprie tasse, è potuto entrarci: nella più radicale negazione di ogni fruizione pubblica.
Subito dopo aver portato a casa questo capolavoro di valorizzazione, il concessionario ha chiesto formalmente al Consorzio di poter cambiare le condizioni di gestione chiudendo la Villa non solo il lunedì (tradizionale giorno di riposo), ma anche il martedì e il mercoledì, cioè per un terzo del tempo di visita che per contratto è tenuto a garantire. Sarà la magistratura ad accertare se la vicenda di Luxottica è stata corretta sul piano legale e sarà il Consorzio a decidere se accettare o meno il parziale disarmo della Villa. Ma comunque finiscano queste due vicende sul piano formale, la sostanza è chiarissima: ed è che il declino iniziato con l’uscita dal Demanio dello Stato e con l’ingresso nella proprietà degli enti locali ha portato ad una privatizzazione oggi insostenibile per lo stesso privato, costretto o a tener chiuso o far quattrini in modi che umiliano il monumento e ne negano il senso profondo. Se fossimo un Paese serio, il Ministero per i Beni culturali dovrebbe raccogliere e pubblicare i dati che permettano di conoscere e valutare l’esito dei numerosissimi percorsi, del tutto analoghi, che altri monumenti pubblici capitali hanno dovuto compiere nello stesso numero di anni. Si scoprirebbe così che il disastro è diffuso, e forse si potrebbe avere la forza di tornare indietro, prendendo atto della realtà. Che è la seguente: nessun privato riesce a ricavare profitto dai grandi monumenti, se non a condizione di “violentarli”. Ed anche essendo disposti a farlo, i risultati sono modesti e in ultima analisi non tali da sostenere l’operazione. Bisogna avere il coraggio di prendere atto che in nessun luogo il patrimonio culturale si automantiene né tantomeno genera reddito (se non in senso indiretto). Come ben sanno i loro direttori, i grandi musei americani non incrementano, ma piuttosto “consumano”, i frutti dei grandi patrimoni finanziari e immobiliari che li sostengono: e lo fanno per produrre “cultura”. Come ben sanno i cittadini di Monza, la Villa e il Parco possono rendere: ma in termini di umanità, felicità, coesione sociale. Se lo Stato tornasse ad essere interessato a questo tipo di dividendi, potrebbe decidere di investirci. Per secoli l’abbiamo fatto: il risultato si chiama Italia. O forse, così si chiamava.

Il Fatto 7.1.19
Il futuro della Siria dipende dalla sfida tra Istanbul e Riad
Dopo anni di paralisi, all’improvviso tutti si muovono sullo scacchiere geopolitico del Medio Oriente. Tutti tranne l’Europa. Il segnale della svolta è stato l’apertura dell’ambasciata degli Emirati a Damasco
di Mario Giro


La riapertura dell’ambasciata degli Emirati Arabi Uniti a Damasco segna una svolta politica nella guerra siriana. Le potenze regionali (e non solo) che si erano scontrate durante il lungo conflitto stanno cercando una via di uscita dalla crisi che si estende in tutta l’area. Nelle stesse ore l’annuncio del presidente Donald Trump sull’interesse saudita a investire nella ricostruzione del paese distrutto dal conflitto rafforza questa impressione, soprattutto se unita alla decisione Usa di ritirare le truppe che ancora difendono l’area controllata dai curdi del Ypg, legati al Pkk.
Tutto si sta muovendo nella zona dopo anni in cui le parti erano bloccate sulle loro posizioni: da una parte il presidente siriano Bashar al-Assad e i suoi alleati Russia, Iran e Hezbollah; dall’altra l’Occidente, gli Usa e i paesi del Golfo che finanziavano a vario titolo parte della ribellione armata anti-regime. A muovere per prima è stata certamente la Turchia, una volta acerrimo nemico di Assad ed ora, dopo una serie di sterzate, partner di Russia e Iran nella ricerca di una sistemazione finale del Paese. Tutti si muovono su questo scacchiere geopolitico, tranne l’Europa, presa dai suoi problemi interni.
I ribaltamenti emiratino e (prossimamente) saudita devono molto ad alcuni recenti rovesci o gravi errori, come l’uccisione del giornalista Jamal Khashoggi nel consolato di Istanbul o l’impossibilità di una vittoria nella guerra dello Yemen che ha condotto al parziale cessate il fuoco sul porto di Hodeida negoziato dall’Onu in Svezia. Le ambizioni del saudita Mohammed Bin Salman si sono dovute riorientare e in questo senso gli Emirati paiono giocare un ruolo di avanscoperta.
L’Arabia Saudita (con i suoi più stretti alleati nel Golfo) pratica da tempo una politica a tutto campo, molto più intraprendente del passato. Sono ormai note le aspirazioni saudite in Africa sub-sahariana dove alla fase della propaganda wahabita, in atto da decenni, ne segue una politico-economica ancor più aggressiva. La penetrazione attraverso il Corno raggiunge anche la parte australe del continente e le sue risorse minerarie e alimentari. Vigilando da vicino ciò che i cinesi vi stanno realizzando (porti, infrastrutture, logistica e trasporti), i sauditi non lesinano in aiuti allo sviluppo e sono presenti in varie aree di crisi o di nuova industrializzazione. C’è poi un’attività sempre accorta da parte di Riad in Medio Oriente e uno scivolamento nei rapporti con i Paesi europei, una volta visti come partner ma oggi solo come mercati. Inoltre il recente rimpasto di governo ha dato la dimensione della resilienza del giovane leader saudita.
Resta da vedere come evolverà la concorrenza inter-sunnita con Ankara su quale sia il miglior modello “islamista” da esportazione: wahabiti/salafiti o fratelli musulmani? La crisi con il Qatar dipende da tale nodo ancora da sciogliere, anche se le tensioni si stanno abbassando. Dal canto suo l’America di Trump mantiene le sue promesse: essere imprevedibile su ogni quadrante. L’improvvisa scelta di ritirare i militari dalla Siria, abbandonando i kurdi siriani anche a costo di perdere il generale Jim Mattis, ormai ex segretario alla Difesa, prelude ad una fase di riavvicinamento con Ankara, già in atto dopo le liti degli ultimi anni che avevano raffreddato le relazioni tra i due Paesi.
Ogni mossa americana è concordata con la Russia, ma soprattutto con Israele, attiva in tutti i campi sia per la tradizionale politica di sicurezza ma anche per cogliere nuove opportunità, come appunto i recenti nuovi legami con il Golfo. Resta irrisolto per ora il grande tema iraniano, principale preoccupazione israeliana e un punto interrogativo per tutti. Sarà Assad a trovare il modo di “ringraziare” i suoi alleati più scomodi rimandandoli a casa o servirà qualche ulteriore pressione? Damasco stessa è incerta tra lo sbarazzarsene o continuare a giocare uno contro l’altro i suoi alleati (tra cui uno nuovo: la Turchia). Gli americani contano sui russi per allontanare definitivamente la presenza di Teheran dalle frontiere con Israele (ora le loro basi in Siria sono a circa 80 km) ben sapendo che le sole sanzioni e la fine dell’accordo sul nucleare non saranno sufficienti.
Anche se qualcuno a Washington prevede uno showdown militare, sembra che la soluzione verrà piuttosto da una progressiva alchimia di posizioni. D’altronde Mosca può a giusto titolo affermare di aver visto giusto e di aver vinto la sua sfida: dell’opposizione armata siriana non restano che pochi spezzoni il cui destino è nelle mani di Ankara. Tuttavia il presidente russo Vladimir Putin deve ancora riuscire a “vincere la pace”: stabilizzare l’intera area e ottenere gli aiuti per la ricostruzione della Siria. Il primo obiettivo necessita la rassicurazione degli interessi di tutti i protagonisti mediante la creazione di un nuovo quadro siriano di cui non si vedono ancora i contorni. Per il secondo scopo servono davvero tanti denari: il Paese è a terra. Mosca non può che rivolgersi a chi ha le risorse: ai Paesi del Golfo e agli occidentali, in particolare agli europei. È forse la residua possibilità per questi ultimi di “contare” qualcosa nella crisi siriana, cercando di ottenere almeno un parziale cambiamento del regime.

La Stampa 7.1.19
Margarete dal gulag al lager
L’odissea della Buber-Neumann che svelò al mondo gli orrori di Stalin
di Mirella Serri


«Prima di sistemarla su un vagone ferroviario diretto in Germania, le dettero nuovi indumenti, un buon pasto e arrivò pure un parrucchiere per farla bella». Così la scrittrice e giornalista russa Nina Berberova riassume uno dei momenti più drammatici nella vita di un personaggio d’eccezione, Margarete Buber-Neumann. Si tratta delle terribili ore del gennaio 1940 in cui la quarantenne Margarete, dopo essere stata ben pettinata e nutrita, viene consegnata ai nazisti dai sovietici che l’avevano tenuta prigioniera nel gulag di Karaganda. Nel clima di amicizia creato dal patto Molotov- Ribbentrop del 23 agosto 1939, Stalin consegnò a Hitler un migliaio di ebrei e di comunisti dissidenti, tra cui la Buber-Neumann. I tedeschi la destinarono al campo di concentramento di Ravensbrück. Il racconto di questo passaggio, dal gulag di Stalin al lager di Hitler, la Berberova lo raccoglie dalla viva voce della protagonista nel 1949 in uno dei suoi reportage per la Russkaja Mysl’, rivista destinata agli emigrati del suo Paese.
Il giornale aveva incaricato la scrittrice di seguire quello che sarà definito il processo del secolo. Il dibattimento in cui la donna tedesca rivelò tutti i suoi atroci patimenti si svolse a Parigi e il principale protagonista fu l’ingegnere Viktor Andrijovyč Kravčenko fuggito dalla Russia e approdato in America. In quell’aula di tribunale venne resa nota la realtà del sistema concentrazionario sovietico per la prima volta con enorme risonanza mediatica. Le udienze, molto seguite dai giornali di tutto il mondo, s’iniziarono il 24 gennaio di 70 anni fa e adesso la raccolta degli articoli della Berberova esce con la prefazione di Marco Belpoliti nel volume Il caso Kravčenko (il 10 gennaio da Guanda, pp. 304, € 18,50).
«Ho scelto la libertà»
Kravčenko, che era stato mandato a New York dal governo russo per trattare l’import-export di materie prime, nel 1944 decise di chiedere asilo politico negli Stati Uniti e due anni dopo di rivelare nel libro Ho scelto la libertà quello che accadeva in Urss: la povertà dilagante, il massacro dei contadini ucraini, le torture, i processi farsa e i gulag. In Italia è Mario Pannunzio, direttore di Risorgimento liberale, a pubblicare a puntate, nel 1947, con grande scandalo, il libro di Kravčenko sul suo quotidiano. Ma il caso mediatico esplode quando l’esule russo fa causa alla rivista comunista Les lettres françaises. Da questa testata viene accusato di raccontare falsità, di essere al soldo degli americani e di essere stato arruolato dai fascisti.
La Berberova, che era approdata a Parigi dopo aver abbandonato la Russia dei Soviet a metà degli Anni Venti, nei suoi resoconti sul processo è asciutta, diretta e imparziale. Però riceve minacce per i suoi articoli antistaliniani e teme di avventurarsi da sola a tarda sera per le strade della capitale francese. Ad assistere alla deposizione dell’ingegnere, della Buber-Neumann e di altri detenuti scampati all’inferno della Kolyma sono presenti calibri da novanta della cultura francese, Jean-Paul Sartre, Louis Aragon, Simone de Beauvoir e altri. L’intellighenzia parigina è in gran parte schierata contro Kravčenko. Così lo scrittore Vercors e l’intellettuale Roger Garaudy, deputato e senatore del Partito comunista francese, cercano di dimostrare, come scrive la Berberova, che i gulag sono un’invenzione di Margarete e di Kravčenko. Un’analoga opinione la condivide il famoso scienziato Jean-Frédéric Joliot-Curie, scopritore del neutrone e Nobel per la chimica. Due anni dopo non a caso si aggiudicherà il premio Stalin.
Nel numeroso pubblico, tra le schiere di poliziotti e di giornalisti accorsi da tutto il globo, cala però il silenzio, commenta la Berberova, quando arriva il momento in cui Margarete, dall’aspetto dimesso e dalla voce flebile, prende la parola. In prime nozze la comunista nata a Potsdam aveva sposato Rafael, figlio di Martin Buber, noto filosofo ebreo. Poi unisce il suo destino a quello di Heinz Neumann, consigliere personale di Stalin. Heinz osa criticare il dittatore russo dopo la sua scelta di solidarizzare con Hitler. Viene imprigionato e tenuto in ostaggio all’hotel Lux con Margarete. La notte del 27 aprile 1937 è arrestato. Poi non si hanno più sue notizie.
Con la Milena di Kafka
Margarete è la moglie, anzi la vedova a questo punto, di un «deviazionista»: questa la sua colpa. Ed è destinata al carcere femminile di Mosca. Nel ’38 viene inviata nel gulag kazaco, luogo gelido in un bacino carbonifero dove, dopo quattordici ore al giorno di estenuanti fatiche, le viene concessa una minestra di acqua tiepida. «Le condizioni di vita e di lavoro erano peggiori di quanto non le abbia trovate poi a Ravensbrück. Ma debbo anche dire che nei lager di Stalin non ho trovato il sadismo e la crudeltà individuale dei lager nazisti», ricorda Margarete.
Dopo essere stata consegnata agli uomini di Hitler e trasferita nelle baracche di Ravensbrück, la Buber-Neumann ha un incontro assai speciale con Milena Jesenská, giornalista ceca e membro della resistenza che era stata legata a Franz Kafka da un amore intenso e appassionato. Milena, che con il suo affetto e la sua solidarietà aiuta Margarete a sopravvivere, muore il 10 maggio ’44. La Berberova non manca di rilevare il tono impietoso con cui l’avvocato difensore delle Lettres françaises rimprovera Margarete di non mostrare nessuna riconoscenza per i sovietici che nel 1945 hanno spalancato le porte del campo di concentramento e le hanno restituito la libertà.
Il silenzio degli Alleati
Il resoconto reso al processo parigino dalla Buber-Neumann sulla sua tremenda prigionia sovietica (a cui dedica anche la propria autobiografia) colpisce profondamente l’opinione pubblica internazionale e rappresenta una tappa fondamentale per la conoscenza di quello che stava accadendo all’Est. Durante il periodo bellico gli Alleati avevano deciso infatti di seppellire sotto una coltre di silenzi le purghe staliniane degli Anni Trenta a causa delle quali erano morte milioni di persone. Alla fine del 1942 Stalin fu addirittura dichiarato uomo dell’anno sulla copertina di Time.
Kravčenko, grazie al quale era emersa la verità sul rispetto dei diritti umani nella patria del socialismo, vincerà la causa. La verità si era affermata, però, anche grazie all’impegno di due donne: la Buber-Neumann, ex fervente comunista che seppe sfidare con la sua denuncia un mondo che le era pregiudizialmente ostile, e la Berberova che con i suoi articoli e con il suo libro dedicato al Caso Kravčenko continuò negli anni a mantenere vivo il ricordo delle sofferenze di Margarete.

Corriere 7.1.19
Medioevo Il manoscritto della Biblioteca Braidense pubblicato integralmente dall’editore Artemide
L’Inferno prima di Dante
Fuoco, catene: in un «Sermone» duecentesco il viaggio in un atroce aldilà
di Chiara Frugoni

Un gruppo di studiosi ha recuperato il testo del XIII secolo Ogni pagina contiene fini miniature a colori e prediche
Per catturare i lettori, i temi religiosi sono affrontati attraverso continui paragoni con la vita quotidiana nella Milano di allora

Chi era disceso nell’Aldilà prima di Dante? Enea certo, e poi l’apostolo Paolo: lo dicono i manuali di letteratura. Sono i due viaggiatori più famosi che si siano spinti oltre il confine del mondo dei vivi.
Ma altri viaggiatori, meno noti, e altrettanto coraggiosi e curiosi, hanno varcato le soglie dell’Oltretomba.
Oggi un altro viaggio, una descrizione dell’Oltretomba meno nota, ma raccontata a tinte forti e terribili, rivede finalmente la luce, valorizzata dall’opera di recupero di un gruppo di studiosi del Medioevo.
La descrizione dell’Aldilà è racchiusa nei versi finali di un’opera, il Sermone di Pietro da Barsegapè, tramandata da un manoscritto custodito dalla Biblioteca Nazionale Braidense di Milano.
Il codice era già noto alla critica, che negli ultimi cento anni ha fatto diverse proposte di interpretazione e di datazione. Oggi, finalmente, quel manoscritto conosce uno studio a 360 gradi e ci svela molti dei suoi segreti. Altri misteri restano da scoprire e da comprendere.
Il manoscritto AD XIII 48 contiene un testo fatto da varie prediche in dialetto milanese del tardo Duecento; ogni pagina è decorata da miniature molto fini che le commentano e che raccontano per gli occhi ciò che la lettura propone alla mente e all’immaginario dei lettori medievali.
Per la prima volta questo manoscritto è pubblicato nella sua interezza (Artemide Edizioni), con tutte le miniature a colori, insieme a un lungo commento che illustra il significato di tutte le miniature, e saggi sulla composizione del codice, sulla lingua e sulla personalità dell’autore o degli autori del testo. Le prediche raccontano, componendo un’antologia, la storia dell’uomo, e poi dell’anima, dalla creazione del Mondo fino alla cacciata dei progenitori e poi dalla nascita di Cristo fino al Giudizio Universale, ma anche, ed è una sezione molto vivace e gustosa, di sette perverse amiche dell’uomo, i Vizi capitali.
Chi predicava voleva colpire il suo pubblico e perciò ci sono continui paragoni e richiami alla vita quotidiana della Milano duecentesca.
Ecco il mondo della città che prende forma e colore. La corona di Cristo ha spine più acute e pungenti di una lesina da calzolaio; l’apostolo Pietro, per tagliare l’orecchio a colui che in altri testi è chiamato Malco, sfodera un coltello ben affilato con la mola, ben amolao; la carne di Cristo flagellata diventa più nera del paiolo tenuto sul fuoco ricoperto da nerofumo: plu negra ka caldera ela si pariva. Per rendere evidenti le colpevoli esigenze del corpo, si ricorda che il ventre vuole essere riempito di carne di bue e di buon cappone, pietanze evidentemente ambite e desiderate.
Insomma tutto il mondo medievale, di una città che stava diventando importante, Milano appunto, si ritrova nei versi del Sermone.
E nella città, neanche a farlo apposta, c’è il problema delle strade, che — era Milano allora, come oggi Roma — avevano buche ed erano diventate pericolose. Così il predicatore-scrittore, narrando l’entrata di Cristo a Gerusalemme, propone al suo pubblico lo spettacolo delle strade dissestate; in onore di Cristo gli abitanti cercano di livellare la strada là dove sono pietre e fango, in modo che l’asina proceda senza scossoni: la strada van tuti adeguando/ la o era le prede e lo fango,/ ke la asena non habia male/ e ke la vaga plu soave («la strada vanno tutti sistemando, là dove erano pietre e fango, che l’asina non sia in difficoltà e che il cammino sia più facile»).
E nella Milano del Duecento c’è anche lo spazio per gli acquisti. Quando Cristo scaccia i mercanti dal Tempio non ci sono in vendita gli animali pronti per il sacrificio, ma la miniatura propone un negozio medievale con borse, cinture di cuoio e cappelli da viaggio.
Forse l’autore era un notaio: lo dimostra la sua dimestichezza con condanne e torture. Ad esempio Giuda si impicca con le mani legate dietro la schiena: non è un suicidio evidentemente, ma un’esecuzione. Nelle descrizioni dei Vizi capitali vengono raccontate situazioni famigliari di beghe per eredità, di soprusi e violenze.
E c’è poi anche l’uomo superbo, pieno d’ira, desideroso di potere: il politico forse, anche in quell’epoca?
Ottenebrato dall’ira quest’uomo usa la ragione che gli rimane per rendere grama la vita di chi gli è sottoposto. Pensa de viver a rapina aver dinar ad usura/ ...de fare le grande caxe con li richi solari/ fe grosse torre et alte depengie e ben merlae/ de ver calçe de saia et esser ben uestio/ d’aver riche vignie ke façan lo bon vino/ bosco da legnie lo molin e po lo forno/ ...lu uol asai ki ge stian detorno/ ora se sta superbo e molto iniquitoso («vivere di rapina, avere denari a usura, fare grandi case con ricchi solai, torri grandi, alte, dipinte e ben merlate, vestirsi bene, aver vigne ricche e che facciano buon vino, bosco da legna, il mulino, il forno, molta gente intorno a lui; ora se ne sta superbo e pieno di iniquità»).
Potrebbe essere il ritratto di Napo Della Torre, sempre in rapporti assai tesi con l’arcivescovo Ottone Visconti, in esilio, di cui il nostro notaio sarebbe a servizio. Proprio l’esilio spiegherebbe perché il notaio, seguendo gli spostamenti della curia, ha potuto conoscere tante città dei cui monumenti riporta tracce precise nelle miniature: copia dal duomo di Modena, da San Zeno di Verona, da San Giorgio di Almenno San Salvatore, dal Battistero di Parma e ancora da altre chiese.
E nel finale il predicatore fa vedere al suo pubblico il terribile spettacolo dell’inferno: vu andarì in fogo ardente/ crudel e pessimo e boliente/ in greve puça et in calor/ in tormenti et in dolor/ infimo grande e tenebroso (...)/ e çamai no trovarì bon logo/ e fame e sede aurì crudel/ ma non avrì lagie nì mel/ inançe auri diuerse pene/de crudelissime cadene/ ad un ad un firì ligai/ e molto firì marturiadi/ de scorpion e de serpenti/ e de dragon molti mordente» («voi andrete nel fuoco ardente, crudele, terribile, bollente, in una puzza greve e nel calore, nei tormenti e nel dolore infimo, grande, tenebroso (...) e mai troverete requie, e fame, sete crudele avrete, ma non avrete di che saziarvi; anzi avrete pene e crudeli catene, sarete legati e tormentati da scorpioni, serpenti, e da insaziabili dragoni»).

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