La Stampa 5.1.19
Imprese cinesi troppo indebitate
Aiuti statali per centinaia di miliardi
di F. Sem.
Il
debito delle «Corporate China» spaventa i mercati finanziari
internazionali. A partire da quelli americani dove l’aggiustamento di
mira della Federal Reserve, giunto ieri dopo settimane di incertezza sui
tassi, ha fatto dimenticare solo temporaneamente i rischi legati alle
difficoltà cinesi. A partire dall’enorme indebitamento delle aziende del
Dragone e dall’incapacità delle autorità di Pechino di procedere a
un’organica azione di «deleveraging» (ovvero la riduzione del debito
delle imprese nazionali che grava sugli equilibri economici interni e,
di riflesso, sui mercati internazionali) dinanzi al rallentamento della
crescita del Pil e alle tensioni commerciali con gli Stati Uniti di
Trump.
Ecco allora giungere la notizia che la Banca centrale
cinese (Pboc) è intervenuta ancora sui requisiti della riserva
obbligatoria degli istituti di credito con un taglio di 100 punti base
di cui la metà operativo dal 15 gennaio e il resto entro i successivi
dieci giorni. La manovra rilascerà sui mercati una liquidità netta di
800 miliardi di yuan, pari a 116 miliardi di dollari, e arriva dopo i
quattro tagli dello stesso tenore attuati nel 2018. Con il risultato che
sono stati iniettati nel mercato centinaia di miliardi di dollari
disponibili nella forma di finanziamento per le aziende cinesi.
Esattamente il contrario di quanto Pechino dovrebbe fare per agevolare
il «deleveraging».
Le stesse autorità centrali hanno definito il
taglio del debito delle aziende cinesi, in particolare di quelle
partecipate dallo Stato, una priorità nazionale al fine di preservare la
salute economica e finanziaria del Paese. Anche perché secondo la Manca
dei regolamenti internazionali la crescita del credito alle imprese
cinese, dal 2004 quando era pari a quella del Pil del Dragone, è
arrivata ad essere cinque volte superiore nel 2016, con una crescita
annua di circa 165 miliardi di dollari.
Di certo non aiuta la
guerra commerciale con gli Usa, che ad oggi ha danneggiato più i mercati
finanziari cinesi di quelli americani con lo Shanghai Composite Index
sceso del 25% lo scorso anno a fronte del calo del 6% dello S&P
500. Fa ben sperare la nuova missione a Pechino (7-8 gennaio) della
delegazione Usa, primo appuntamento negoziale sul complesso dossier dopo
la tregua sui dazi di 90 giorni siglata a Buenos Aires dai presidenti
Xi Jinping e Trump. La task-force americana sarà guidata dal vice
rappresentante sul Commercio Jeffrey Gerrish, impegnato in colloqui di
lavoro a livello ministeriale per «rafforzare il consenso» raggiunto dai
leader in Argentina facendo leva su basi «propositive e costruttive».
Il presidente Usa parla di “grandi progressi” fatti dalle parti nei
negoziati dopo la telefonata della scorsa settimana con Xi e ostenta un
certo ottimismo sul futuro. Per Pechino i colloqui saranno cruciali
anche in prospettiva di avviare quel processo di «deleveraging» che per
ora le costerebbe «solo» un punto di Pil ma che, se rimandato, potrebbe
risultare assai più penalizzante, specie per quei livelli di elevata
occupazione interna che rimangono una priorità del Partito comunista
cinese.