giovedì 31 gennaio 2019

La Stampa 31.1.19
L’ultima scintilla
di Mattia Feltri

Pare che Stefania Prestigiacomo l’abbia combinata grossa: siccome è andata sulla Sea Watch a vedere come stessero i quarantasette migranti, e per di più andandoci con Riccardo Magi, radicale ed europeista, quindi decisamente fuori moda, e peggio mi sento, con Nicola Fratoianni, un reduce post-comunista affine a Laura Boldrini, avrebbe stabilito la fine di Forza Italia, non più in sintonia con l’umore dell’elettorato. Lo si è letto in alcuni commenti di giornale, in alcune esegesi politologiche, nelle esultanze di parlamentari in piena pacchia per la spanciata di consensi. Può anche essere che le cose stiano così, o forse Forza Italia è già morta e - come il nigeriano di trentatré anni, il cui corpo da tre mesi è all’obitorio di Vercelli, insepolto perché nessuno gli paga il funerale - aspetta soltanto la tumulazione. O magari, invece, la breve traversata di Prestigiacomo è la scintilla di una destra non del tutto inabissata nel buio della rabbia e della paura, la scintilla di una destra liberale che non affronta il dramma dell’immigrazione muovendo guerra a quarantasette poveracci, di una destra liberale che combatte le battaglie che ritiene con chi le condivide, senza preclusioni ideologiche (perché questo è il sangue di una democrazia sana), di una destra liberale che considera profondamente giusto e democratico perdere consensi ma non perdere il rispetto di sé, e che non ha dimenticato quanto fu detto da un grande del Novecento, sempre immune al ricatto della moltitudine: «Se la libertà vuol dire ancora qualcosa, è la libertà di dire alle persone ciò che non vogliono sentire».
Pare che Stefania Prestigiacomo l’abbia combinata grossa: siccome è andata sulla Sea Watch a vedere come stessero i quarantasette migranti, e per di più andandoci con Riccardo Magi, radicale ed europeista, quindi decisamente fuori moda, e peggio mi sento, con Nicola Fratoianni, un reduce post-comunista affine a Laura Boldrini, avrebbe stabilito la fine di Forza Italia, non più in sintonia con l’umore dell’elettorato. Lo si è letto in alcuni commenti di giornale, in alcune esegesi politologiche, nelle esultanze di parlamentari in piena pacchia per la spanciata di consensi. Può anche essere che le cose stiano così, o forse Forza Italia è già morta e - come il nigeriano di trentatré anni, il cui corpo da tre mesi è all’obitorio di Vercelli, insepolto perché nessuno gli paga il funerale - aspetta soltanto la tumulazione. O magari, invece, la breve traversata di Prestigiacomo è la scintilla di una destra non del tutto inabissata nel buio della rabbia e della paura, la scintilla di una destra liberale che non affronta il dramma dell’immigrazione muovendo guerra a quarantasette poveracci, di una destra liberale che combatte le battaglie che ritiene con chi le condivide, senza preclusioni ideologiche (perché questo è il sangue di una democrazia sana), di una destra liberale che considera profondamente giusto e democratico perdere consensi ma non perdere il rispetto di sé, e che non ha dimenticato quanto fu detto da un grande del Novecento, sempre immune al ricatto della moltitudine: «Se la libertà vuol dire ancora qualcosa, è la libertà di dire alle persone ciò che non vogliono sentire».

il manifesto 31.1.19
Una strage al giorno: nel Mediterraneo sei vittime ogni 24 ore
Africa/Europa. I numeri choc dell’Unhcr: nel 2018 2.275 migranti hanno perso la vita in mare, un decesso ogni 14 arrivi per l’assenza di soccorsi. Filippo Grandi: «Si è creata una corsa tra paesi a non prendere migranti, quasi una gara contro la solidarietà dettata da motivi politici. C’è un’atmosfera tossica»
di Adriana Pollice


Attraversare il Mediterraneo centrale significa affrontare la rotta più letale al mondo: il tasso di mortalità dei migranti che dalla Libia si imbarcano verso l’Italia o Malta è più che raddoppiato lo scorso anno, quando le missioni di ricerca e soccorso delle ong sono state quasi azzerate e molti Stati hanno cambiato le loro politiche nei confronti dei migranti.
A certificarlo è il rapporto «Viaggi disperati» pubblicato ieri dall’Unhcr, l’Agenzia per i rifugiati delle Nazioni unite. Nonostante il significativo calo del numero di arrivi nelle coste europee, sono state circa 2.275 le persone morte o scomparse attraversando il Mediterraneo nel 2018, un decesso ogni 14 arrivi. Il tasso era uno su 38 nel 2017.
La traversata verso l’Europa è costata una media di sei vite al giorno. Se l’Europa si è sottratta, la Guardia costiera di Tripoli ha intensificato le operazioni: l’85% di chi parte viene riportato in Libia dove finisce nei centri di detenzione in condizioni terribili. In balia di milizie e degli stessi trafficanti, sono rinchiusi senza acqua né cibo per giorni, soggetti a torture, stupri ed epidemie.
Tra il 2017 e il 2018 gli arrivi in Europa sono scesi da 172.324 a 139.300, il numero più basso degli ultimi cinque anni. I flussi sono cambiati: se in Italia si è passati da 119.400 a 23.400, sono saliti in Grecia (da 35.400 a 50.500) e in Spagna (da 28.300 a 65.400). Così, nel Mediterraneo occidentale, i decessi sono cresciuti: da 202 nel 2017 a 777 nel 2018. La politica dei porti chiusi ha anche attivato la rotta via terra: in circa 24mila sono arrivati in Bosnia-Erzegovina attraverso i Balcani occidentali.
«Salvare vite in mare non è un’opzione né una questione politica, ma un imperativo primordiale – ha spiegato Filippo Grandi, Alto commissario delle Nazioni unite per i rifugiati – Possiamo porre fine a queste tragedie con un approccio basato sulla cooperazione e focalizzato sulla vita e la dignità umana». Cioè l’opposto di quanto successo nell’ultimo anno, con gli Stati europei impegnati a far valere il proprio interesse.
Il risultato sono state le navi delle ong bloccate in mare con i naufraghi per lunghi periodi senza porto di sbarco, in violazione delle norme internazionali. L’Unhcr sottolinea, poi, che l’intero viaggio per i migranti è «un incubo» che li espone a torture, stupri e sequestri a scopo d’estorsione: «Gli Stati devono agire con urgenza per scardinare le reti dei trafficanti e consegnarli alla giustizia».
Grandi accusa: «L’afflusso registrato nell’Ue nel 2018 è gestibile. Ci sono paesi in Africa o in Asia dove 139mila persone arrivano in un mese e ce la fanno». Secondo Grandi, il dato positivo riguarda i ricollocamenti che, pure in mancanza di una linea comune, alla fine si ottengono: «Nonostante lo stallo politico, rispetto all’avanzamento di un approccio regionale ai soccorsi e agli sbarchi, diversi Stati hanno assunto l’impegno di ricollocare le persone soccorse nel Mediterraneo centrale, una potenziale base per una soluzione duratura. Gli Stati hanno inoltre promesso migliaia di posti destinati al reinsediamento per permettere l’evacuazione dei rifugiati dalla Libia. L’Italia si è impegnata per 400 e, in parte, è stato questo governo».
Resta da parte dell’Alto commissario il giudizio negativo sui paesi Ue: «L’Europa può gestire il fenomeno, ci vuole al più presto almeno un accordo temporaneo tra volenterosi in modo da poter fare gli sbarchi senza provocare ogni volta tensioni, senza intossicare il dibattito per fini politico-elettorali».
Per poi attaccare: «I governi spostano il problema fuori dai loro confini invece di risolverlo. In Libia i paesi europei hanno rafforzato solo la Guardia costiera, perché questo contribuisce a ridurre gli sbarchi, ma i migranti salvati entrano nel circolo vizioso dei centri di detenzione in condizioni orribili».
E ancora: «Bisogna intervenire su tutto il contesto libico in modo che anche lì queste persone possano essere gestite in maniera umana». Sulle ong: «Rifiuto le accuse mosse loro. La capacità di salvataggio di ong e privati deve essere mantenuta, non può essere vista come un fattore che incentiva le partenze. La presenza di queste navi nel Mediterraneo centrale si è ridotta da 10 a 2 ed è stata una delle cause dell’aumento del tasso di mortalità».
La conclusione è amara: «Si è creata una corsa tra paesi a non prendere migranti, quasi una gara contro la solidarietà dettata da motivi politici interni. Non vedo la volontà di risolvere i problemi, c’è un’atmosfera tossica».

Repubblica 31.1.19
Richieste di aiuto ignorate
L’accusa di aver perso tempo prezioso in attesa che intervenissero i libici
La Guardia costiera nel mirino dei pm per l’ultima strage
Svolta sui 117 migranti morti in mare Ipotesi omissione di soccorso, atti a Roma
di Alessandra Ziniti


SIRACUSA L’ipotesi di reato è pesante: omissione di soccorso. Per il primo naufragio nel Mediterraneo del 2019, quello del 18 gennaio in cui hanno perso la vita 117 persone, nel mirino dei pm finisce di nuovo il Centro di coordinamento di ricerca e soccorso della Guardia costiera italiana. Come nel caso della strage dell’11 ottobre 2013, per la quale sono a giudizio alcuni ufficiali ritenuti responsabili del ritardo nei soccorsi al barcone pieno di bambini che colò a picco, causando la morte di 268 persone.
Ora la Procura di Agrigento, che indaga sul naufragio al quale sono sopravvissute solo tre persone, ha inviato il fascicolo, al momento senza indagati, alla Procura di Roma. Chiedendo di verificare la sussistenza dell’ipotesi di reato di omissione di soccorso da parte degli ufficiali che, quel venerdì, furono informati che un gommone stava affondando da un aereo del 41esimo stormo dell’Aeronautica militare di Sigonella, che lanciò ai migranti due zattere. Solo diverse ore dopo, un elicottero partito dal cacciatorpediniere Duilio della Marina italiana issò con il verricello gli unici tre trovati ancora in vita, due aggrappati alle zattere, uno in acqua. Ma a scomparire in mare — hanno raccontato poi i superstiti — sono stati 117 naufraghi, ben di più dei 50 avvistati dall’alto mentre il gommone era già semiaffondato.
Un numero del quale i sopravvissuti sono assolutamente certi. «I trafficanti ci imbarcavano a dieci a dieci — hanno raccontato al pm Salvatore Vella — A 120 hanno dato ordine di partire. In spiaggia sono rimaste otto donne, che non avevano pagato tutto il biglietto, e che così si sono salvate».
Ma forse, è il terribile sospetto che aleggia nella prima ricostruzione dei pm di Agrigento, molti altri avrebbero potuto salvarsi se i soccorsi fossero arrivati tempestivi. E invece i migranti, tutti senza salvagente, sono rimasti in mare per ore. Il naufragio è avvenuto a 50 miglia da Tripoli, in zona Sar libica. Ma la legge dice che, fino a quando l’autorità Sar competente non assume il coordinamento dei soccorsi, la responsabilità è di chi per primo viene a sapere che c’è un’imbarcazione in pericolo. In questo caso, la sala operativa della Guardia costiera di Roma.
Che, ormai da mesi, risponde a ogni richiesta di soccorso in arrivo dalla Sar libica dicendo di rivolgersi ai numeri della Guardia costiera di Tripoli, ai quali non risponde quasi mai nessuno.
Cosa avvenne veramente nel Mediterraneo la mattina del 18 gennaio? Com’è possibile che nessuna imbarcazione abbia raggiunto il gommone a una distanza così breve dalla costa?
L’unica nave umanitaria presente in mare, la Sea Watch 3, informata dai piloti del Moonbird ( la Ong dell’aria), chiese subito le coordinate all’Imrcc Roma, ma non ottenne alcuna informazione. «La responsabilità del soccorso è di Tripoli», fu la secca risposta. Ma i numeri della Guardia costiera squillavano a vuoto e nessuna motovedetta libica ha mai raggiunto quel gommone. Di più: il Moonbird avrebbe visto una nave mercantile passare nelle vicinanze senza fermarsi. Solo alle 15.02, quando la sala operativa di Roma ha diramato l’avviso "Navitex" a tutte le imbarcazioni in zona, la Sea Watch ha appreso le coordinate del naufragio. Ma era a ben 10 ore di navigazione. Quando è arrivata sul posto era notte fonda, le due zattere gialle vuote, nessuno, vivo o morto, in vista. Gli unici tre superstiti erano già stati trasportati d’urgenza a Lampedusa dall’elicottero della Marina che aveva avvistato anche tre cadaveri.
La Guardia costiera italiana ha messo subito in atto tutti i soccorsi possibili o ha invece fatto passare tempo prezioso, negando informazioni alle Ong, in attesa che i libici assumessero il coordinamento delle operazioni? È questo il delicatissimo interrogativo al quale dovranno ora rispondere i pm di Roma, con una indagine che potrebbe mettere a nudo tutte le falle di quel che resta del sistema dei soccorsi nel Mediterraneo dopo l’istituzione della zona Sar libica.

La Stampa 31.1.19
“Viola 26 norme della Carta”
Primo ricorso alla Consulta contro il decreto sicurezza
di Giuseppe Salvaggiulo


«Si sperava di non dover vedere mai più scene come quelle andate in onda, proprio intorno al Giorno della Memoria, al Cara di Castelnuovo di Porto, dove numerosi migranti di colore, donne e bambini inclusi, già integrati nel territorio, sono stati caricati su autobus e deportati in località loro ignote. Si è trattato del primo esempio di applicazione pratica del decreto Salvini, norme che vanno cancellate perché mostrano le caratteristiche devastanti di un virus letale per il nostro ordine democratico». Comincia così l’atto che porta la battaglia sul decreto sicurezza all’attenzione della Corte costituzionale. Sin dalla prima delle 96 pagine, il ricorso della Regione Piemonte depositato oggi (quelli di altre Regioni seguiranno) rappresenta una sfida sul piano politico e giuridico al governo. La tesi di fondo è che questa «congerie eterogenea di norme imposte al Paese con la decretazione d’urgenza e l’imposizione della questione di fiducia» concretizza «una precisa strategia politica xenofoba e securitaria su cui una componente della maggioranza fonda il suo consenso elettorale e che fa strame di valori costituzionali fondamentali», limitando «i diritti delle persone e criminalizzando lo straniero e chi, in generale, si trova in condizione di vulnerabilità sociale».
Il ricorso è stato affidato dal governatore Sergio Chiamparino a un pool di giuristi guidati da Ugo Mattei, docente a Torino e Berkeley, presidente dell’International University College e a lungo collaboratore di Stefano Rodotà. L’argomento introduttivo è che il decreto si basa, nella sua «necessità e urgenza», su due presupposti di fatto - l’emergenza sbarchi e il numero abnorme di permessi umanitari concessi agli stranieri - smentiti dagli stessi dati del Viminale: gli sbarchi sono crollati dell’80% prima dell’entrata in vigore del decreto e nel 2017 l’Italia ha registrato il 10% dei profughi accolti in Germania.
Su fake news, sostiene il ricorso, è stata costruita una riforma incoerente con il «disegno sociale e inclusivo» della Costituzione, cui anche le Regioni sono chiamate a corrispondere e che le legittima, «esercitando il dovere di resistenza presente in capo a tutti gli enti costitutivi della Repubblica», a rivolgersi alla Consulta.
Il ricorso attacca analiticamente l’impianto «irragionevolmente discriminatorio» del decreto, denunciando la violazione di 26 norme costituzionali, tra cui gran parte dei principi fondamentali contenuti nei primi articoli, e 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. E ne analizza gli effetti dannosi a ogni livello: «Determina il vistoso incremento della condizione di irregolarità dello straniero, aumentando (anziché diminuire) fenomeni di criminalità»; «ostacola lo sviluppo economico del territorio precludendo e interrompendo ingiustificatamente un percorso di integrazione dello straniero»; «impedisce l’effettivo esercizio dei diritti della persona limitando significativamente l’iscrizione anagrafica dello straniero, da cui dipende la fruizione di servizi pubblici essenziali, come quelli sanitari e assistenziali».
La seconda parte del ricorso è dedicata ai «bersagli anche italiani» delle norme sulla sicurezza pubblica del decreto, che «limitano i diritti e marginalizzano i poveri»: tra queste l’estensione del cosiddetto Daspo urbano agli ospedali, che impedisce alla Regione, per esempio, di tutelare pienamente il diritto alla salute di intere categorie di cittadini, peraltro quelle non in grado di provvedere autonomamente.
Sono sei le Regioni che nelle scorse settimane avevano annunciato l’intenzione di rivolgersi alla Corte costituzionale. Quello del Piemonte sarà il ricorso pilota, gli altri saranno riuniti. Entro metà marzo la presidenza del Consiglio si costituirà in giudizio con una memoria difensiva. A quel punto il presidente della Consulta nomina un giudice relatore per istruire la questione e fissa l’udienza, non prima di metà aprile. I tempi per una sentenza prima delle elezioni europee e regionali di fine maggio ci sono.

Corriere 31.1.19
Un anno fa la morte di Pamela Mastropietro
Le periferie, i migranti e il bisogno di sicurezza
di Goffredo Buccini


E’ un anno in questi giorni. L’Italia ha girato una pagina della sua storia fra il 30 gennaio e il 3 febbraio 2018: tra la morte della diciottenne Pamela Mastropietro e il raid razzista di Luca Traini, che pensò di vendicarla sparando a casaccio contro sei migranti nelle strade di Macerata. Solo a freddo, però, è possibile capire quanto, con quella pagina, sia stato spazzato via del lessico politico e popolare degli italiani, di equilibri e limiti consolidati in settant’anni della nostra vicenda repubblicana.
Per prima è caduta un’illusione: il mito (un po’ fasullo) degli «italiani brava gente», rimpiazzato con la realtà degli «italiani incattiviti» di cui parla il Censis. Pochi l’avevano capito: il consenso trasversale a Traini svelò un Paese negletto nel quale analisti e centrosinistra a trazione Pd derubricavano in «percezioni» (magari gonfiate ad arte) questa ostilità montante. Il giorno dopo la scorribanda del killer suprematista, con sei ragazzi neri feriti in ospedale, raccogliemmo la frase di un bottegaio del centro di Macerata che, nella sua feroce ingenuità, rendeva come pochi il sentimento popolare: «Ce l’ho un po’ con quel ragazzo! E che, se spara così? Poteva piglia’ qualcuno!».
Non vedevamo che, persino in una provincia come Macerata, gli effetti di un’accoglienza fallimentare stavano consegnando pezzi di città a disperati fuorusciti dagli Sprar come Innocent Oseghale (ora a processo per l’assassinio di Pamela) e agli spacciatori nigeriani che dominavano i Giardini Diaz. Molte periferie delle città metropolitane stavano ben peggio: la paura non era un’invenzione della destra sovranista.
Così il 2018 è stato l’anno che ha sancito il divorzio della sinistra dalla sua vecchia base elettorale (la separazione era già in atto da molto tempo) e il suo radicamento elettorale — simile a una ridotta — nei quartieri della borghesia agiata: tendenza planetaria, che in Italia stiamo interpretando in modo del tutto originale avendo al governo contemporaneamente due forze populiste spesso con idee contrastanti. È stato l’anno del tiro sui migranti (letteralmente: mai così tanti gli episodi di violenza su chi ha la pelle scura, con l’omicidio del giovane sindacalista Soumaila Sacko in cima alla lista). Ma è stato anche l’anno dell’omicidio in fotocopia di Desirée Mariottini, a ottobre, nel quartiere romano di San Lorenzo: così simile a quello di Pamela Mastropietro da mostrare come i ghetti urbani possano aprirsi anche in quartieri centrali che presumevamo gentrificati e quanto la questione dei clandestini (erano tutti irregolari in Italia gli aguzzini della ragazzina) continui a produrre errori ed orrori: ai seicentomila invisibili in giro se ne aggiungeranno 130 mila nei prossimi due anni secondo l’Ispi, quasi un’eterogenesi dei fini nella legge Salvini sulla sicurezza.
È stato naturalmente l’anno di Matteo Salvini, che ha incarnato il disagio di quell’Italia e ne ha tratto massimo consenso, rovesciando i rapporti di forza con Berlusconi anche (o forse proprio) per paradossale effetto dei fatti di Macerata (Traini era stato candidato leghista alle comunali 2017 nel vicino paese di Corridonia). Uomo forte del governo gialloverde, Salvini è ora inseguito da problemi non risolvibili con uno slogan: gli stessi che hanno flagellato il centrosinistra. I rimpatri presuppongono vaste operazioni di polizia e poi accordi internazionali, i nuovi e più ampi Cie (ora Cpr) implicano l’intesa con gli enti locali, il rischio di buttare per strada torme di sbandati è sotto i nostri occhi.
E tuttavia l’anno incattivito di Pamela e Desirée ci dimostra che non sarà possibile tornare a parlare di solidarietà agli italiani senza massicce iniezioni di sicurezza. E di quattrini. Le periferie hanno bisogno di soldi e in questo senso aver sottratto loro un miliardo e 600 milioni del vecchio bando voluto da Gentiloni congelandoli per tre anni (traduzione: sine die) appare un’idea contraddittoria per un governo che nelle periferie ha la sua constituency.
Viene in mente Michel Rocard e il suo «discorso del pianerottolo» del 1988. Sentendo il malessere sociale che montava in Francia e prevedendo la rivolta delle banlieue, da premier socialista immaginò di ripartire dal porta a porta: piccole riparazioni fisiche e sociali, la cassetta delle lettere rotta, la lampadina sul pianerottolo fulminata, sognando una Francia in cui la gente tornasse a parlare al proprio vicino. Lo presero in giro: signor primo ministro, non sogni, governi... Molti anni dopo, e in una situazione di disordine globale, quel sogno sembra una lezione di realismo.

il manifesto 31.1.19
«Leggeremo le carte». I 5 Stelle si preparano a salvare Salvini
Diciotti. La grillina Lombardi: ci costerà caro. Attesa la memoria di Conte, Di Maio e Toninelli sulla condivisione delle scelte. Sibilia insiste: «Voteremo sì». Nugnes: «Se M5S dice no al processo me ne vado». Il presidente della giunta per le autorizzazioni Gasparri assicura: il voto entro il 22 febbraio
di Andrea Colombo


Nel guaio in cui si trovano Salvini e i 5S ci si sono cacciati da soli: il primo per la tendenza a fare il gradasso, i secondi perché ostaggi della loro stessa propaganda anticasta, tutti per non aver capito bene i termini della questione e la posta in gioco. Ieri, nella prima seduta della giunta per l’immunità del Senato, il presidente Gasparri ha provato a chiarire la reale natura del voto con cui la giunta e poi l’aula dovranno esprimersi sulla richiesta di autorizzazione a procedere contro il ministro degli Interni.
NON SPETTA ALLA GIUNTA, ha spiegato Gasparri, decidere sull’esistenza o meno di un reato. Non è questo il compito che la Costituzione assegna al Tribunale dei Ministri e alla giunta, che invece «è chiamata a valutare se l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico». In concreto la giunta deve dire se Salvini ha impedito dal 20 al 25 agosto lo sbarco dei profughi della Diciotti nell’interesse dello Stato oppure per soddisfare sentimenti personali. Non si tratta dunque di un voto sull’immunità e stando così le cose M5S non potrebbe che votare contro l’autorizzazione. Ma è una sottigliezza costituzionale sin qui sfuggita ai parlamentari a cinque stelle che devono giustificarsi di fronte al loro elettorato. Dunque i 5S si trovano ora incartati tra una propaganda che per anni ha assicurato che mai si sarebbe votato contro un’autorizzazione a procedere, e che il Pd ora impugna, e una situazione molto diversa da quelle abituali. Autorizzare il provvedimento significherebbe infatti affermare che Salvini ha agito per motivi diversi dall’interesse pubblico: a quel punto l’esito del processo sarebbe quasi segnato. E’ persino dubbio che la Corte accetterebbe le testimonianze del premier e degli altri ministri, essendo già certificato che il ministro degli Interni ha appunto agito per motivi diversi dall’interesse pubblico e di Stato.
DALL’ALTRO LATO PERÒ i pentastellati di rigida fede sono irremovibili. «Voteremo sì», insiste Sibilia. «Salvare Salvini ci costerebbe caro. Prima del contratto di governo c’è il patto con gli elettori», rincara Roberta Lombardi. «Se M5S vota contro l’autorizzazione lascio il Movimento», minaccia Paola Nugnes. Posizioni che riflettono quelle, anche più severe, di una parte dell’elettorato.
Ma i 5S iniziano a rendersi conto di non avere scelta e di dover preparare il terreno per un voto che sarà inevitabilmente preso per un voltafaccia, tanto più che lo stesso Salvini ci ha messo del suo con le improvvide dichiarazioni da “ganassa” sull’intenzione di farsi processare. «Leggeremo le carte poi decideremo«, annuncia il capogruppo in giunta Mario Giarrusso, chiarendo così che la scelta a favore del sì, sino al giorno prima certa, è ora in forse. Anzi molto in forse. «Le carte» in questione sono una memoria che Conte, Di Maio e il ministro per le Infrastrutture Toninelli si sono impegnati a consegnare per affermare ufficialmente che quella di Salvini è stata una decisione condivisa da tutto il governo. Ma Gasparri ha subito risposto che il solo interlocutore della giunta sarà Salvini, che potrà tutt’al più aggiungere l’autodenuncia collettiva del governo alla sua relazione.
SARÀ PROPRIO L’INTERVENTO di autodifesa di Salvini, scritto o più probabilmente dal vivo, in data non ancora fissata ma la più accreditata è mercoledì prossimo, il momento clou della vicenda. Il ministro insisterà sulla linea già esposta nella lettera al Corriere della Sera, l’aver cioè agito nell’interesse costituzionalmente rilevante dello Stato. Governo e maggioranza affermeranno quindi che il voto ha assunto un significato politico chiaro: approvazione o meno della linea politica del governo sull’immigrazione. Fiducia o sfiducia. Entro il 22 febbraio Gasparri promette il voto in giunta, poi in un mese, l’aula. Se M5S voterà per l’autorizzazione non succederà niente, garantisce Salvini. Meno rassicurante Fedriga: «In quel caso bisognerà ridiscutere tutto». Minimizza: in quel caso la maggioranza non ci sarebbe più. Ma l’ipotesi del sì dei 5S all’autorizzazione si fa di ora in ora più remota.

Il Fatto 31.1.19
Processo Salvini, panico M5S e l’ipotesi dell’autodenuncia
In difficoltà - Conte e i 5Stelle: “Sulla Diciotti il governo fu unanime”. Il Movimento non può bloccare i giudici, ma i suoi ministri potrebbero chiedere di essere processati
di Luca De Carolis


Salvini fa la mossa, ed è panico a Cinque Stelle. Perché il coinquilino si rimangia la parola e pretende che non lo mandino a processo, nero su bianco. E il M5S s’impantana: sospeso tra l’obbligo di rispettare i propri codici, quindi di dire sì al rinvio a giudizio, e la paura che crolli tutto, cioè il governo. E in un martedì da calvario oscilla tra varie scelte: convincere i suoi ministri ad autodenunciarsi votando comunque sì, oppure lasciare libertà di coscienza ai senatori, o votare no. Tanto ha potuto la lettera di ieri del ministro dell’Interno al Corriere della Sera , che fino a domenica giurava di non voler fare muro al processo per sequestro di persona, chiesto per lui dal tribunale dei ministri di Catania per il caso della nave Diciotti.
Però già lunedì aveva fatto uscire i due capigruppo alle Camere contro il rinvio a giudizio, e fatto trapelare dubbi sulle sue intenzioni. E ieri ha sterzato. “Ritengo che l’autorizzazione a procedere vada negata” scrive il vicepremier. E la ragione la spiega così: “Ai sensi della legge costituzionale n.1 del 1989, il Senato nega l’autorizzazione ove reputi che l’inquisito abbia agito per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo”. Tradotto, ho agito da ministro nell’interesse dello Stato, quindi vado tutelato. E suona come un ultimatum a cui è legato il futuro del governo. Di certo è una coltellata per Di Maio, a cui Salvini aveva dato rassicurazioni (“Non vi chiedo nulla Luigi, il governo non rischia”).
Ma qualcosa è cambiato. “Matteo ha parlato con gli avvocati e si è spaventato, teme una condanna” sostengono dal Movimento. Però la sua giravolta può spaccare il M5S. E non può dispiacergli, a quattro mesi dalle Europee. Per questo Di Maio è furioso, e di prima mattina ordina ai suoi di tenere la linea, quella del sì al processo. La ripetono il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano e la presidente della commissione Giustizia Giulia Sarti. E già Di Stefano indica un punto di caduta: “Conte e Di Maio hanno detto che sono disposti a farsi processare insieme, perché sono scelte di tutto governo”. Ovvero, si ostenta di voler condividere il destino dell’alleato. Però ad Agorà il deputato Emilio Carelli è sincero: “Non so se voteremo sì o no, le cose sono cambiate”. E con il passare delle ore nel M5S la temperatura sale, parecchio. Perché in molti lo predicano: “Autodenunciamoci, non lasciamo alibi alla Lega”.
Ma i vertici sono perplessi. Mentre l’ala movimentista pressa: “Se votiamo no siamo morti”. E il sì è sicuramente la scelta preferita dal presidente Camera Roberto Fico, che però si tiene lontano dalla vicenda. Ma parla dritto il deputato Luigi Gallo, a lui vicino: “Salvini va processato, la legge è uguale per tutti”. Intanto Di Maio cerca l’altro vicepremier, con l’obiettivo di farlo ricredere: senza esito. Mentre si valuta un voto sul blog per chiedere la linea agli iscritti. “Ma potrebbe tramutarsi in un referendum pro Salvini” riconoscono. E poi “sui social anche molti dei nostri chiedono di salvarlo”. Così si pensa anche all’ultimo rifugio, ossia alla libertà di coscienza per i senatori: anche perché i sette grillini in giunta per le autorizzazioni sono in gran parte contro il rinvio a giudizio. “Però con il no dritto ci spaccheremmo in Aula”, è l’obiezione. Di Maio invece fa sapere che incontrerà i sette della giunta per cercare una soluzione. Mentre in Senato il sottosegretario all’Economia leghista Massimo Garavaglia morde: “Autodenunciarsi è una cretinata, non serve a niente”. Eppure è quello che ripete a Di Martedì il ministro ai Trasporti Danilo Toninelli, parte in causa nella vicenda Diciotti: “Voto perché tutto il governo venga sottoposto a processo”.
Intanto Di Maio sente più volte il premier Giuseppe Conte, in visita a Cipro. E a Porta a Porta appare Alessandro Di Battista. “Di Maio avrebbe rinunciato all’immunità. Salvini ha cambiato versione” attacca. Ma poi smussa: “Non è giusto processare solo il leghista, Conte dovrebbe scrivere al tribunale dei ministri e alla giunta, attestando che la decisione è stata un atto di governo condiviso”. E in giunta? “Credo proprio che voteremo sì”.
Pare la svolta: e invece no. “Alessandro parla da battitore libero” dicono. Ergo, la via d’uscita va trovata altrove. Ma Conte sembra in linea: “Mi assumo la piena responsabilità politica per la vicenda Diciotti”. Sulla via del ritorno, il premier convoca un vertice notturno con i due vice. Ma prima Salvini incontra i suoi senatori. “Mi presenterò in Giunta, è mio dovere” rende noto. “Comunque vada vincerà comunque lui” osserva un sottosegretario del M5S. Sconsolato.

La Stampa 31.1.19
Il travaglio dei grillini per salvare l’amico
di Marcello Sorgi


Merita certo attenzione il travaglio che il Movimento 5 Stelle sta affrontando per passare dal «sì» al «no» all’autorizzazione a procedere contro Salvini. La procedura è cominciata ieri con la prima seduta della Giunta del Senato, presieduta da Gasparri, e vedrà tra sette giorni un intervento del ministro dell’Interno a sua discolpa e una memoria firmata da Conte, Di Maio e Toninelli - la cui ammissibilità, ha obiettato lo stesso presidente della Giunta, è dubbia - per assumersi in solido con Salvini la responsabilità delle decisioni prese nella vicenda della «Diciotti».
Che tra i 5 Stelle il salvataggio dell’alleato leghista sia difficile da digerire, è evidente. E non solo per l’aperto dissenso che comincia ad emergere, anche da parte di esponenti storici come Roberta Lombardi, o per il numero di parlamentari che a mezza voce e sotto promessa del l’anonimato ripetono che alla fine, tra la fedeltà a Salvini e quella alla storia del Movimento, che ha sempre votato «sì» alle autorizzazioni, sarà la seconda a prevalere. Bastava ascoltare ieri il senatore Giarrusso, membro pentastellato della Giunta in altre occasioni in prima fila come accusatore dei parlamentari inquisiti, barcamenarsi con le «novità» uscite dal vertice notturno a Palazzo Chigi con il presidente del Consiglio di ritorno da Cipro, dove aveva ottenuto la solidarietà dei sette Paesi europei disposti ad accogliere i migranti che ha consentito l’attracco della «Sea watch» a Catania, e i due vicepremier.
Perché è la strada scelta per uscire dall’impasse che non convince. Un conto era infatti la solidarietà politica a Salvini in cambio della sua disponibilità ad affrontare il processo, e un altro il salvataggio con il «no» all’autorizzazione a procedere, basato sulla stessa condivisione di responsabilità, ma finalizzato a una via d’uscita simile a quella di cui in passato si erano serviti i grandi inquisiti della Prima Repubblica, e nella Seconda, con il voto sempre contrario dei 5 Stelle, Berlusconi. Una soluzione arzigogolata difficile da spiegare agli elettori del Movimento. Inoltre Salvini sarà l’unico membro del governo autorizzato a parlare in Giunta, e occorrerà aspettare di sentire cosa dirà. Insomma la strada del salvataggio è ancora lunga e accidentata.

La Stampa 31.1.19
M5S a pezzi sul caso Salvini
L’area Fico: sì al processo
Lombardi: “Con un no tradiremmo noi stessi”. Ma Di Maio frena tutti
di Federico Capurso


Matteo Salvini chiede di essere salvato dal processo. E lo chiede al partito che nel terreno del giustizialismo piantò il suo seme. Così, le prime convulsioni grilline scuotono la maggioranza. Chi minaccia di andarsene, chi di votare contro il leader della Lega qualunque decisione prenda il partito. Il corpaccione parlamentare del Movimento 5 stelle, d’altronde, è privo di una linea politica chiara. E nella confusione, nella paura, nella rabbia che ne derivano, inizia a squagliarsi.
La Giunta per le immunità del Senato si è riunita ieri per la prima volta con l’obiettivo di iniziare a studiare le carte, tra una settimana accoglierà la memoria di Salvini ed entro il 22 febbraio dovrà emettere un verdetto. «Dobbiamo studiare», dicono in coro i sette senatori M5S che siedono in giunta. Tradotto: «Dobbiamo prendere tempo», come indicato dal leader Di Maio la sera prima. Intanto, però, se la strada per il “Sì” alla richiesta di autorizzazione a procedere è già pronta, il Movimento inizia anche a preparare il terreno ad un possibile “No”. «Togliamo dal tavolo la questione dell’immunità», dice la senatrice M5S Agnese Gallicchio, membro della Giunta. «Quello che dobbiamo fare - spiega - è decidere se Salvini ha agito nel superiore interesse nazionale. Nient’altro». E secondo il collega Francesco Urraro «sarebbe la prima volta in cui viene presa questa decisione su un ministro. È una cosa nuova. Stiamo facendo giurisprudenza». Insomma, lo slogan “basta immunità” sul quale sono nati i grillini, «non c’entra niente», sostengono.
Ma è ancora troppo poco, per calmare le anime grilline “ortodosse”, guidate dal presidente della Camera Roberto Fico. Lui non può prendere una posizione, perché il ruolo che ricopre glielo impedisce, ma “vorrebbe, fortissimamente vorrebbe”. Tanto che gli uomini a lui più fedeli assicurano: «Chi si sta schierando per mandare a processo Salvini, è cosciente dell’appoggio ideale di Roberto». E tanto basta. Roberta Lombardi, ex deputata di peso, da sempre considerata vicina a Beppe Grillo (e di conseguenza a Fico), interviene sull’Huffington Post e tuona: «A uscirne perdente sarà il Movimento, se voterà contro l’autorizzazione a procedere nei confronti di Salvini, abdicando così ai suoi valori identitari». Il M5S, prosegue, apparirebbe «come quello che ha immolato se stesso sull’altare del governo, mentre Salvini come colui che, duro e puro fino alla fine, si è immolato sull’altare della Patria contro l’invasione scafista. E alla fine a dettare la linea, quando ormai sarà troppo tardi, saranno i nostri elettori». Anche il sottosegretario agli Interni Carlo Sibilia, che non si può certo definire un dimaiano di ferro, è netto: «Va fatta una riflessione tecnica all’interno della Giunta, ma se il caso andrà in aula, noi voteremo assolutamente sì, perché il M5S non ha mai negato il processo a un politico». La più dura, però, è la senatrice Paola Nugnes, da tempo in rotta di collisione con la nuova gestione del partito targata Di Maio, ora «pronta a lasciare il Movimento, se verrà salvato Salvini». E non è l’unica ortodossa in Senato a essere tentata da un addio. In tutto, «potrebbero essere in tre», sostengono dai piani alti del Movimento. Capaci, dunque, di avvicinare pericolosamente questa maggioranza alla soglia dei 161 senatori, oltre la quale c’è il baratro. Per questo Di Maio chiede di prendere tempo, mentre cerca una “exit strategy” che salvi la compattezza del partito e scongiuri l’ipotesi di nuove maggioranze, magari con l’ingresso di Fratelli d’Italia. In caso di strappo con l’ala ortodossa, comunque, il voto in Aula sull’immunità di Salvini non sarà il vero banco di prova della maggioranza: l’appoggio esterno, infatti, arriverà da alcuni membri del gruppo Misto e dal centrodestra. Ma navigare a vista, certo, è una prospettiva poco rassicurante.

Corriere 31.1.19
La prospettiva di un’Italia sempre più euroscettica
di Massimo Franco


Per la prima volta nella sua storia, l’Italia probabilmente avrà una rappresentanza al Parlamento di Strasburgo meno europeista di sempre. La somma di Movimento Cinque Stelle e Lega conferirà al nostro Paese una chiara piega eurocritica, se non euroscettica: riflesso fedele dell’evoluzione o involuzione che i rapporti con la Ue hanno subito negli ultimi anni; e dell’ascesa e del consolidamento dei consensi della maggioranza gialloverde. Le proiezioni rese note ieri dall’Istituto Carlo Cattaneo di Bologna sono inequivocabili. E fanno capire quanto sia cambiato lo sfondo politico in soli cinque anni.
Il crollo della sinistra e lo svuotamento progressivo di Forza Italia mostrano un elettorato radicalizzato e scettico. Così, il Pd potrebbe passare da 32 a 15 seggi, FI da 13 a 8, mentre il M5S viene dato in crescita da 17 a 22, e la Lega, la più antieuropea, da 5 a 28. Sono proiezioni, certamente, ma anche indicatori di una tendenza. E preparano una ipoteca delle forze cosiddette populiste e sovraniste sulle maggioranze tradizionali imperniate su popolari e socialdemocratici. Difficile prevedere quali riflessi un simile risultato avrebbe sulla politica estera italiana.
Ma quanto sta avvenendo sul ritiro del contingente dall’Afghanistan offre qualche indizio; come anche le posizioni filorusse di un filone prevalente nel partito di Matteo Salvini e tra i Cinque Stelle, e un antiamericanismo quasi ostentato da esponenti grillini come Alessandro Di Battista. Se questo si salda con una strategia contro l’immigrazione clandestina dai contorni aggressivi verso le istituzioni di Bruxelles, il risultato promette di essere una sfida continua.
Un attrito tra l’Italia e gli alleati potrebbe portare a una legittimazione del governo, o al suo isolamento. Una delle variabili più pesanti sarà l’andamento dell’economia. Il premier Giuseppe Conte scommette su una ripresa nel secondo semestre del 2019. E confida che dalla Commissione Ue non arrivino bordate contro reddito di cittadinanza e quota 100 sulle pensioni. Il vicepremier Matteo Salvini, capo della Lega, sembra soddisfatto.
Citando Conte, elenca: «Spread è ai minimi da sei mesi. Grande richiesta di Bot con rendimenti in diminuzione e fiducia dei consumatori italiani in crescita: tutti ottimi segnali, lavoriamo per migliorare ancora». Forse è una visione troppo ottimistica. Ma inevitabile, da parte di chi scommette su una politica espansiva contro ogni previsione. Bisogna solo capire se i prossimi dati sulla produzione e sulla crescita confermeranno o smentiranno la narrativa governativa. E se anche la Commissione europea vorrà dire la sua, prima delle Europee di maggio.

il manifesto 31.1.19
Lucano: «Una buona notizia in un periodo di amarezza»
Nobel per la pace. Raccolte oltre 90mila firme per candidare Riace. L'ex sindaco: «Chi ci governa è come Pinochet, passa con autorità sulla pelle degli esseri umani»
di Giansandro Merli


ROMA Gli applausi durante una conferenza stampa non capitano spesso, ma attorno alla figura di Domenico Lucano si addensano più eccezioni che consuetudini. Compresa questa. Quando arriva all’iniziativa «Riace Nobel per la pace 2019» alcuni dei presenti si alzano in piedi, chi sta parlando cede il microfono, tutti battono le mani. Ha mezz’ora di ritardo e fuori piove.
Attraversa la sala incerto, stringe qualche mano e prende posto. Si ritrova un microfono davanti e gli occhi della platea addosso. Abbassa lo sguardo, respira profondamente, farfuglia un saluto e qualche ringraziamento. Poi dice: «Questa raccolta di firme per candidare Riace al Nobel – sono oltre 90mila, tra cui 2.750 docenti e 1.250 associazioni – è una buona notizia in un periodo in cui prevale l’amarezza. Vorrei condividere questa iniziativa con tutti i rifugiati del mondo e con chi desidera una società più giusta e umana. La mia situazione personale è una cosa insignificante rispetto a quello che sta succedendo».
Mentre Lucano parla il pubblico è in silenzio, rapito da concetti semplici ma profondi pronunciati a voce bassa. Di sottofondo resta solo il rumore degli scatti delle macchine fotografiche. Tutti gli obiettivi sono puntati su di lui. «Sono diventato un personaggio improvvisamente, senza volerlo, senza alcun merito» dirà.
IN ALCUNI PASSAGGI del suo racconto la realtà assume le tinte del realismo magico. Come quando ricorda: «Non c’è alcuna premeditazione in quello che abbiamo fatto. Tutto nasce da uno sbarco avvenuto per caso. È stato il vento che un giorno di 20 anni fa ha portato un veliero pieno di curdi sulle coste di Riace. Questa storia inizia così».
La faccia del sindaco riflette i sentimenti che lo agitano, inquietudine ma anche determinazione. Sorride fissando un punto indefinito mentre parla delle case vuote degli emigranti riacesi riempite dai rifugiati. Si incupisce quando cita la situazione attuale del borgo, svuotato dai cittadini stranieri e nuovamente spopolato. Stringe le sopracciglia immaginando ciò che può ancora accadere. «Riace tornerà a vivere, sono convinto che ce la faremo. Quest’onda nera passerà» afferma.
LO SPETTRO DI MATTEO SALVINI aleggia tutto intorno. Quando viene nominato, sul volto di Lucano si disegna un sorriso di pietà o compassione. «Il ministro vuole ripopolare le aree interne del sud con gli italiani invece che con i migranti. Ma dove li prende? Lui non le conosce quelle zone, io sì». O una smorfia di rabbia: «Chi ci governa è come Pinochet, passa con autorità sulla pelle degli esseri umani, ci fa diventare ogni giorno più tristi. Guardate Siracusa». Poi afferma con un orgoglio poco comune: «Io rifarei tutto quello di cui sono accusato e per cui sto pagando. Loro quando pagheranno per i crimini contro l’umanità che continuano a commettere?».
Le frasi a volte saltano da un pensiero all’altro, ma i messaggi sono forti e chiari. Lucano è così, non ha bisogno di posare accanto a piatti di pasta posticci per sembrare genuino. «È tutto paradossale – continua – compreso il gesto dei parlamentari Pd. Non voglio fare polemica, ma sono gli stessi che hanno votato il decreto Minniti-Orlando. Per loro non è questione di sensibilità ma di interessi politici. Invece noi, che siamo persone semplici, soffriamo a Riace, a Siracusa».
DOMANI LE FIRME voleranno verso Oslo e saranno consegnate al comitato del Nobel dalla rete di comuni, municipi, associazioni e giornali che ha sostenuto l’esperienza di Riace come un simbolo che da locale può diventare globale. Poi le iniziative continueranno, «perché la candidatura è un atto politico». Il 2 marzo a Milano con l’adesione al corteo «People, prima le persone» e il 25 aprile nel borgo calabrese con una mobilitazione che si vorrebbe nazionale e sostenuta dall’Anpi. Intanto il 26 febbraio la Cassazione si pronuncerà sul divieto di dimora, con la speranza che sia finalmente revocato. «Ogni volta bisogna avere la forza per ricominciare. Senza recriminare, nonostante le difficoltà. Non abbiamo altro» conclude Lucano provando a scavalcare con le parole l’ennesimo applauso.

il manifesto 31.1.19
Eutanasia legale, la Camera avvia l’iter della legge di iniziativa popolare
Caso Cappato/Dj Fabo. La Consulta ha dato tempo fino a settembre 2019 per colmare «il vuoto di tutele»
di Eleonora Martini


Dopo oltre cinque anni di “confino” negli archivi del Parlamento e dopo 1965 giorni da quando l’Associazione Luca Coscioni ha depositato le firme di supporto al testo – ormai oltre 130 mila -, ieri finalmente la Proposta di legge di iniziativa popolare «Eutanasia legale» ha iniziato il suo iter nelle commissioni riunite Giustizia e Affari sociali della Camera.
Dopo l’introduzione di ieri dei due relatori, Giorgio Trizzino (del M5S, aderente all’intergruppo per la legalizzazione dell’eutanasia) della commissione Affari sociali, e Roberto Turri (Lega) della Giustizia, si proseguirà con un ciclo di audizioni (entro l’8 febbraio le richieste di convocazione), e solo dopo verrà deciso se e come eventualmente cambiare l’attuale testo base.
«Sono intervenuti quasi tutti i capogruppi, con toni molto pacati e collaborativi, perché si è deciso di non ripetere gli errori del passato, con prese di posizione squilibrate o esasperate – riferisce al manifesto la presidente della commissione Giustizia, Giulia Sarti (M5S) – Noi non vogliamo mettere alcun cappello alla legge ma arrivare, assieme a tutte le forze politiche, ad un testo il più possibile condiviso, che risponda ai bisogni dei cittadini».
Il tempo stringe, però, perché «mancano solo 8 mesi per rispondere all’ordinanza della Corte costituzionale sul caso Cappato/Dj Fabo, che ha concesso fino al 24 settembre 2019 per l’approvazione di una legge in grado di colmare il “vuoto di tutele” Costituzionale», come fa notare Marco Cappato, leader della Coscioni, che chiede ai presidenti Fico e Casellati di fare tutto il possibile per far rispettare i tempi.
Anche perché, ricorda Cappato, la legge è «attesa dal 76% degli italiani, secondo una recente indagine che abbiamo commissionato a Swg». Un dato simile a quello riportato ieri, aggiunge l’esponente radicale, «dal Gazzettino, secondo il cui Osservatorio gran parte del Veneto si è dichiarato “moltissimo” o “molto d’accordo” con l’affermazione: “Quando una persona ha una malattia incurabile, e vive con gravi sofferenze fisiche, è giusto che i medici possano aiutarla a morire se il paziente lo richiede”».
Non si fa pregare, il presidente della Camera Roberto Fico che con un post su Facebook si dichiara «orgoglioso» dell’avvio dell’iter: «Siamo di fronte a un compito importante per la Camera, un compito da affrontare con grande senso di responsabilità per avviare la riflessione su un argomento delicato, su cui si è registrato un ritardo normativo notevole. È un lavoro – conclude Fico – che richiederà tutta la sensibilità e la lungimiranza possibile per trovare una sintesi comune».

il manifesto 31.1.19
Amnesty, le agenzie del turismo online legittimano le colonie israeliane
Territori occupati. Il centro per i diritti umani in un rapporto mette sotto accusa Airbnb, Booking.com, Expedia e TripAdvisor: promuovono l'occupazione israeliana a danno dei diritti dei palestinesi. Il governo Netanyahu pronto a bandire Amnesty dal paese
di Michele Giorgio


GERUSALEMME «Né la polizia né le forze armate di Israele sono venute a raccogliere la mia testimonianza sull’uccisione di mio nipote». Faraj Naasan ha voglia di raccontare, e non solo ai giornalisti, del fine settimana di sangue in cui Hamdi Naasan, figlio 38enne di suo fratello, è stato ucciso dalle guardie di sicurezza dell’avamposto coloniale israeliano di Adei Ad – l’ha detto subito anche l’esercito – entrate nel villaggio palestinese di al Mughayyir, a qualche chilometro da Ramallah, facendo fuoco sugli abitanti accorsi per fronteggiarle. Un raid scattato, pare, dopo il lieve ferimento di una di quelle guardie da parte di un palestinese. I coloni sostengono di aver «sventato un sequestro». Lunedì la polizia è andata ad al Mughayyir per fare dei rilievi senza rivolgere alcuna domanda agli abitanti. E la stampa israeliana riferisce che gli investigatori devono ancora interrogare i membri della squadra di sicurezza di Adei Ad.
Emerge ancora una volta il garantismo compiacente di esercito e polizia di Israele verso i coloni accusati di violenze contro i palestinesi. Nonostante l’aumento netto di atti violenti compiuti dai settler registrato dai centri per i diritti umani. E questa compiacenza non cesserà ora con le elezioni israeliane alle porte e il controllo di tutta Eretz Israel – la biblica Terra di Israele “presidiata” proprio dai coloni – tra i temi al centro della campagna elettorale dei partiti della destra (e non solo).
Lo sdoganamento dei coloni nei Territori palestinesi occupati non è portato avanti soltanto dai partiti israeliani e dal governo Netanyahu. A legittimarli, ad esempio, sono i giganti globali delle prenotazioni turistiche online. A denunciarlo è uno studio di Amnesty International pubblicato ieri con il titolo “Destinazione occupazione”. Airbnb, Booking.com, Expedia e TripAdvisor, scrive il centro per i diritti umani, stanno speculando su crimini di guerra israeliani. Favoriscono, aggiunge, l’espansione degli insediamenti coloniali in Cisgiordania che traggono profitto dallo sfruttamento a fini turistici di terre e risorse appartenenti ai palestinesi. Sotto i riflettori c’è ancora una volta Airbnb che pure lo scorso novembre aveva indicato di voler rimuovere dalle sue destinazioni le colonie in Cisgiordania, ma non da Gerusalemme Est che è a sua volta un territorio occupato e che compare oltre 100 volte tra le sue destinazioni. Le proteste del governo israeliano e le minacce di sanzioni, anche americane, sembrano aver congelato l’intenzione, almeno in apparenza, di Airbnb di non violare la legge internazionale.
«Negli ultimi anni – rileva Amnesty – il governo israeliano ha investito molto nello sviluppo dell’industria turistica negli insediamenti (coloniali). Definisce determinate destinazioni come luoghi turistici per giustificare la confisca di terre e abitazioni palestinesi e spesso costruisce intenzionalmente insediamenti nei pressi dei siti archeologici per porre enfasi sulle connessioni storiche del popolo ebraico con la regione».
L’attenzione di Amnesty si è rivolta in particolare alla campagna “Campeggio nel deserto israeliano” con cui Airbnb, Booking.com ed Expedia promuovono «un’esperienza nella tranquillità del deserto e un assaggio della calda ospitalità israeliana» nella Cisgiordania occupata. TripAdvisor propone «un parco nazionale, un museo, un tour nel deserto e un’attrazione a tema biblico nei pressi (della colonia) di Kfar Adumim». Seema Joshi, di Amnesty, ricorda che a causa dell’espansione di Kfar Adumim molti pastori beduini hanno perso i mezzi di sostentamento e ora dipendono dagli aiuti umanitari. Senza dimenticare che Kfar Adumim è situato a meno di due chilometri dal villaggio di Khan al Ahmar, sede della “Scuola di gomme” costruita dalla ong italiana “Vento di Terra”, che rischia la demolizione dopo il via libera dato dalla Corte suprema israeliana.
Amnesty chiede di seguire l’esempio dell’Irlanda, dove il parlamento ha votato una legge che prevede pesanti sanzioni per chi importa merci prodotte delle colonie israeliane. Pronta la reazione del governo Netanyahu che sta ora valutando se bandire totalmente Amnesty da Israele.

Corriere 31.1.19
I troppi paradossi delle polemiche su Eurovision in Israele
di Davide Frattini


Avvolta in un’armatura da drag queen, rappando un inno contro tutti gli stereotipi, Netta Barzilai è riuscita — vent’anni dopo il trionfo transex di Dana International — a riportare in patria il Microfono di cristallo e l’onore di ospitare l’Eurovision a metà maggio. Come purtroppo era prevedibile, per gli attivisti del movimento Bds (boicottaggio, disinvestimento, sanzioni) il carrozzone pop del festival canoro diventa un mezzo adatto ai loro fini politici: delegittimare Israele. L’appello a «spostare la manifestazione in un’altra nazione dove non siano commessi crimini contro la libertà» è stato sottoscritto da una cinquantina di celebrità britanniche (anche la stilista Vivienne Westwood, l’attrice Julie Christie, il musicista Peter Gabriel). Pronti a offrire il megafono della loro notorietà all’operazione «contro l’insabbiamento attraverso l’arte del regime decennale di occupazione», come scandisce Omar Barghouti, di origine palestinese e tra il leader del Bds. Anche il governo guidato da Benjamin Netanyahu ha tentato di trasformare l’Eurovision in una sbandierata nazionalista via diretta televisiva globale: insisteva nel voler organizzare lo spettacolo a Gerusalemme, che la maggior parte della comunità internazionale non considera la capitale. Le celebrità britanniche dovrebbero interrogarsi sui paradossi personali di Barghouti (ha studiato all’università di Tel Aviv, pretende che i docenti di tutto il mondo boicottino gli atenei israeliani) e quelli più generali di voler sabotare una festa musicale che si svolgerà nella città più libera, libertaria e di opposizione del Paese. Contro di loro basta il giudizio di John Lydon prima di un concerto a Tel Aviv: «Promettere uno spettacolo e scappare è disgustoso». Per poi aggiungere in stile Sex Pistols: «Israeliani vi amiamo, quanto al vostro governo che vada...».

Il Fatto 31.1.19
I fantasmi delle rovine di Mosul
di Giovanni Visone


“Non sappiamo quanti cadaveri siano ancora sepolti sotto queste pietre”. Hummam Talal, operatore iracheno dell’organizzazione umanitaria italiana Intersos, nato e cresciuto a Mosul è sicuro che “lo scopriremo solo un giorno, quando le macerie saranno finalmente rimosse”. La sensazione che si prova camminando per le strade della vecchia Mosul, in effetti è quella di trovarsi tra i fantasmi, compreso quello di una ricostruzione mai avvenuta. Né si conosce il numero esatto dei morti, militari e civili, caduti nel corso della battaglia per il controllo della città.
A un anno e mezzo dalla conclusione dello scontro armato, tutto è ancora distruzione, eppure, tra gli edifici crollati e le strade divelte, la vita sta riprendendo il suo corso. Spuntano qua e là precarie attività commerciali: un venditore di olive al crocevia, un ristorantino di fronte alla Grande Moschea di Al Nuri, simbolo della città, fatta saltare in aria dall’Isis il 21 giugno 2017.
“Nel mio quartiere ora si sta bene”, racconta Huela, una delle donne che frequentano il centro comunitario di Intersos a Mosul Ovest. “Abbiamo acqua ed elettricità, le persone che erano fuggite sono tornate e stanno riparando le loro case, gli alimentari hanno riaperto”. Durante i combattimenti, mentre intorno esplodevano i missili, è rimasta nascosta insieme alla famiglia, tra cui dieci nipoti, nella cantina dell’abitazione dove ancora vivono. Ora aiuta altre donne a imparare il cucito. Un modo, per tante, di sfuggire alla solitudine, contribuendo in qualche modo all’economia famigliare: il livello di disoccupazione è ancora molto elevato e bisogna arrangiarsi. Anche le donne, tradizionalmente confinate alla sfera domestica. “L’unica cosa che chiedo è di non tornare indietro – sottolinea Huela – Non rivivere ancora e ancora la nostra storia tragica”. Sicurezza è una delle parole che ritornano più spesso nelle nostre conversazioni. Questo Iraq è come un malato in lenta convalescenza, fragile, timoroso di una ricaduta del male che lo affligge da decenni. Sospeso tra speranza e paura. Tal Afar, 80 chilometri a ovest di Mosul, a un terzo della strada che conduce verso la Siria, è stata, per oltre tre anni, una delle principali roccaforti dell’Isis: centro logistico e piazza di reclutamento.
La sua storia è legata a una delle più diffuse minoranze presenti in Iraq, i Turcomanni, discendenti dai soldati, commercianti e funzionari di origine turca stabilitisi in Iraq all’epoca dell’impero ottomano. Dopo anni di violenze, la popolazione cerca sicurezza riscoprendo le proprie radici e la propria peculiare identità. “Di recente, la municipalità ha deciso di riaprire un centro culturale – racconta Mohammad Abdelamir Khalaw, direttore della clinica Shahid Sadr, uno dei centri di salute ricostruiti e supportati da Intersos con il contributo di Echo, l’ufficio della Commissione europea per gli aiuti umanitari –. Per la prima volta dopo decenni, non abbiamo voluto creare un centro di cultura sunnita o sciita, ma un luogo a disposizione di tutta la città e dei suoi giovani”.
Un tentativo di riconciliazione in una città simbolo delle lacerazioni che hanno segnato la recente storia irachena, di cui gli ultimi tre anni sono solo un capitolo. Nei racconti delle persone è ancora viva la memoria della repressione delle minoranze attuata negli anni 80, così come della guerra del 2003 e della lunga instabilità degli anni successivi. Ancora oggi le divisioni sono ben visibili. Dopo la “riconquista” della città da parte delle forze armate irachene è facile riconoscere la geografia settaria dei quartieri: su metà delle case sventolano bandiere sciite, sulle altre non c’è alcuna bandiera. “Siamo stanchi di violenze, la vita in città è ancora difficile – sottolinea il direttore – acqua ed elettricità scarseggiano, molte case sono danneggiate e la nostra storica cittadella è rasa al suolo”.
Su per giù le stesse parole che ci ripeterà, poche ore dopo, il direttore dell’altro centro di salute supportato da Intersos ed Echo. Lui che, essendo sunnita e avendo continuato per alcuni mesi a ricevere lo stipendio dal governo iracheno, nel periodo in cui l’Isis ha controllato la città, è rimasto al suo posto, cercando, come dice, “di avere meno problemi possibile”. Quando gli operatori umanitari sono arrivati a Tel Afar, su sei centri di salute, tre erano distrutti e tre, pesantemente danneggiati, erano stati abbandonati. La clinica Shahid Sadr era stata trasformata in magazzino ed era ancora piena di cumuli di coperte destinate ai combattenti. Ora la clinica offre un servizio di risposta alle emergenze, con visite quotidiane, attività specialistiche, analisi di laboratorio e farmaci gratuiti per chi ne ha bisogno, servendo circa 1500 pazienti ogni settimana: in una parola, resilienza.

Corriere 31.1.19
Malala diventa cronista
«Vi racconto le storie di ragazze coraggiose»
intervista di Lisa Allardice


La Premio Nobel per la Pace pachistana ha raccolto in un libro che esce oggi in Italia le voci delle giovani rifugiate incontrate nei campi profughi in giro per il mondo: «Non sono solo vittime, ma persone straordinarie che hanno un sogno da realizzare» In questa intervista parla della sua vita da studentessa (e di Trump e dei tacchi a spillo)

«La mia storia la conoscono tutti», ammette Malala Yousafzai, il premio Nobel più giovane di sempre. «È venuto il momento di ascoltare le storie di altre ragazze». Il suo nuovo libro, «Siamo tutti profughi», è una raccolta di resoconti che Malala ha raccolto nei campi dei rifugiati in giro per il mondo. «Ne sentiamo parlare, spesso con connotazioni negative. Ma non sentiamo mai le loro voci, specie quando si tratta di bambine e ragazze. Per questo ho scritto il libro».
La storia di Malala Yousafzai — colpita da un proiettile dei talebani a Peshawar nel 2012, quando aveva 15 anni, per aver sostenuto il diritto delle ragazze all’istruzione — è nota in tutto il mondo. Dopo la guarigione, ha accettato di assumere il ruolo di ambasciatrice globale per la scolarizzazione delle ragazze. Nel 2014 è stata insignita del premio Nobel per la pace. Oggi è una ventunenne studentessa di Oxford, con il capo avvolto da un velo e vestita di una tunica rosa brillante, un paio di scarpe con i tacchi a spillo. L’unico segno esterno delle ferite riportate nell’attentato è un sorriso leggermente storto. Ma non smette mai di sorridere.
«Il 90% dei rifugiati» sono ospitati nei Paesi in via di sviluppo. Cerchiamo di capire su chi ricade effettivamente il peso delle migrazioni», dice Malala. La prima stesura del libro risale a oltre cinque anni fa, negli accampamenti dei profughi siriani in Giordania, da lei visitati per avviare gli interventi della Fondazione Malala per l’istruzione delle ragazze. Mentre siamo al corrente delle catastrofi umanitarie in corso in Siria e in Iraq, Malala ha voluto attirare l’attenzione sul fatto che «questo accade in ogni angolo del pianeta. Accade in America Latina come nel sud-est asiatico, in India, e in gran parte del continente africano».
«Noi non riusciamo a immaginare di salire in macchina e andare da Birmingham a Londra da sole, a 14 o 15 anni», dice Malala. «I nostri genitori sarebbero preoccupati per noi. Mentre ci sono ragazze che camminano giorno e notte da sole, talvolta salgono sugli autobus in compagnia di estranei, attraversano confini, senza sapere se arriveranno dall’altra parte sane e salve. Rischiano ogni giorno la vita. E questo è segno di grande coraggio». Osserva Malala che «spesso ci dimentichiamo che anche i rifugiati vorrebbero tornare a casa loro. Ogni ragazza ha questo sogno, vuole tornare a vedere casa sua. Quando diventi un rifugiato, ti senti un estraneo nel nuovo Paese. Ma non appena senti di appartenere alla nuova realtà, anche tu hai diritto di viverci, come tutti gli altri. Quel Paese diventa casa tua. E ognuno di noi può avere casa in molti luoghi».
Pur sentendosi «molto orgogliosa di Birmingham», che è diventata la sua seconda casa, Malala ha ancora nostalgia dei suoni, profumi e sapori di Peshawar: il tè dolce che bolle sulla stufa, il pollo con il riso preparato dalla mamma. Non si abituerà mai al clima inglese (anche se è disposta a concedere, con un pizzico di tristezza, che «l’estate non è più così male, forse per il riscaldamento globale»), o al fatto che gli automobilisti non suonano il clàcson in continuazione. Prima del suo arrivo nel Regno Unito, «non avevo mai visto automobili che rispettavano il codice della strada».
Lo scorso marzo con la sua famiglia è tornata in Pakistan per la prima volta dall’attentato, con il padre perennemente in ansia che le elezioni o altri avvenimenti politici potessero mettere in pericolo la loro incolumità. Hanno riabbracciato centinaia di amici e parenti — «tanti selfie, tanti abbracci, baci e preghiere» — compresa la sua migliore amica d’infanzia e oggi rivale negli studi, Moniba, iscritta a medicina. Hanno visitato la valle di Swat, «il tempo era bello», e sono tornati nella loro vecchia casa, dove la famiglia che oggi la abita ha conservato inalterata la sua vecchia stanza: «C’erano i miei libri, i disegni, i premi ricevuti a scuola, l’armadio e il letto e tutto il resto. È stato bellissimo».
Su chi ricade davvero il peso delle migrazioni? Il 90% dei rifugiati sono ospitati nei Paesi in via di sviluppo
Oggi Malala frequenta il secondo anno di università e studia filosofia, politica ed economia a Oxford, come sognava da bambina in Pakistan. Il suo collegio è il Lady Margaret Hall, uno dei primi collegi femminili, dove la sua eroina, Benazir Bhutto, già primo ministro pachistano, assassinata nel 2007, aveva studiato nella medesima facoltà. La vita universitaria le piace: «A Oxford ci sono già diverse persone famose, perciò nessuno fa caso a me». Ha stretto amicizia con diversi studenti come lei: «Non mi trattano come “la Malala,” ma semplicemente come la loro amica Malala». Le sono piovute addosso non poche critiche quando qualcuno ha messo in Rete una foto di lei con indosso un paio di jeans attillati: «Sono solo jeans, che c’è di male?» chiede allegramente. «Di cose come queste non mi preoccupo minimamente».
È rimasta «sorpresa» nel constatare che il sessismo sopravvive ancora, persino nel Regno Unito. «Noi consideriamo l’Occidente come un mondo perfetto dove regnano uguaglianza e democrazia». È ancora intenzionata a diventare il prossimo primo ministro del Pakistan? «La gente pensa sempre alla politica, ma c’è anche la filosofia e l’economia». No, non ha progetti né interesse in politica, in questo momento, dice. Ma tra quindici o vent’anni, chi lo sa? Sta leggendo il libro di Michelle Obama. E sebbene non abbia mai incontrato Trump, si augura che vorrà leggere il suo libro. «È di facile lettura. Potrebbe anche ritwittarlo», ride. Tornando seria, Malala dice che lo inviterebbe volentieri a visitare un campo profughi. «Magari potrei aiutarlo a organizzare la visita».
«Talvolta pensiamo ai rifugiati come a delle vittime, cariche di storie lacrimose. Ovviamente sono persone tristi, ma sanno anche mostrarci quanto sanno essere coraggiose». Malgrado tutti gli orrori, il libro di Malala è ricco di speranza: molte delle ragazze le cui storie vi sono raccontate oggi studiano all’università. «Sono diventate attiviste, e vogliono realizzare i loro sogni». Come dice giustamente la più famosa di tutte: «Se una ragazza istruita può cambiare il mondo, che cosa sapranno fare 130 milioni di ragazze?».
(traduzione di Rita Baldassarre)
© The Guardian

Corriere 31.1.19
Zaynab, dallo Yemen in nome della legge


«A Minneapolis, durante un tour di presentazione del film sulla mia vita, Malala, ho incontrato una giovane donna eccezionale. Tra le ragazze che quel giorno condivisero con me il loro passato, una si distinse in particolare». Malala descrive così Zaynab Abdi, rifugiata yemenita in Minnesota. Oggi Zaynab è studentessa di Scienze politiche, Relazioni Internazionali e Filosofia. Ottenuto il visto per gli Usa dopo il 2011 (allora non c’era ancora il Muslim Ban), è riuscita a continuare i suoi studi, sebbene sia arrivata negli Stati Uniti a soli 17 anni senza conoscere una parola di inglese. E oggi —oltre a essere impegnata nel Malala Fund — vuole diventare avvocato in diritti umani internazionali e tornare nello Yemen una volta conclusi gli studi di giurisprudenza. Ha dovuto separarsi da sua sorella Sabreen che ora vive in Belgio col marito. «Mia sorella desiderava andare negli Stati Uniti ancora piu di me. Quando era bambina, si era fissata con Hannah Montana e prima che scoppiassero i guai in Yemen diceva sempre: “Un giorno andrò in America, dove vive Hannah!”», scrive in Siamo tutti profughi. Zaynab è stata nominata Immigrant & Refugee Youth Ambassador per la Green Card Voices. Sogna di rendere il mondo un luogo pacifico grazie alla legge, l’avvocatura e la giustizia sociale. Sul suo profilo Twitter c’è scritto che ama giocare a calcio.

Corriere 31.1.19
La tenacia di Muzoon, «guerriera» di pace


Muzoon Almellehan, 28 anni, siriana, è originaria di Daraa, la città dove sono scoppiate le rivolte del 2011 seguite poi dalla repressione, i massacri e la guerra civile. Malala la incontra nel campo di Zaatari, in Giordania, una enorme baraccopoli dove — secondo l’ultimo censimento dell’Alto commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite — oggi si trovano ancora quasi 79 mila rifugiati. «Incontrai Muzoon nella sua tenda, che condivideva con i genitori, due fratelli e una sorella minori e altri due familiari», racconta Malala. Allora molti chiamavano già la giovane «la Malala siriana». Le due ragazze hanno molto in comune, in testa la voglia di continuare gli studi, un impegno appreso dai padri, entrambi vicini al mondo scolastico. Ma per l’attivista pachistana si tratta di una definizione sbagliata: «Io so che lei è la Muzoon siriana». Mentre si trova ancora in Giordania riesce a combattere per una vita quotidiana migliore. Per sé. E non solo: trova la forza per convincere alcune sue coetanee a rifiutare i matrimoni forzati, molto comuni tra le famiglie di rifugiati siriani più poveri che scelgono di vendere le figlie pur di dare loro un tetto e del cibo. Oggi Muzoon vive nel Regno Unito, dove è stata ricollocata con la sua famiglia e dove è diventata la più giovane Goodwill Ambassador dell’Unicef. Ma non è l’unico record che ha segnato: è la prima rifugiata a ricoprire questa carica.

Corriere 31.1.19
La doppia fuga di Najla (con l’abito da sposa)


«Avevo sentito parlare delle ragazze yazide al telegiornale e ne incontrai alcune a Dohuk, in Iraq, dopo che erano state rilasciate dall’Isis. La maggior parte di loro non riusciva a parlare, a causa dei profondi traumi subiti. Forse non si riprenderanno mai dall’orrore che hanno vissuto. Eppure, una di loro era piena di speranza». Malala sta raccontando la storia di Najla Hussein Mahmaad, una giovane che a soli 14 anni è scappata dalla zona di Sinjar con indosso ancora il suo vestito da sposa perché il suo sogno era studiare per diventare una giornalista. Dopo l’arrivo dei jihadisti nella sua regione, la ragazza trova rifugio in un campo profughi a Shariya, con altri 18 mila sfollati. All’epoca ha 21 anni, troppo «vecchia» per frequentare la scuola del campo. Ma non può nemmeno iscriversi a Mosul, a causa del tragitto troppo lungo e dei pericoli che ancora la città nord irachena riserva alle donne, soprattutto a quelle che, come lei, appartengono a una minoranza religiosa. Najla oggi vive ancora in quel campo, con sua sorella. Ogni tanto si fa le mèches colorate ai capelli. A casa non può tornare a causa delle mine e sogna di potersi iscrivere in un college all’estero. Nel frattempo, con la sorella, progetta di aprire un salone di parrucchiera dentro al campo.

Corriere 31.1.19
Maria, che ha filmato la fame nello «slum»


Maria Ceballos Paz ha lasciato Iscuandé in Colombia all’età di 16 anni. La guerra civile ha causato la fuga di milioni di persone e Maria con sua madre e il fratello è stata una di queste. Se ne è andata dopo che i guerriglieri delle Farc hanno ucciso suo padre. Per un po’ ha vissuto in una baraccopoli di Cali, altra città colombiana. «Nell’estate del 2017, durante un viaggio in Messico, incontrai molte ragazze latino-americane sfollate a causa della violenza. Durante quel viaggio imparai una nuova parola: l uchadora. In spagnolo significa “donna combattente”. Mentre alcune l uchadoras si battono per la gloria, le ragazze che incontrai quel giorno si stavano battendo per il diritto all’istruzione e a una vita migliore», racconta Malala nel suo libro. Come è spiegato sul blog del Malala Fund, appena arrivata nello slum Maria non si è persa d’animo e, con il supporto di una Ong, ha realizzato il documentario Displaced but Not Defeated (sfollata ma non sconfitta). La giovane è riuscita anche a finire gli studi e ora lavora come estetista in un salone per la manicure. Spera di frequentare, un giorno, l’università e sogna di assicurarsi un lavoro che permetta a lei e a sua madre di non dover più soffrire la fame. «Possibilmente che sia un impiego in cui posso lavorare con i bambini e aiutarli».

Corriere 31.1.19
Farah, dall’Uganda a manager del no profit


«Ho conosciuto Farah a un colloquio di lavoro. Era una delle cinque o sei donne con cui stavamo parlando per scegliere il nuovo Ceo (amministratore delegato, ndr) del Malala Fund. Dopo che fu assunta le dissi scherzan- do che mi piaceva perché era quasi bassa come me. Ma naturalmente il motivo per cui l’apprezzo è la sua intelligenza e la sua esperienza nel settore del no profit». La premio Nobel Malala non sa, quando conosce Farah Mohamed, che la donna è una rifugiata canadese nata in Uganda che ha lasciato il suo Paese nel 1972, a causa delle persecuzioni contro la minoranza indiana di cui fa parte per le sue origini familiari. Ma sa che ha un curriculum «pesante», che ha lavorato in Canada sia come manager sia come direttrice delle comunicazioni di politici e ministri. Oggi le due donne lavorano fianco a fianco per «un mondo in cui ogni bambina ha accesso a dodici anni di istruzione gratuita, sicura e di qualità». Di lei Malala scrive: «Scoprire il passato di Farah mi ha spinto a chiedermi come mai molti rifugiati esitino a raccontare la propria vita. Mi ha spinto a riflettere. Si può avere davanti agli occhi una persona e non riuscire a conoscerla?». Oggi Farah Mohamed vive a Londra. La sua più grande avventura? «Scalare il Kilimangiaro».

La Stampa 31.1.19
Brexit, l’Europa chiude le porte a May
“L’intesa non cambia, rottura vicina”
Il presidente della Commissione Juncker avverte: non lasceremo sola l’Irlanda, è il nuovo confine europeo
di Marco Bresolin


«Il voto del Parlamento britannico aumenta il rischio di una Brexit senza accordo». Jean-Claude Juncker lo dice chiaramente parlando nell’aula dell’Europarlamento e chiude così la porta alle richieste britanniche. «L’intesa raggiunta con Londra per noi resta la migliore e l’unica possibile - avverte il presidente della Commissione -, quindi non può essere rinegoziata».
Ed è per questo che, a due mesi dalla data di uscita del Regno Unito dalla Ue, Bruxelles corre ai ripari con nuove misure d’emergenza, da mettere in campo in caso di un «no-deal». Uno scenario che con il passare del tempo diventa sempre concreto.
Il «no» corale
La posizione di Bruxelles ricalca perfettamente la linea già espressa dalle principali capitali europee. L’Eliseo ha detto no a nuovi negoziati e anche il portavoce di Angela Merkel ha assicurato che «nuove trattative non sono in agenda». Una compattezza che però potrebbe via via diventare più fragile con l’avvicinarsi del 29 marzo in una prospettiva di no-deal.
Per questo Juncker ha fatto appello ai Ventisette: «È fondamentale che l’Ue mantenga la calma e resti unita». Il capo dell’esecutivo Ue ha assicurato che continuerà a lavorare «giorno e notte» per evitare lo scenario che tutti temono e ha garantito all’Irlanda che «gli altri ventisei Paesi non la lasceranno sola. Perché la frontiera irlandese diventerà la nuova frontiera dell’Ue».
L’assicurazione sulla casa
Il punto più critico dell’accordo con Londra, il più contestato Oltremanica, è proprio quello che riguarda la clausola di salvaguardia sulla gestione del confine irlandese. L’intesa si basa su un «backstop», ossia una rete di protezione che scatterebbe nel caso in cui non si trovassero soluzioni migliori: prevede che l’Irlanda del Nord (parte del Regno Unito, dunque prossima all’uscita dalla Ue) resti all’interno del mercato unico e dell’unione doganale europea. Ma il parlamento britannico si oppone: «L’House of Commons - prosegue Juncker - non vuole il backstop ma neanche il no-deal. Il problema è che non sappiamo cosa vogliono... ».
Al punto di partenza
Michel Barnier, che ha guidato tutti i negoziati per conto dell’Unione europea, accusa i britannici di «giocare allo scaricabarile». E attacca direttamente Theresa May, che «oggi sta prendendo le distanze dall’accordo che lei stessa ha sottoscritto». Il francese apre sì alle richieste britanniche di discutere le disposizioni alternative per il confine irlandese, «ma soltanto dopo aver firmato l’accordo». Dunque siamo di nuovo al punto di partenza. Dal suo punto di vista il backstop è come l’assicurazione anti-incendio per la casa: «Tutti noi vorremmo evitare di usarla, ma è indispensabile averla per non farsi trovare impreparati. Per questo oggi abbiamo bisogno del backstop così com’è. L’accordo non sarà rinegoziato».
Il piano di emergenza
Ieri il collegio dei commissari ha adottato tre nuove proposte legislative contenenti una serie di «misure cautelari» da far scattare in caso di Brexit senza accordo (si aggiungono alle 15 già sul tavolo). La prima nasce con l’obiettivo di proteggere gli studenti Erasmus che hanno una borsa di studio per quest’anno scolastico (14 mila gli europei nel Regno Unito, 7 mila i britannici che studiano nei Paesi Ue): il loro programma potrà continuare anche in caso di «no-deal». La seconda riguarda invece i lavoratori che hanno soggiornato per un periodo nel Regno Unito: quegli anni saranno conteggiati dallo Stato europeo di residenza ai fini del calcolo pensionistico.
L’ultima consentirebbe invece a tutti i programmi britannici finanziati con i fondi Ue (per esempio quelli legati ad agricoltura o ricerca) di continuare senza problemi, ma a una condizione: Londra dovrebbe continuare a versare la sua quota al bilancio Ue per tutto il 2019. Bruxelles darà tempo ai britannici fino al 18 aprile: entro quella data dovranno dire se intendono onorare i propri impegni anche per quest’anno. Diversamente da aprile gli assegni per i beneficiari non potranno più essere staccati.

Corriere 31.1.19
La grande corsa dell’Asia verso le città
di Danilo Taino


Alle 16.00 di ieri, 30 gennaio 2019, il numero di persone che vivevano in una città del mondo era 4.087.217.060, secondo il «contatore» della società di management immobiliare JLL. Più di quattro miliardi di abitanti del pianeta, su un totale di meno di otto miliardi, sono urbanizzati. Una massa che si muove dalle campagne in aumento continuo. Tanto che il dibattito globale sul ruolo delle metropoli nella crescita dell’economia è ormai consolidato: sono le grandi forze trascinatrici dello sviluppo; creano enormi opportunità, economiche ma anche di emancipazione sociale e politica; pongono problemi altrettanto notevoli; sono una sfida per i governi. La teoria che corre è che siano il motore dello sviluppo futuro. Individuare quali sono le metropoli a maggiore dinamicità, dunque, è un indicatore interessante per tracciare una mappa mondiale degli avanzamenti economico-sociali. La società JLL lo ha fatto e ha elaborato un City Momentum Index (2019) che cerca di cogliere in quali città siano, al momento, le spinte maggiori alla crescita. Tiene conto, in forma ponderata, di venti variabili che misurano la tendenza socioeconomica — per esempio popolazione, crescita economica, investimenti diretti, connessioni aeree — che pesa per il 50%; e quella del mercato immobiliare commerciale — in termini di prezzi, affitti, numero di uffici e hotel — che pesa per l’altro 50%. Le metropoli prese in considerazione sono 131: 34 nordamericane, otto dell’America Latina, 51 di Europa e Medio Oriente, 38 dall’Asia-Pacifico. Un primo risultato straordinario è che nelle venti posizioni di testa non ci sono città americane ed europee; e solo una africana, Nairobi in posizione sei; le altre 19 sono asiatiche. La seconda sorpresa è che nelle prime cinque posizioni ci sono quattro città indiane: Bengaluru (Bangalore) al numero uno, Hyderabad al due, Delhi al quattro, Pune al cinque; interrotte, in terza posizione, da Hanoi. Nei primi venti posti si piazzano anche le indiane Chennai (Madras) al sette e Kolkata (Calcutta) al 15. Il resto sono città cinesi con l’eccezione di Ho Chi Minh City in posizione otto, Manila al 12 e Bangkok al 18. Altro risultato non scontato, il ritorno di Atene: la capitale greca è al secondo posto, dopo Osaka, per la situazione immobiliare (ma non sociale) in corso.

il manifesto 31.1.19
Mondo denutrito, e il cibo si butta
Il fatto della settimana. Più di 800 milioni di persone soffrono la fame e lo spreco alimentare ha raggiunto cifre record, alimentato dall’agroindustria. In Italia aumentano obesità e malnutrizione, mentre c’è sempre meno autosufficienza
di Serena Tarabini


Nelle società del benessere siamo abituati al fatto che il cibo si perda e con esso anche il senso del suo valore.
Lo spreco alimentare è la piaga etica, sociale, ambientale della post modernità, frutto grottesco e crudele del neoliberismo portato all’estremo (in Italia, martedì 5 febbraio, è la giornata nazionale contro lo spreco alimentare). Viene sprecata almeno 4 volte la quantità di cibo sufficiente a sfamare gli 815 milioni di denutriti ancora presenti al mondo. Secondo diversi studi la prevenzione degli sprechi oltre a intervenire nell’immediato sul bilancio economico dei paesi più deboli, sarebbe garanzia di sicurezza alimentare per i 9,5 miliardi di persone presto vivranno sulla Terra.
Ma le cifre strabilianti ed assurde che accompagnano questo fenomeno oltre a determinare gravissime perdite economiche pesano anche sul nostro fragile pianeta e le sue risorse, che vengono sottratte inutilmente con abbondante produzione di emissioni che causano la febbre della Terra. Per non parlare delle enormi quantità di acqua e fertilizzanti impiegate nella produzione di cibo che non raggiungerà mai la tavola. Stiamo quindi per assurdo sfidando i limiti del pianeta in termini di cambiamenti climatici, perdita di biodiversità, consumo di suolo, acqua ed energia, in gran parte per non farcene nulla.
Capire come e perché siamo arrivati a tutto questo necessita una visione d’insieme che prende in considerazione fattori economici, sociali, politici, culturali e la loro relazione con l’ambiente. Lo fa lo studio molto articolato realizzato dal ricercatore ecologo Giulio Vulcano, pubblicato in parte anche da Ispra – Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale.
Il principale colpevole è il sistema di produzione alimentare agro-industriale dentro il quale ci siamo radicati economicamente e culturalmente, fondato sull’impiego di fonti fossili di energia e sostanze chimiche di sintesi, sulla finanziarizzazione, i commerci internazionali, la concentrazione dei mercati e l’occultamento dei costi ambientali e sociali. Un sistema legato a doppio filo con il modello capitalista che per sua natura necessita la sovrapproduzione e lo spreco. Lo spreco alimentare si rivela infatti un fenomeno funzionale all’espansione del sistema economico e commerciale dominante, che ha allontanato sempre più i luoghi di produzione dai luoghi del consumo, disconnettendo le persone fisicamente, economicamente e cognitivamente dal cibo e dai processi connessi. La filiera è sempre più lunga e fuori controllo: presenta perdite a ogni passaggio e a un incremento minimo di un fabbisogno reagisce con eccessi di produzione, facendo aumentare esponenzialmente gli sprechi e di conseguenza i danni all’ambiente. Un interessante studio promosso dall’Unep (programma delle Nazioni Unite per l’ambiente) ha classificato i settori industriali globali in base al danno ecologico creato al capitale naturale, facendo emergere che tra i primi 5 settori regionali che creano maggior danno ecologico globale 3 sono agroalimentari: l’allevamento di bestiame in Sudamerica e le coltivazioni di frumento e riso nell’Asia del Sud. Sempre l’Unep in un altro studio ha individuato nel cibo a basso prezzo una causa di spreco e insostenibilità: i prezzi sarebbero ben altri se incorporassero i costi ambientali e sociali di questo tipo di produzione eccessiva e si sprecherebbe meno.
Anche in Italia non siamo messi molto bene: la ricerca evidenzia come lo spreco alimentare è stato per troppo tempo sottostimato e potrebbe essere di dimensioni più preoccupanti. Obesità e malnutrizione sono in aumento, come anche le difficoltà di accesso al cibo; inoltre il nostro paese dimostra sempre meno autosufficienza alimentare: per alcuni prodotti siamo autonomi solo all’80%, per altri addirittura al 60%, effetto dell’abbandono progressivo delle terre agricole e dell’artificializzazione dei suoli. Questo spiega perché lo spreco nostrano possa arrivare al 63% della produzione iniziale. Cioè più della metà di quello che produciamo (o introduciamo nel sistema alimentare) si perde. Ciò nonostante in Italia sia stata approvata una legge, la 166/2016, che affronta il tema e tra l’altro permette di donare le eccedenze e ottenere uno sconto sulla tassa dei rifiuti. A livello europeo la discussione avanza, ma non nella direzione giusta affrontando solo il problema finale dei rifiuti. La ricerca mostra che per prevenire lo spreco è necessario limitare la formazione di eccedenze con una trasformazione strutturale del modello agro-alimentare industriale prevalente. Il cambio anche culturale e valoriale deve investire in primis il sistema di produzione, perché gli effetti negativi ambientali e sociali sono associati soprattutto alle fasi iniziali più che allo smaltimento dei rifiuti. Deve essere restituita al cibo la sua naturalità seguendo la strategia dell’autonomia alimentare per scardinare quegli effetti complessi che finiscono per determinare insicurezza alimentare nei paesi e nei soggetti economicamente deboli. Le strade ci sono e la ricerca indica come gli sprechi siano molto minori in reti alimentari corte, locali, ecologiche, solidali e di piccola scala: la produzione di rifiuti è 3 volte inferiore, si arriva addirittura ad 8 quando entrano in gioco pratiche agro-ecologiche, gruppi di acquisto solidale (Gas) e comunità di produzione (Csa) dove i consumatori sono anche produttori; chi si approvvigiona solo con reti alternative spreca in media un decimo in meno. Questi sistemi alternativi agiscono positivamente su tutti i fronti dello spreco: riducono le intermediazioni e i passaggi; coordinano meglio capacità naturali, produzione, consumo e fabbisogni; aumentano la consapevolezza dei soggetti; garantiscono valori equi; gestiscono più efficacemente il poco invenduto. Sono prioritarie quindi politiche economiche di sostegno per facilitare la diffusione di questo tipo di sistemi.

Corriere 31.1.11
Von Braun, fu vera gloria?
Ricostruzioni Documenti inediti gettano ombre sull’artefice delle V2 di Hitler, chiamato poi nella Us Army e alla Nasa
Christopher Lauer smonta il mito del tedesco «padre» dei primi missili
di Paolo Valentino


Berlino Quando mezzo secolo fa il primo uomo mise piede sulla Luna, il mondo intero esultò insieme agli americani. Ma più di tutti probabilmente esultarono i tedeschi. A riempirli d’orgoglio fu soprattutto il ruolo avuto nell’impresa del secolo da colui che «der Spiegel» aveva definito «il Cristoforo Colombo del Cosmo». Aveva 57 anni nel 1969, Wernher von Braun. Ma era già una leggenda. Era lui, nato a Berlino, scienziato e padre della missilistica moderna, ad aver costruito i giganteschi razzi che portavano gli astronauti statunitensi nello spazio. Geniale e carismatico, von Braun aveva anche le physique du rôle di un eroe mitologico: alto, biondo, gli occhi azzurri, la mascella volitiva.
Il trionfo dello sbarco sulla Luna sembrò aver definitivamente ragione di tutte le ombre del suo passato, trasformandolo in una saga. Studente prodigio, affascinato sin da piccolo dal sogno dei razzi, egli era stato l’artefice delle V2 di Hitler, i primi missili della storia umana, l’arma miracolosa che nei vaneggiamenti del Führer avrebbe dovuto cambiare il corso della guerra. Non servirono a molto, anche per i tanti difetti tecnici che a tutt’oggi ne fanno il sistema d’arma che ha ucciso più persone nella fase della produzione che durante il suo breve impiego sulle città inglesi. Ma il dominio della nuova tecnologia fu il talismano che dopo la guerra aprì a von Braun e alla sua squadra di collaboratori le porte dell’America, che lo accolse a braccia aperte. Prima nei laboratori della US Army, poi in quelli della Nasa, egli sviluppò fra gli altri un missile a corto raggio usato nella Guerra di Corea, lo Jupiter che portò nello spazio i primi satelliti americani e soprattutto il mastodontico Saturno, che lanciava le navicelle Apollo. Nella retorica dei suoi biografi, von Braun diventò l’incarnazione dell’uomo di scienza visionario che sogna la cosa giusta, fa quella sbagliata con un patto faustiano, ma alla fine trionfa lo stesso.
Ma andò proprio così? Non esattamente, secondo lo studioso tedesco Christopher Lauer, che ha avuto accesso a documenti inediti (compresa la tesi di dottorato di von Braun) e che in un saggio pubblicato dalla «Frankfurter Allgemeine am Sonntag» ridimensiona il mito del «Rakete Beau», il bello dei missili (sempre copyright «der Spiegel»), gettando dubbi pesantissimi sui meriti scientifici del nostro. A cominciare dagli esordi, quando secondo la narrativa ufficiale von Braun neanche ventenne sarebbe stato notato da Karl Emil Becker e Ernst von Horstig, due esperti della Reichswehr (l’esercito di Weimar) che all’inizio degli anni Trenta facevano esperimenti con i primi rudimenti di tecnologia missilistica. Entusiasti delle capacità e delle intuizioni del ragazzo, gli avrebbero offerto di prendere la guida di quello strano laboratorio dell’esercito tedesco.
Poco plausibile, osserva Lauer, rivelando che in realtà von Horstig, in una nota personale conservata negli archivi federali e fin qui ignorata, esprimeva un giudizio negativo sulle sue conoscenze. E che la decisione di offrire un lavoro al giovane von Braun ebbe ben altre motivazioni: la prima fu il suo rapporto personale con Rudolf Nebel, ex asso dell’aviazione, ingegnere genialoide con un’ossessione da praticone per i razzi, di cui costruiva modellini che faceva esplodere davanti a un pubblico di appassionati in uno spazio berlinese conosciuto come Raketenflugplatz. Il giovane von Braun era assiduo frequentatore e aiutava Nebel nei suoi esperimenti. Una foto li mostra insieme con due missili caricati sulle spalle. Carattere difficile, Nebel era il guru, Wernher l’adepto. «Volevano agganciare il primo e per questo si concentrarono sul secondo», scrive Lauer. Ma soprattutto, a fare la differenza fu il padre di Wernher, Magnus von Braun, ministro del Reich per l’Agricoltura, per nulla entusiasta della passione del figlio che lo distoglieva dagli studi, dove non eccelleva. A lui Horstig propose di far lavorare il ragazzo alla ricerca sui razzi nella Reichswehr e allo stesso tempo completare il corso universitario. Per Horstig, sempre in cerca di finanziamenti per progetti in cui nessuno credeva, avere un appoggio dentro il governo non era poca cosa.
Lauer getta poi dubbi pesanti sull’autobiografia di von Braun, che racconta di aver costruito da solo i suoi due primi prototipi, Max und Moritz. In realtà, da una nota scritta di Horstig e fin qui inedita, si apprende che al giovane avevano dovuto affiancare un esperto in propellenti liquidi preso da un’azienda berlinese. Di più, che il nostro non fosse da solo in grado di costruire un razzo, lo prova una sentenza del Tribunale di Monaco di Baviera del 1952. Era stato il vecchio guru Nebel dopo la guerra a querelare von Braun, contestandogli di essersi autodefinito «l’inventore delle V2». I giudici avevano dato parzialmente ragione a von Braun, tranne che su un punto: «È sicuro che egli non sarebbe andato avanti nello sviluppo dei missili se non gli fossero stati dati dei collaboratori».
Il suo nome è legato ai razzi che 50 anni fa portarono gli americani sulla Luna
E la dissertazione di laurea? Intanto Lauer dimostra che von Braun mentì dicendo che il suo relatore era stato Karl Becker, cosa non sostanziata in nessun archivio. Perché questa bugia? Poi c’è la inusuale velocità con cui venne approvata, appena tre giorni, quasi che non venisse neppure letta. Roba da figlio del ministro super-raccomandato, insomma. Ma più grave, spiega Lauer che invece l’ha letta, è che non contenga alcun dato concreto, nessuna misura sperimentata e impiegabile rispetto alla tesi: elementi teorici e pratici per la costruzione di un razzo a propulsione liquida. Dulcis in fundo, un intero capitolo è interamente copiato, senza attribuzione, da una rivista dell’Associazione per i viaggi spaziali.
Il punto sui collaboratori, sottolineato dalla sentenza di Monaco, è importantissimo. Privo di vere qualificazioni nella tecnologia missilistica, in realtà von Braun rivelò eccellenti qualità di manager, capace di coordinare e delegare il lavoro dentro organizzazioni complesse. E questo spiegherebbe la sua carriera sotto il nazismo, che gli mise a disposizione centinaia di collaboratori, ingegneri ed esperti per i progetti militari. Nessuno di questi, nella base segreta di Peenemünde, aveva interesse a mettere in discussione l’uomo che consentiva loro di essere lontani dalla guerra e dai bombardamenti.
Ma i razzi per gli americani li avrà pur costruiti, si obietterà. Agli occhi dei vincitori, von Braun era la testa dietro lo sviluppo dei missili tedeschi. Per questo, ancorché nei primi interrogatori si fosse dichiarato «un convinto nazista», lo vollero e gli aprirono i loro laboratori. Ma c’è un dettaglio: von Braun impose che con lui emigrassero verso gli Usa oltre 120 persone, il suo intero staff. Gesto di umana solidarietà, oppure, suggerisce Lauer, forse egli non era in grado da solo di spiegare il funzionamento delle V2, tantomeno di costruirle senza la sua squadra, i suoi scienziati, ingegneri e specialisti. Che da quel momento gli dovettero gratitudine eterna, avendoli lui salvati dal carcere o da una vita senza qualità nella Germania distrutta. Così anche in America continuò a operare la struttura gerarchizzata di Peenemünde, divisa in dipartimenti guidati da direttori che rispondevano soltanto a von Braun, prima nella US Army poi nella stessa Nasa.
Lauer non trae conclusioni definitive. Ma il mito del padre di tutti i missili non regge. E nel cinquantesimo dello sbarco lunare, invita storici e curiosi a leggere e analizzare criticamente la storia di Wernher von Braun. Dove «molte cose non quadrano».

Repubblica 31.1.19
Una storia dei partiti dal 1945 a oggi, il nuovo saggio di Piero Ignazi
L’Italia dall’età dell’oro a quella dell’argilla
di Stefano Folli


Chiunque nel prossimo futuro voglia ricostruire la storia dell’ascesa e successiva decadenza del sistema dei partiti in Italia non potrà fare a meno di avvalersi degli studi di Piero Ignazi, politologo ben noto ai lettori di questo giornale. Soprattutto non potrà ignorare il suo ultimo lavoro: I partiti in Italia dal 1945 al 2018, edito dal Mulino. Una ricostruzione fedele e precisa in ogni dettaglio che compone il complesso mosaico delle forze che hanno rappresentato dall’inizio la Repubblica sorta all’indomani del disastro bellico, portatrici di severe ideologie antagoniste, ma anche di ideali e di speranze in un futuro migliore.
Quelle forze seppero stabilire un nesso profondo con un popolo stremato, evitando che il conflitto politico degenerasse e assicurando nel complesso, almeno in una prima fase — quella che Ignazi chiama l’età dell’oro — e non senza limiti e contraddizioni che fosse data risposta al bisogno diffuso di crescita economica e civile, pur sullo sfondo della grande frattura tra Est e Ovest del mondo.
Merito di Ignazi è spiegare senza semplificare. Egli non smarrisce mai il filo della narrazione, ma non edulcora la drammaticità dello scontro politico, la fatica delle alleanze, la difficile evoluzione delle forze in campo, dai cattolici ai comunisti, dai socialisti ai laici fino alla trasformazione della destra.
Protagoniste del saggio sono le idee, certo, ma soprattutto le persone, coloro che hanno incarnato il sistema nelle sue varie accezioni o se si vuole anche l’anti- sistema in certi passaggi storici. Come sia stato possibile che un po’ alla volta questa architettura si sia immiserita e i partiti, chi più chi meno, abbiano smarrito il legame vitale con la società, rinchiudendosi nell’esercizio di un potere spesso clientelare, è il tema cruciale che determina l’estinguersi delle forze storiche della Prima Repubblica e che poi scandisce l’avvento della stagione " populista" nella quale siamo immersi con il duopolio Lega- M5S. Non senza il lungo interludio berlusconiano, passaggio cruciale per capire le ambiguità della transizione italiana: l’era del partito " patrimoniale" e personale che non è mai destra europea, ma conquista il palazzo e lo tiene in pugno senza invertire la rotta verso il declino.
Dal confronto ideale e politico, anche duro e talvolta spietato, dei primi anni repubblicani ai giochi di potere autoreferenziali e poi, esito estremo, al divorzio approssimativo tra élite e popolo, con tutte le incognite che si aprono dopo il 4 marzo 2018. Nell’analisi di Ignazi molta attenzione è dedicata alla discesa verso la disgregazione: dall’età dell’oro, di cui si è detto, a quella del ferro e infine a quella dell’argilla. E non c’è bisogno di troppe parole per illustrare il significato dell’immagine. L’età dell’argilla significa che i partiti sono ormai svuotati della loro funzione di rappresentanza popolare. Sono scatole vuote; il che impoverisce e forse devasta la dialettica politica, deformandola e gettando ombre sulla salute della democrazia.
Non a caso nell’Italia di oggi c’è chi spinge per forme bizzarre di democrazia diretta il cui unico scopo è sottolineare l’irrilevanza del Parlamento, fino a proclamarne l’inutilità in un giorno non troppo lontano.
Nelle pagine di Ignazi colpisce l’inevitabile confronto tra l’Italia della rinascita post- bellica e quella di oggi, in cui la coesione nazionale sembra sfilacciarsi nonostante i proclami " sovranisti". C’è da riflettere sul senso delle istituzioni della Dc di De Gasperi — ma anche di Dossetti — attenta a distinguere tra partito e governo con uno scrupolo che in seguito sarà via via dimenticato. O sul sentimento " risorgimentale" del mondo laico ben interpretato da Ugo La Malfa e in seguito da Spadolini. E ancora il travaglio del Pci che con sofferenza vuole adeguarsi alla realtà di una società occidentale sviluppata e fondata sull’economia di mercato. O la parabola del socialismo riformista. E i radicali di Pannella che impongono nell’agenda politica il tema fragoroso dei diritti civili. Fino allo spazio adeguato che l’autore dedica alla crisi della sinistra e a quella che definisce " l’illusione del Pd". In questa cornice spicca l’esperienza di Renzi: dalla baldanza iniziale ai gravi e decisivi errori commessi nel segno di un " congenito egocentrismo".
Nessuna nostalgia, in conclusione, ma l’invito a capire meglio come e perché siamo finiti con i piedi nell’argilla.
I partiti in Italia dal 1945 al 2018 di Piero Ignazi (Il Mulino pagg. 352 euro 25)

Repubblica 31.1.19
Camminare è l’arte di trovare davvero noi stessi
Tutti i più grandi pensieri sono concepiti mentre si cammina, sosteneva Friedrich Nietzsche
di Paolo Rodari


In edicola con il nostro giornale il libro diventato di culto del primo uomo che ha raggiunto a piedi tre "poli": il Nord, il Sud e la cima dell’Everest Per l’autore prendersi il tempo di passeggiare consente di "sottrarsi alla tirannia della velocità e così dilatare la meraviglia di ogni istante della propria vita"
Da oggi con "Repubblica" il bestseller di Erling Kagge, l’esploratore norvegese che racconta le meraviglie dell’andare a piedi Un gesto al tempo stesso sovversivo e alla portata di tutti
Tutti i più grandi pensieri sono concepiti mentre si cammina, sosteneva Friedrich Nietzsche. E così ritiene Erling Kagge, l’esploratore norvegese che dopo aver dedicato un libro alla scoperta del silenzio e della sua voce, ha scritto Camminare, il libro da oggi in edicola con
Repubblica, indicando un gesto giudicato sovversivo e, insieme, alla portata di tutti. Occorre soltanto rinunciare alle comodità di sempre e scegliere di spostarsi a piedi, anche in città, anche nel quotidiano. Non ne beneficeranno solamente il pensiero e la salute, ma anche, forse soprattutto, lo spirito: «Sottrarsi alla tirannia della velocità significa dilatare la meraviglia di ogni istante e restituire intensità alla vita», scrive Kagge. Capita a chiunque, quando si decide di camminare, di scoprire tesori sui quali ci si era soffermati di rado, superficialmente. Capolavori dell’arte e dell’architettura sono lì, a un passo, ma non si dedica loro il tempo necessario.
Camminando, invece, le strade percorse mutano. Si abbandonano le direttrici più trafficate e si attraversano parchi, giardini, strade pedonali, le vie più nascoste e silenziose. A Roma si scoprono i 229 busti del Pincio, filari di marmo come un manuale di storia lungo venticinque secoli.
A Parigi le Colonne di Buren o il passaggio Choiseul. A Vienna la magnificenza dell’Innere Stadt, il centro storico dichiarato nel 2001 patrimonio dell’umanità dall’Unesco. E ancora a New York la vista al tramonto su Central Park da Top of The Rock, il Parco delle statue a Mosca, la vista del Tower Bridge e del Tamigi dal Millennium Bridge di Londra.
Nelle tradizioni religiose camminare è sempre stato un modo per trovare sé stessi, il proprio sentiero interiore. Gli antichi pustinnikki russi lasciavano tutto e andavano in cerca del loro deserto, il luogo di Dio, attraverso lunghe peregrinazioni fra pianure e steppe. Il pellegrinaggio al Tempio di Gerusalemme era prassi nel mondo ebraico al tempo delle feste Pesach, Shavuot e Sukkot. Così nel mondo islamico nel quale, oltre allo Hajj, il pellegrinaggio obbligatorio almeno una volta nella vita a Mecca, frequenti sono i pellegrinaggi alle tombe dei marabutti, i mistici del Nordafrica. E, ancora, i percorsi a piedi della tradizione buddista nei luoghi più importanti della vita di Buddha.
Ma cos’è camminare? Per Kagge è anzitutto fare amicizia con le cose: «La montagna giù in fondo, che si trasforma via via che ti avvicini, diventa una buona compagna ancor prima che tu l’abbia raggiunta. Gli occhi, le orecchie, il naso, le spalle , la pancia e le gambe le parlano e la montagna risponde. Il tempo si dilata, indipendentemente dai minuti e dalle ore». Insieme, camminare è perdersi per trovarsi: «Qui mi sono già perso una volta, so dove siamo», gli disse un giorno suo fratello durante una passeggiata.
Ma alla base di tutto c’è una scelta, ovvero la decisione sulla strada da prendere. D’istinto tutti cercano il cammino più facile. Mentre scegliere altri percorsi può essere allenamento utile per riuscire in grandi cose nella vita. «A scuola – scrive Kagge – non ero mai il migliore sugli sci o il più forte nelle gare.
Ogni anno ero tra i peggiori in tutte le materie e avevo voti pessimi in ginnastica. Oggi so che i motivi principali per cui ce l’ho fatta a portare a termine lunghi viaggi in sci sono che ho curato molto la preparazione e che ho tentato. Ho scelto la via difficile. Senza piegarmi ai consigli dati con le migliori intenzioni o ai commenti degli altri su cosa fosse possibile o meno per me. È stata una fortuna che nessuno avesse mai raggiunto il Polo Sud a piedi da solo. Arrivarci è stato più facile di quanto avessi pensato.
Proprio come mi sembrò un miracolo quando io e mio fratello riuscimmo a uscire dall’Østamrka quella volta in cui ci eravamo persi».
Come diceva Arne Næss, «l’impossibile ogni tanto capita anche a noi». Scegliere la strada più difficile nel camminare è dunque spinta a raggiungere l’impossibile nella vita. Lo sosteneva anche il filosofo Martin Heidegger per il quale gli uomini, per essere liberi, dovrebbero desiderare di caricarsi di fardelli. «Scegliendo la via con meno ostacoli – chiosa Kagge – si dà sempre la priorità all’opzione che comporta meno preoccupazioni. In questo modo le nostre decisioni sono stabilite a priori e viviamo non solo una vita non libera, ma anche noiosa».

Corriere 31.1.19
1919-2019 Un saggio di Franzinelli
Il doppio registro di Mussolini «sansepolcrista»
di Antonio Carioti


Bisogna essere grati a Mimmo Franzinelli per lo scrupolo e l’attenzione con cui si dedica a diversi argomenti della nostra storia recente, fornendo sempre al lettore nuovi dati e spunti di riflessione. Questa volta, approfittando del centenario, nel volume Fascismo anno zero (Mondadori, pagine 289, e 22) si è cimentato con i primi mesi di vita del movimento mussoliniano, quando i suoi connotati erano più ambigui e la sua sorte più precaria, tanto è vero che il 1919 si chiude per il futuro Duce con una bruciante sconfitta elettorale. Il 16 novembre i fascisti nella circoscrizione di Milano, l’unica dove si presentano da soli, non prendono seggi e restano sotto i 5 mila voti, umiliati dall’odiato Psi che ne ottiene 170 mila. Eppure tra i candidati rimasti al palo c’erano nomi di spicco, come il poeta capofila del futurismo Filippo Tommaso Marinetti, il grande direttore d’orchestra Arturo Toscanini (più tardi antifascista) e naturalmente lo stesso Benito Mussolini.
Come emerge dalle pagine di Franzinelli, non funziona un granché il doppio registro che contrassegna l’esordio del fascismo: da una parte nazionalismo accanito e antisocialismo violento (favorito dalla posizione estrema del Psi, abbagliato dal mito sovietico); dall’altra apertura alle istanze della classe operaia, ardite proposte di riforma, ostilità di facciata alla «plutocrazia». Tre giorni prima di fondare il suo movimento con l’adunata di piazza San Sepolcro a Milano, Mussolini il 20 marzo 1919 va a Dalmine, presso Bergamo, ad arringare i lavoratori che hanno occupato un’acciaieria. Nel programma dei Fasci di combattimento reclama il voto alle donne, imposte espropriative sul capitale, il sequestro dei beni ecclesiastici e di gran parte dei profitti di guerra: punti destinati a finire in soffitta. E il 23 marzo a San Sepolcro Mussolini invoca il passaggio dalla monarchia alla repubblica, applaudito da una platea limitata (circa 200 persone, di cui Franzinelli fornisce i profili), nella quale molti sono coloro che si staccheranno da lui.
Infatti lo spazio disponibile in abbondanza per i fascisti si trova a destra, in sintonia del resto con la vocazione aggressiva che il 15 aprile 1919 li porta a incendiare la sede dell’«Avanti!», il giornale del Psi di cui un tempo Mussolini era stato direttore. Quell’episodio cruento, con quattro morti, si può considerare il battesimo dello squadrismo, che nel 1920 comincerà a dilagare prima in Venezia Giulia e poi nella valle del Po.
Franzinelli sottolinea, con nuove interessanti acquisizioni, il peso che ebbero nello sviluppo del fascismo i finanziamenti procurati da ambienti imprenditoriali di punta. Non pare però che questi elementi possano inficiare l’interpretazione di autori come Renzo De Felice ed Emilio Gentile, che hanno visto nella creatura di Mussolini una «espressione della piccola borghesia o dei ceti medi», e suggerire, come scrive Franzinelli, di considerarla invece «un movimento politico supportato dalla parte più moderna del capitalismo».
In realtà l’una cosa non contraddice l’altra. Certamente i Fasci (come altre forze avverse al Psi) ricevettero fondi da industriali e banchieri nel 1919, ma il denaro nell’immediato servì a poco, data la terribile batosta elettorale di cui si è detto. A rendere Mussolini protagonista, consentendogli poi una rapida ascesa, fu invece proprio il consenso di massa dei ceti medi che conquistò a partire dalla seconda metà del 1920, mettendosi alla testa della reazione borghese, spesso molto brutale, contro la minaccia «bolscevica» che tanta apprensione suscitava nel Paese.

Il Fatto 31.1.1
Io e Totò sfuggiti ai fasci. “Nascosti per 15 giorni”
di Ciro Borrelli e Domenico Livigni


Di seguito riportiamo una parte del libro “Totò con i quattro” scritto da Ciro Borrelli e Domenico Livigni. I due si sono documentati a fondo sulla vita del Principe e delle sue celebri quattro spalle (se spalle si possono definire), e da questo studio hanno tratto una serie di interviste immaginarie ma fedeli negli episodi narrati.

Lei e Totò eravate antifascisti, vero?
Fortemente! A me e a mio fratello Eduardo una sera i gerarchi mandarono degli squadristi, che finito lo spettacolo, salirono in palcoscenico per darcele. Per fortuna ci avvisarono a tempo; sgattaiolammo da un’uscita secondaria. Ad Antonio, in quegli anni, tirarono addirittura una bomba! All’epoca si esibiva al Teatro Valle di Roma insieme alla meravigliosa Anna Magnani.
Nel suo libro, “Strette di mano”, descrive un tentativo di deportare voi De Filippo e Totò in Germania?
In un tardo pomeriggio della primavera del 1944, a quell’epoca la mia compagnia si esibiva all’Eliseo di Roma, i miei fratelli e io stavamo per andare in scena, quando a un tratto vedemmo arrivare in teatro Totò. Senza troppi convenevoli mi prese per la giacchetta e mi trascinò in camerino. Aveva l’aria preoccupata ed era scuro in volto. Una volta soli, e lontano da occhi indiscreti, mi disse che aveva sospeso le prove in teatro e che stava andando a nascondersi da un suo amico. Lo fissavo senza riuscire a capire dove volesse arrivare. Poi, tentennando con la testa, si grattò il mento lungo e sporgente e mi disse, anzi mi sussurrò, che aveva ricevuto una soffiata da un suo confidente che lavorava presso la Questura centrale. I fascisti avevano preparato una lista. Un elenco di persone destinate a un treno e alla deportazione in Germania. Sullo stesso treno, insieme a Totò, saremmo dovuti finire anche noi De Filippo.
Totò dove si nascose?
All’estrema periferia di Roma Nord, con la moglie e la figlia, ospite dei coniugi De Sanctis, suoi grandi ammiratori. Nessuno doveva sapere dove fosse ma in realtà alcuni estimatori del Principe andarono a fargli visita in cambio di un autografo.
Si rese conto subito del rischio che lei e suo fratello correvate?
All’inizio pensai che si trattasse di uno scherzo. Totò non era nuovo a scherzi pesanti e anche di cattivo gusto; tanto è vero che io quasi sorridevo mentre lui si agitava alzando il tono della voce: “Ci hanno messo pure a me… ma tu ci pensi? Un principe deportato come un malvivente? Ma io so dove nascondermi. Lo stesso dovete fare anche tu e tuo fratello, ma presto!”. Io e Eduardo fummo molto cauti. Sospendemmo le recite e ci rifugiammo presso una cara amica che abitava ai Parioli, una parente di Guido Alberti, futuro organizzatore del Premio Strega, nei pressi della dimora della mia amatissima moglie Lidia.
Quanto tempo restò nascosto con suo fratello?
Quindici giorni. Durante quell’isolamento ricevemmo una visita inaspettata.
Totò?
Assolutamente no. La cameriera venne a dirmi che alla porta vi era una ammiratrice in cerca di un mio autografo e con in mano un biglietto da consegnarmi: era di Totò, il quale, venuto a sapere del mio nascondiglio, mi chiedeva di concedere una dedica alla ragazza. Andai su tutte le furie. Ma come, il mio amico Totò spiattella alla prima che capita il nascondiglio? Lo avrei strozzato.
Dopo quanto tempo vi rincontraste?
Mesi. Nel frattempo mia madre ci aveva lasciati il mattino del 21 giugno del 1944 all’età di sessantasei anni. Sei mesi dopo si era sciolta la compagnia dei De Filippo, mi ero separato artisticamente dai miei fratelli, con i quali negli ultimi tempi ci si sopportava a malapena, specie con Eduardo. Mi ero separato dalla mia prima moglie e, con dolore, da mio figlio Luigi; avevo lasciato la mia Napoli e stabilito a Roma. Ero stato scritturato da Remigio Paone, grazie all’amico Michele Galdieri, per la Rivista Imputati alzatevi!. Soldi ne guadagnavo tanti, ma con questa compagnia di Rivista passavo continuamente da un cinema-teatro ad un altro, e non mi sentivo soddisfatto. Ecco perché avevo deciso di lasciare Paone, e sotto consiglio di Lidia, a metter su una mia compagnia, in lingua italiana con la quale debuttai a Milano nell’agosto del 1945. Un successo incredibile. Mentre eravamo in tournée per tutta l’Italia, passando per Roma incontrai Totò. Quell’anno fui talmente impegnato in teatro, che non girai nessun film e rinunciai ad una proposta cinematografica che mi avrebbe fatto comodo da un punto di vista economico. Totò, anch’egli impegnato in teatro, invece girò un film di poco conto, Il ratto delle sabine. Si salvano solo i duetti con colui che sarà la sola e vera spalla del principe: Mario Castellani. Mario fu la spalla di Totò! Non io, non Fabrizi né Taranto. Noi tre fummo dei primi attori, dei comprimari al pari di Totò. Con questo non voglio sminuire la memoria del mio amico Mario, ottimo interprete. Tanto è vero che ha collaborato con la mia compagnia per diverso tempo.
Torniamo al suo incontro con Totò nel Dopoguerra…
Dopo i convenevoli, lo presi in disparte e sotto braccio gli dissi: “Antò, ma il fatto dei tedeschi fu uno scherzo?”. Rispose: “Fossi matto! Ma tu sei scemo? Molti artisti dovevano essere deportati in Germania. Ti ho salvato la pelle”. Gli feci ancora: “E la ragazza alla porta? Quella dell’autografo?”. Accennò una timida smorfia tenendo a freno quel suo dolce e malizioso sorriso, poi, fissandomi con i suoi occhioni neri ed espressivi rispose: “Quello sì che era uno scherzo!”. Poi mi diede una pacca sulla spalla e ci abbracciammo.


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