La Stampa 30.1.19
Tra i militanti di guardia all’edificio
“Resisteremo, non ci cacceranno”
di Maria Rosa Tomasello
Dei
tanti stabili occupati di Roma, quello che CasaPound ha contrassegnato
nel quartiere Esquilino con il proprio nome e la propria bandiera è
probabilmente l’edificio che gode della posizione migliore: duecento
metri più in là c’è la superba basilica di Santa Maria Maggiore, a
trecento piazza Vittorio, a seicento la stazione Termini. Un luogo in
cui magnificenza e degrado si mescolano nello spazio più multietnico
della Capitale, tra negozi indiani e cinesi, bar di tendenza e
senzatetto accovacciati con le loro povere cose negli androni.
«I
“compagni” però ne hanno occupato uno in un posto migliore, in piazza
del Popolo...» commenta Simone Di Stefano. Nell’aria gelida che
accompagna il tramonto, per evitare le intrusioni indesiderate dei
cronisti, il segretario nazionale ha deciso di restare di guardia
davanti al portone del grande immobile in stile razionalista che
l’associazione ha “preso” il 26 dicembre del 2003. «Oggi non si entra,
la rabbia è tanta» dice Di Stefano. Accanto a lui, a garantire il
rispetto del divieto c’è un piccolo gruppo di militanti storici. Il 27
ottobre scorso, per la prima volta, il portone era stato spalancato a
giornalisti e autorità per far conoscere le storie delle famiglie «in
emergenza abitativa» che vivono nei 18 appartamenti di questo edificio
di sei piani di proprietà del Demanio, dove dai primi Anni Sessanta
hanno trovato posto per decenni gli uffici di quello che oggi è il Miur.
Ma questa volta l’ingresso è sbarrato.
«L’occupazione scattò
quando lo Stato si mise a vendere le case degli enti pubblici con la
gente dentro, persone che, se non poteva comprare, finivano sfrattate»
racconta Di Stefano. Quel giorno di dicembre lui c’era. E per questo,
spiega, la sua residenza è qui, benché non ci viva. Qui è stata
stabilita anche la sede legale dell’associazione, «ma non c’è alcuna
sede operativa, solo una sala conferenze. E le famiglie».
Ogni
piano, tre appartamenti. In uno di questi vive da 16 anni Federica, che
attorno alle 18 esce per andare al lavoro: «Mio padre era con loro -
indica - quando occuparono, e io sono cresciuta qui: ho un lavoro
part-time come cassiera, ho due bambini e mio marito si arrangia, non
potrei permettermi di pagare un affitto. Verranno a sgomberare? Non ho
paura, ho fiducia in CasaPound». Di Stefano dice di sperare in una
soluzione condivisa: che in caso di sgombero il Comune «rispetti
l’impegno a trovare 18 alloggi di edilizia pubblica a chi vive qui». Ma
in caso contrario, «se dovesse servire, siamo pronti a resistere allo
sgombero». Un uomo anziano si allontana rapido, il suo nome è Fernando
D. «Qui ci vive mia figlia. Ha due bambini di 2 e 8 anni, è disoccupata,
il marito lavora in ospedale come ferrista, i soldi non bastano per un
affitto. Devo aiutarli io, altrimenti non ce la farebbero. Spero proprio
che li lascino stare». Sono storie di persone in difficoltà, elencano i
militanti, «famiglie conosciute, che hanno la residenza e pagano
l’immondizia»: un padre che vive accudendo un figlio disabile con una
pensione di 280 euro al mese; un uomo che ha perso il lavoro dopo un
grave ictus accolto con moglie e figli; un giovane precario che vive con
la madre nullatenente; un pensionato al minimo che divide la casa con
il figlio e la moglie. «persone a cui bisogna dare una risposta».
Ma
benché la strada dello sgombero sia tracciata, l’immobile non è
inserito tra le emergenze e i tempi appaiono lunghi. A meno che la
mozione votata ieri non rimescoli le carte in tavola, modificando le
priorità: una ipotesi che, tuttavia, Matteo Salvini sembra già aver
scartato.