La Stampa 2.1.19
“Dal Dragone che cresce sempre meno la maggiore fonte di incertezza globale”
di Francesco Semprini
Sulle
sorti economico-finanziarie del Pianeta, nel 2019, pesa più di ogni
altra la “variabile Cina” e il suo rallentamento legato all’incapacità
di Pechino di invertire le proprie spinte accentratrici». È il monito
lanciato da Kenneth Saul Rogoff, guru di Harvard, già capo economista di
Fmi e membro del Board della Federal Reserve.
Cosa preoccupa di più la congiuntura globale nel 2019?
«Il
primo elemento di incertezza è la Cina, il cui rallentamento è
evidente. In caso di una frenata, gli effetti ci saranno soprattutto sui
mercati finanziari, le cui difficoltà sono emerse già nel 2018».
È una conseguenza della guerra commerciale scatenata dal presidente Trump?
«La
guerra commerciale è un catalizzatore, ma non si può certo identificare
come la causa principale del rallentamento cinese. In ogni caso è un
elemento che riduce la fiducia degli operatori, specie in un sistema
economico di crescita come quello asiatico che si basa soprattutto sulle
esportazioni. Se l’Asia sarà costretta a una ristrutturazione in virtù
del rallentamento cinese l’economia del continente necessariamente
registrerà un rallentamento».
Chi altro ne pagherà le conseguenze?
«Alcune
realtà europee come la Germania, mentre l’Italia non sarà penalizzata
perché il suo interscambio con Pechino ha una buona tenuta».
Cosa c’è allora dietro il rallentamento cinese?
«L’incapacità
di Pechino ci decentralizzare l’economia rispetto a un potere politico
sempre più accentratore. Il vero interrogativo è capire quanto durerà il
rallentamento».
Ne ha idea?
«L’istinto mi dice che le cose andranno molto peggio prima di migliorare».
Oltre alla Cina si aggiungono altri fattori di incertezza nel 2019?
«Uno
riguarda la Federal Reserve e le sue scelte in materia di tassi, il
secondo è legato invece alle tensioni geopolitiche globali».
Parliamo della Fed, ritiene che la politica monetaria sia troppo aggressiva?
«Ritengo
che, specie nell’ultima riunione del 2018, Jerome Powell e gli altri
governatori della Banca centrale Usa non avessero grandi alternative al
rialzo dei tassi. Prima di tutto perché dovevano dimostrare la loro
indipendenza rispetto ai reiterati attacchi da parte Trump. Avrebbero
però potuto modificare il linguaggio utilizzato nel comunicato finale,
ribadendo la loro attenzione alle incertezze sulla crescita economica
globale. Il loro linguaggio è stato sicuramente quello che ha causato i
ribassi sui mercati finanziari».
Anche sulle decisioni della Fed pesano le sorti della Cina?
«Certo.
Nel caso una recessione cinese, legata in particolare a un crollo della
produttività e a una riduzione del surplus, la conseguenza potrebbe
essere quella di un aumento dei tassi di interesse a livello globale
piuttosto che una riduzione come invece si verificherebbe nel caso di
recessione degli Stati Uniti. Di questo, ancor prima di altri fattori
interni, la Fed deve tenere conto».