La Stampa 2.1.19
Confini, dazi e diritti
Le insidie nascoste del 2019 di Xi Jinping
di Carlo Pizzati
In
questo momento, la Cina è la nazione apparentemente più ricca e stabile
del Pianeta. Apparentemente. In realtà, le sfide che incontra in questo
2019 partono dalla crescita economica rallentata, passano per una
difficile guerra commerciale con l’America che dura da 100 giorni,
arrivano a un rapporto complesso con i vicini asiatici, ma, soprattutto,
affrontano un controllo sociale interno senza precedenti che svela il
volto corrucciato di un Paese senza flessibilità.
Tutto questo è
stato oculatamente evitato nel discorso di Capodanno del leader a vita
Xi Jinping. «Il ritmo delle riforme non languirà - ha promesso - anzi,
le porte si apriranno sempre più al mondo». Il fact-checking conferma
che per gli investitori stranieri l’accesso al mercato resta difficile.
Xi ha elencato 100 misure applicate nel 2018, senza mai parlare della
guerra commerciale con Trump. L’economia, ha detto, resta dentro un
gamma accettabile.
La verità è ben diversa. La Banca Mondiale
prevede che quest’anno la crescita cinese rallenterà al 6,2 per cento.
Risultato robusto per gli standard mondiali, ma è la più debole
espansione dal 1989. Una data questa che risuona nella memoria del mondo
intero perché fu l’anno della strage di Tienanmen. Xi Jinping non vuole
se ne parli. Ma il mondo e i dissidenti ricordano a Pechino che sul
fronte dei diritti si sono fatti pochi progressi. Le proteste di Hong
Kong rivelano solo una minima parte del nodo che la Cina deve
affrontare.
A marzo si celebrano 30 anni di legge marziale in
Tibet, ma anche i 60 anni di esilio del Dalai Lama. E si ricordano i 20
anni di repressione della setta dei Falung Gong, un milione di seguaci
scomparsi e «rieducati». Il tutto senza dimenticare il milione e 100
mila uiguri, minoranza musulmana dello Xinjiang che al momento sono in
«campi educativi» a cantare canzoni comuniste.
Il 1° ottobre 2019
si celebrano i 70 anni della fondazione della Repubblica Popolare
Cinese. Occasione di propaganda e sfilate, certo, ma per alcuni è il
momento di ricordare che «la sincerità naive del popolo cinese di
quell’epoca è stata tradita», come disse l’astrofisico Fang Lizhi poco
prima del massacro di Tienanmen il 4 giugno dell’89.
Anche per
questo le misure di sicurezza in Tibet e nello Xinjiang sono aumentate.
Anche per questo si sono susseguiti in questi mesi arresti di avvocati,
personale delle Ong e militanti per i diritti civili. In questi giorni è
finito in carcere l’autore di un romanzo erotico gay; una cerimonia di
premi cinematografici è stata oscurata in tv perché un vincitore è a
favore dell’indipendenza di Taiwan; e il leader dell’Interpol cinese è
in prigione da settembre senza capi d’accusa. Tutto ciò, nel 2019,
promette di peggiorare. Il quotidiano nazionale dell’Esercito Popolare
di Liberazione lo scrive nell’editoriale di Capodanno: «Rafforzare la
preparazione per la guerra sarà una delle priorità del 2019». I militari
promettono che la preparazione sarà «in tutte le direzioni». Comprese
le minacce interne.
Così la Cina cresciuta sotto la guida di
leader focalizzati sull’economia come Jiang Zemin e Hu Jintao, ora ha un
leader più simile a Mao. Xi, che nel 2017 appariva come il paladino
della globalizzazione, si rivela in una luce diversa. La differenza con
altri autocrati contemporanei come Mohammed bin Salman, Recep Erdogan o
Rodrigo Duterte è che Xi Jinping è più organizzato e lucido. Dopo
pesanti purghe, ha consolidato il controllo personale del politburo, a
dicembre ha promosso a generali 38 colonnelli fidati, controlla la
Commissione sulla sicurezza nazionale e anche l’apparato burocratico
statale. Società civile, media, Internet, religioni e università hanno
subito pesanti restrizioni. Il dibattito ideologico viene scoraggiato. I
«pensieri» di Xi sono ora incorporati nella Costituzione.
Xi
Jinping può continuare a far credere che questo è il prezzo per
diventare una superpotenza. Ma gli anniversari di quest’anno offriranno
un’occasione particolare. I dissidenti in Cina usano il patriottismo
come mantello per nascondere le critiche all’establishment. E così, come
accadde a Tienanmen, a Pechino ora si teme che la rabbia antiamericana
scaturita dalla guerra commerciale possa all’improvviso rigirarsi contro
Xi e il Partito.