La Stampa 29.1.19
Così si curava l’uomo delle caverne: quelle piante preistoriche che ancora oggi servono a guarire
La
storia antichissima che lega mondo naturale, intuizione umana e magia
raccontata nella mostra «Le piante e l’uomo» al Museo delle Civiltà di
Roma
di Andrea Cionci
Fin dalla Preistoria,
l’uomo ha avuto la necessità di trovare rimedi per curare ferite e
malattie. In questo è stato guidato dalla sua facoltà istintiva a
scoprire le proprietà utili, curative e alimentari delle piante, un po’
come gli animali.
La storia antichissima che lega mondo naturale,
intuizione umana e magia è oggi raccontata dalla mostra «Le piante e
l’uomo» curata da Paolo Maria Guarrera e allestita presso il Museo delle
Civiltà (arti e tradizioni popolari) di Roma (dal 21 dicembre 2018, al
21 aprile 2019).
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Uno
dei problemi più importanti per l’uomo preistorico era individuare
quali piante potessero essere commestibili e quali velenose. Per questo
si osservavano gli animali e talvolta si somministrava loro le piante di
cui si voleva vedere l’effetto.
«In quest’opera di “ricerca”
delle proprietà vegetali» spiega il direttore del Museo, Filippo Maria
Gambari - «le donne ricoprivano un ruolo di primo piano. Mentre infatti
l’uomo si occupava della caccia, esse erano dedite alla raccolta di
frutti ed erbe spontanei. Furono anche le prime a coltivare i semi dando
poi avvio all’agricoltura. Questa loro attività faceva sì che nelle
comunità nascesse e si affermasse la figura della “donna di medicina”
che, di solito anziana, sopravvissuta a molti parti, ricopriva il ruolo
di sciamana”.
Il fatto che per due milioni e mezzo di anni il
mondo sia andato avanti con questa divisione dei compiti, è anche
all’origine delle differenti abilità e propensioni tra il cervello
maschile e quello femminile. Ancor oggi le donne possiedono dei
recettori nueronali che consentono loro di distinguere meglio i colori e
di individuare con più attenzione dettagli che all’uomo solitamente
sfuggono.
Tra l’altro, quasi sempre l’attività di raccolta dei
vegetali doveva essere condotta insieme ad altre incombenze, riguardanti
la cura dei bambini e dell’abitazione, ecco perché si parla della
famosa capacità “multitasking” della donna. Viceversa, il maschio grazie
alla caccia, ha sviluppato una particolare capacità di concentrazione
che gli consente di focalizzare tutta la propria attenzione su un solo
obiettivo, escludendo tutto il resto, come poteva essere richiesto
all’epoca, dalla ricerca di un odore, di una traccia della fuga di un
animale.
Consolida Maggiore
Grazie alle acute capacità di
osservazione, le donne di medicina avevano quindi compreso come alcune
erbe avessero il potere, ad esempio, di favorire la cicatrizzazione
delle ferite. Tra queste, la Consolida Maggiore, come venne poi chiamata
da Plinio il Vecchio. Questa pianta, ancora oggi, in certe zone viene
usata dalla medicina popolare per le sue proprietà vulnerarie (guarisce
le ferite); pare inoltre che stimoli la formazione del callo osseo in
caso di fratture. Sembra che il sollievo e la guarigione siano dati da
una sostanza chiamata allantoina, usata, in sintesi chimica, anche
dall’industria farmaceutica per gli stessi scopi.
Si ricordi poi
il Luppolo che ha delle proprietà antidolorifiche tanto che si dice che
chi soffre di artrosi, tragga qualche giovamento dal bere birra.
Le
proprietà vermifughe dell’aglio erano, poi, ben note. La parassitosi
intestinale che oggi risulta appena un lieve e frequente inconveniente
«scolastico», costituiva nei tempi arcaici una delle più diffuse cause
di deperimento e morte dei bambini che, sempre a contatto con il terreno
facilmente ingerivano uova di ossiuri e altri vermi.
Un altro
rimedio usato nelle comunità preistoriche era il papavero, i cui semi
venivano impiegati per facilitare il sonno. Dopotutto, da questa pianta
si estrae l’oppio e se ne distilla la morfina.
Vi era poi tutta
una serie di foglie e muschi applicati come bendaggi, spesso in
associazione con delle muffe particolari dall’azione antibiotica. Per
quanto solo alla fine dell’800 il medico molisano Vincenzo Tiberio
avesse studiato e dimostrato il potere antibiotico delle muffe -
anticipando di 35 anni le scoperte di Fleming sulla penicillina - nella
medicina popolare è sopravvissuto quest’uso per centinaia di migliaia di
anni. Non a caso, un proverbio piemontese recita: «La ragazza che
mangia il pan muffì, la vien più bella dì per dì (la ragazza che mangia
il pane ammuffito diventa più bella di giorno in giorno)». Si era notato
che mangiare il pane di segale muffito potesse portare, ad esempio, dei
benefici a livello dermatologico.
Amanita Muscaria
Anche
nelle mummie egiziane sono state trovate tracce di questi antibiotici
primordiali. Naturalmente, erano da preferirsi le muffe createsi su
cereali o vegetali, non certo quelle che si formavano sulla carne, che,
in quanto contenenti cadaverina, sono velenose.
Uno dei
proto-farmaci più straordinari fu la corteccia del salice: essa è ricca
di salicina, sostanza che svolge attività analgesiche, antinfiammatorie e
antipiretiche tramite l’inibizione di un enzima responsabile
dell’insorgenza di infiammazione, febbre e dolore. I nostri progenitori,
specie quelli dell’Europa centro-settentrionale, erano soliti mettere a
macerare nell’aceto di mele la grigia scorza di questo albero ottenendo
una sorta di aspirina ante litteram, che è per l’appunto acido
acetil-salicilico.
Per comprendere la messa a punto di questi
rimedi, bisogna immaginare l’esperienza stratificata di decine di
migliaia di generazioni che ha prodotto una forma «darwiniana» di
sperimentazione che l’uomo moderno non può concepire.
Nella più completa ignoranza della chimica, l’uomo preistorico attribuiva tali proprietà alla magia, come è comprensibile.
Non
a caso, le arpe dei Celti erano di legno di salice, che si riteneva
fosse un materiale magico utile per collegarsi alle divinità apollinee
del loro pantheon.
«A tal proposito, – spiega il direttore Gambari
– sono significativi i tatuaggi che sono stati ritrovati sulla pelle
dell’Uomo del Similaun, mummia risalente a 5000 anni fa, ritrovata sul
ghiacciaio omonimo al confine tra Italia e Austria. L’analisi
osteologica su Oetzy ha dimostrato che l’uomo soffriva di osteoartrosi.
Proprio nei punti che dovevano essere dolenti per il soggetto, sono
ancora visibili tatuaggi realizzati con magnetite, un materiale che per
le sue proprietà poteva realmente dargli sollievo. Basti pensare a
quanto oggi avviene con i cerotti magnetici studiati appositamente per
lenire i sintomi di questa patologia. Tuttavia è probabile che l’Uomo
del Similaun attribuisse la sua guarigione più ai simboli magici che non
al materiale con cui era stata dipinta la sua pelle».
Di queste
eredità magiche sopravvivono ancor oggi alcuni lacerti. Ad esempio,
l’usanza di baciarsi sotto al vischio a Capodanno, deriva dalla credenza
antichissima per cui questa pianta, crescendo sugli alberi morti, fosse
capace di rigenerare e donare nuova vita.
Anche le fiabe in cui
la principessa bacia il rospo e lo fa diventare principe derivano dai
reali effetti allucinogeni che l’essudato della pelle del rospo produce.
Da sempre ritenuto animale magico, non è infrequente trovarlo nelle
tombe antiche e, immancabilmente, nei ricettari stregoneschi.
La
palma della curiosità spetta però alla leggenda secondo cui Babbo natale
viaggia su una slitta volante trainata da renne. Questo si spiega con
il fatto che, ancora in area celtica, gli sciamani fossero soliti
assumere, durante la festività di Yule, coincidente col solstizio
d’inverno, delle sostanze psicotrope che facilitassero i loro contatti
col divino. Tra queste, vi era l’urina di renna: il cervide, cibandosi
del fungo Amanita muscaria – velenoso per l’uomo – ne filtrava e
concentrava con l’urina il solo alcaloide allucinogeno (il muscimolo)
eliminando la tossicità del fungo.
Fra le allucinazioni più
frequenti durante questo rito vi era quella appunto in cui le renne
cominciavano a volare tutt’ intorno, anche perché gli stessi quadrupedi,
sotto l’effetto dell’Amanita, sono soliti darsi a galoppate e corse
pazze senza scopo apparente.