mercoledì 2 gennaio 2019

La Stampa 29.12.18
Amos Oz, la luce nel deserto
La morte del grande scrittore israeliano
di Elena Loewenthal


Amos Oz ci ha lasciato ieri, a settantanove anni. «Se n’è andato nel sonno, serenamente, circondato dai suoi cari», ha scritto sua figlia sui social, poco dopo. Era malato da tempo ma al suo tumore, alle lunghe e sfiancanti cure e alle limitazioni che gli imponeva, alludeva solo ogni tanto con un sorriso quasi ironico, mai vinto. Lui era tutto in quei suoi meravigliosi occhi celesti, penetranti eppure carezzevoli, così profondi, così sapienti, così luminosi: in quegli occhi c’era il bambino timido che viveva in una piccola casa addossata alla roccia di Gerusalemme insieme a madre, padre e una montagna di silenzi, c’era lo sgomento di un tredicenne di fronte al suicidio di colei che l’aveva messo al mondo, c’era l’adolescente ribelle che abbandona il suo mondo e va a costruirne uno nuovo in kibbutz, c’era il giovane uomo che sta scoprendo la propria storia e comincia a scrivere alla fine del turno di lavoro, dopo la mungitura. C’era il grandissimo scrittore che divenne ben presto, fra un turno di lavoro in kibbutz e l’altro, animato da una vocazione che non lo tradì mai, in sessant’anni e più, e migliaia di pagine. In quei suoi occhi si leggevano anche le passeggiate che faceva la mattina prestissimo, prima dell’alba, nel deserto che cominciava proprio accanto a casa sua, ad Arad, nel Neghev, dove si era trasferito nel 1986, «per andare a vedere se c’è qualcosa di nuovo nel deserto». Perché solo così, diceva, prendeva le misure di ciò che conta veramente e di ciò che invece passa come neve al sole.
Poi si sedeva alla scrivania, dove teneva sempre due penne di diverso colore. A seconda dello stato d’animo in cui si trovava, usava una o l’altra: «Quando sono al cento per cento d’accordo con me stesso, mi dedico a un saggio, un articolo di giornale, un’invettiva politica». Ma quando era animato dai dubbi, dalle contraddizioni, dalla consapevolezza di quanto la vita sia complessa, e ricca, allora scriveva una storia.
Era nato a Gerusalemme il quattro maggio del 1939, figlio di Yehudah Arieh Klausner e Fania Mussman. Illustre famiglia di eruditi quella del padre, originari della Lituania, profondamente «urbani» e lontani dal sionismo socialista ed egualitario, calda e lontana quella della madre, in gran parte travolta dalla Shoah. Figlio unico e prezioso, ma anche fragile parafulmine di dolori inesprimibili, un giorno sua madre decise che vivere non aveva più senso: «Se fossi stato laggiù accanto a lei in quella stanza che dava sul cortile... avrei pianto avrei implorato senza pudore avrei abbracciato le sue gambe e forse fatto finta di svenire e picchiato e graffiato me stesso fino al sangue come avevo visto fare a lei nei momenti di sconforto», scrive alla fine di Una Storia di Amore e di Tenebra, il suo capolavoro più grande, la storia dei suoi primi tredici anni ma anche l’epopea di una Paese che stava nascendo e di una storia, quella ebraica, che stava cambiando drasticamente.
Ci aveva messo cinquant’anni, Amos Oz, per raccontare questo dramma e il se stesso che era diventato dopo di allora, ma sua madre Fania abita in quasi tutti i suoi libri, è la figura femminile vaga e indecifrabile, sempre sfuggente, più un’ombra che un personaggio, che a un certo punto della storia, come ne Il Monte del Cattivo Consiglio, prende e se ne va per l’eternità, chissà dove. Sono la rabbia e il dolore e la nostalgia del bambino abbandonato che hanno dato vita a tanta, tanta poesia fra le sue pagine. Come in quello che è certamente il suo romanzo più atipico, Lo stesso mare, un’elegia in forma di narrazione, un po’ in versi e un po’ no, in cui si narra, anche qui, di una donna che non c’è più, e di tanti amori dove però c’è sempre una distanza insormontabile fra chi ama e chi è amato: nel tempo, nello spazio, nel ricordo, nel rimpianto.
Poco dopo la morte della madre, il giovane Amos se ne va di casa e si lascia alle spalle tutto il suo mondo per abbracciare una vita nuova nel kibbutz, gli ideali socialisti così invisi alla famiglia del padre e alla sua erudizione. Cambia nome, da Klausner diventa Oz, che in ebraico significa «forza» ma non nel senso di sopraffazione. È la forza dell’animo, della volontà e dell’amore che trovò ben presto laggiù. La sua primogenita l’ha chiamata Fania, come la madre. È diventato scrittore presto, ma a poco a poco: ci ha messo anni ad abbandonare del tutto i lavori manuali che faceva come tutti gli altri membri del kibbutz di Hulda, al centro d’Israele.
A poco a poco ha lasciato i campi e la stalla, per restare alla scrivania. E ha scritto tanto, tanti di quei romanzi indimenticabili, pieni di storie e di sentimenti, di quella sapienza di vita che faceva parte del suo straordinario armamentario stilistico. Una prosa sempre perfetta, di una lucidità e di efficacia che colpisce a prima vista e va sempre dritta al cuore: una meraviglia continua, per chi da vent’anni accompagna i suoi libri in italiano. Perché la sua scrittura è proprio come quei due meravigliosi occhi celesti che ti guardavano con una gentilezza intelligente, per dirti: guarda che tante cose le capisco anche se non me le dici. È stato uno scrittore generoso come pochi, perché ha regalato ai suoi lettori tanti libri indimenticabili: dall’ultimo suo romanzo, Giuda a Una pace perfetta, dallo strabiliante La scatola nera a Finché morte non sopraggiunga, due novelle scritte tanti anni fa e solo ora apparse in traduzione italiana. Amava profondamente le parole, ma sapeva abitare anche il silenzio, che cercava la mattina nel deserto ma anche a Tel Aviv dove ha vissuto negli ultimi anni, che incastonava fra una riga e l’altra delle sue storie. «Veniamo dal silenzio e al silenzio siamo destinati a tornare», diceva. Ma quanto, quanto sarà triste per noi il suo, di silenzio, da oggi in poi.