La Stampa 29.12.18
Amos Oz, la luce nel deserto
La morte del grande scrittore israeliano
di Elena Loewenthal
Amos
Oz ci ha lasciato ieri, a settantanove anni. «Se n’è andato nel sonno,
serenamente, circondato dai suoi cari», ha scritto sua figlia sui
social, poco dopo. Era malato da tempo ma al suo tumore, alle lunghe e
sfiancanti cure e alle limitazioni che gli imponeva, alludeva solo ogni
tanto con un sorriso quasi ironico, mai vinto. Lui era tutto in quei
suoi meravigliosi occhi celesti, penetranti eppure carezzevoli, così
profondi, così sapienti, così luminosi: in quegli occhi c’era il bambino
timido che viveva in una piccola casa addossata alla roccia di
Gerusalemme insieme a madre, padre e una montagna di silenzi, c’era lo
sgomento di un tredicenne di fronte al suicidio di colei che l’aveva
messo al mondo, c’era l’adolescente ribelle che abbandona il suo mondo e
va a costruirne uno nuovo in kibbutz, c’era il giovane uomo che sta
scoprendo la propria storia e comincia a scrivere alla fine del turno di
lavoro, dopo la mungitura. C’era il grandissimo scrittore che divenne
ben presto, fra un turno di lavoro in kibbutz e l’altro, animato da una
vocazione che non lo tradì mai, in sessant’anni e più, e migliaia di
pagine. In quei suoi occhi si leggevano anche le passeggiate che faceva
la mattina prestissimo, prima dell’alba, nel deserto che cominciava
proprio accanto a casa sua, ad Arad, nel Neghev, dove si era trasferito
nel 1986, «per andare a vedere se c’è qualcosa di nuovo nel deserto».
Perché solo così, diceva, prendeva le misure di ciò che conta veramente e
di ciò che invece passa come neve al sole.
Poi si sedeva alla
scrivania, dove teneva sempre due penne di diverso colore. A seconda
dello stato d’animo in cui si trovava, usava una o l’altra: «Quando sono
al cento per cento d’accordo con me stesso, mi dedico a un saggio, un
articolo di giornale, un’invettiva politica». Ma quando era animato dai
dubbi, dalle contraddizioni, dalla consapevolezza di quanto la vita sia
complessa, e ricca, allora scriveva una storia.
Era nato a
Gerusalemme il quattro maggio del 1939, figlio di Yehudah Arieh Klausner
e Fania Mussman. Illustre famiglia di eruditi quella del padre,
originari della Lituania, profondamente «urbani» e lontani dal sionismo
socialista ed egualitario, calda e lontana quella della madre, in gran
parte travolta dalla Shoah. Figlio unico e prezioso, ma anche fragile
parafulmine di dolori inesprimibili, un giorno sua madre decise che
vivere non aveva più senso: «Se fossi stato laggiù accanto a lei in
quella stanza che dava sul cortile... avrei pianto avrei implorato senza
pudore avrei abbracciato le sue gambe e forse fatto finta di svenire e
picchiato e graffiato me stesso fino al sangue come avevo visto fare a
lei nei momenti di sconforto», scrive alla fine di Una Storia di Amore e
di Tenebra, il suo capolavoro più grande, la storia dei suoi primi
tredici anni ma anche l’epopea di una Paese che stava nascendo e di una
storia, quella ebraica, che stava cambiando drasticamente.
Ci
aveva messo cinquant’anni, Amos Oz, per raccontare questo dramma e il se
stesso che era diventato dopo di allora, ma sua madre Fania abita in
quasi tutti i suoi libri, è la figura femminile vaga e indecifrabile,
sempre sfuggente, più un’ombra che un personaggio, che a un certo punto
della storia, come ne Il Monte del Cattivo Consiglio, prende e se ne va
per l’eternità, chissà dove. Sono la rabbia e il dolore e la nostalgia
del bambino abbandonato che hanno dato vita a tanta, tanta poesia fra le
sue pagine. Come in quello che è certamente il suo romanzo più atipico,
Lo stesso mare, un’elegia in forma di narrazione, un po’ in versi e un
po’ no, in cui si narra, anche qui, di una donna che non c’è più, e di
tanti amori dove però c’è sempre una distanza insormontabile fra chi ama
e chi è amato: nel tempo, nello spazio, nel ricordo, nel rimpianto.
Poco
dopo la morte della madre, il giovane Amos se ne va di casa e si lascia
alle spalle tutto il suo mondo per abbracciare una vita nuova nel
kibbutz, gli ideali socialisti così invisi alla famiglia del padre e
alla sua erudizione. Cambia nome, da Klausner diventa Oz, che in ebraico
significa «forza» ma non nel senso di sopraffazione. È la forza
dell’animo, della volontà e dell’amore che trovò ben presto laggiù. La
sua primogenita l’ha chiamata Fania, come la madre. È diventato
scrittore presto, ma a poco a poco: ci ha messo anni ad abbandonare del
tutto i lavori manuali che faceva come tutti gli altri membri del
kibbutz di Hulda, al centro d’Israele.
A poco a poco ha lasciato i
campi e la stalla, per restare alla scrivania. E ha scritto tanto,
tanti di quei romanzi indimenticabili, pieni di storie e di sentimenti,
di quella sapienza di vita che faceva parte del suo straordinario
armamentario stilistico. Una prosa sempre perfetta, di una lucidità e di
efficacia che colpisce a prima vista e va sempre dritta al cuore: una
meraviglia continua, per chi da vent’anni accompagna i suoi libri in
italiano. Perché la sua scrittura è proprio come quei due meravigliosi
occhi celesti che ti guardavano con una gentilezza intelligente, per
dirti: guarda che tante cose le capisco anche se non me le dici. È stato
uno scrittore generoso come pochi, perché ha regalato ai suoi lettori
tanti libri indimenticabili: dall’ultimo suo romanzo, Giuda a Una pace
perfetta, dallo strabiliante La scatola nera a Finché morte non
sopraggiunga, due novelle scritte tanti anni fa e solo ora apparse in
traduzione italiana. Amava profondamente le parole, ma sapeva abitare
anche il silenzio, che cercava la mattina nel deserto ma anche a Tel
Aviv dove ha vissuto negli ultimi anni, che incastonava fra una riga e
l’altra delle sue storie. «Veniamo dal silenzio e al silenzio siamo
destinati a tornare», diceva. Ma quanto, quanto sarà triste per noi il
suo, di silenzio, da oggi in poi.