Corriere 29.12.18
Amos Oz Addio a un gigante della letteratura
Amava Israele, voleva la pace
È
stato uno degli scrittori fondamentali della letteratura (non solo)
israeliana: pittore di silenzi, di amori e di tenebre. Amos Oz aveva 79
anni. Con i suoi libri combatteva l’odio e il fondamentalismo.
di Alessandro Piperno
Certe
volte mi domando come mai i pochi romanzieri contemporanei che amo
abbiano scritto i loro libri migliori (almeno quelli che considero tali)
intorno ai sessant’anni. Mi chiedo cos’abbia di speciale un’età che da
ragazzo mi sembrava così venerabile tanto quanto oggi mi pare la meta
ambita per qualsiasi narratore serio. Immagino (ma è un’ipotesi
piuttosto aleatoria, lo ammetto) che mezzo secolo e passa di vita doni
alla voce di uno scrittore la quieta solennità, e al suo sguardo
l’olimpico distacco retrospettivo, indispensabili per affrontare il
capolavoro per cui sarà ricordato.
Amos Oz non fa eccezione.
Pressapoco all’inizio degli anni 2000 pubblicò Una storia di amore e di
tenebra : una delle opere capitali della giovanissima (e in un certo
senso antichissima) letteratura israeliana, che mi è sempre parsa la
chiusura di quel magico cerchio ideale aperto parecchi anni prima da
Appena ieri di Shemuel Y. Agnon. (Temo che quest’ultima notazione
sarebbe dispiaciuta a Oz: il suo giudizio nei confronti dell’opera di
Agnon era decisamente più severo del mio).
Intendiamoci, Oz ha
scritto parecchi altri libri formidabili. Personalmente ho un debole per
uno dei suoi romanzi giovanili, peraltro il primo che lessi poco più
che adolescente: Michael mio . Sebbene notarlo possa suonare un po’
banale, quando uno scrittore maschio si cimenta con un personaggio
femminile, e lo fa in prima persona e con risultati artistici così
ragguardevoli, be’, è lecito gridare al miracolo. Non a caso molti
critici, all’epoca dell’uscita, definirono Hannah, la protagonista di
Michael mio , una specie di Bovary israeliana. L’idea non era tra le più
originali, certo, ma coglieva nel segno.
Chi ha una certa
consuetudine con la narrativa di Oz sa che non c’è da stupirsi. Lui è il
poeta delle sfumature, l’allusivo pittore dei silenzi. Anni fa ebbi il
piacere di ascoltare una conferenza in cui Abraham Yehoshua esprimeva la
sua sorpresa e la sua ammirazione per il modo di lavorare di Oz, il suo
amico-rivale, così contiguo, così diverso. A quanto pare, Oz scriveva i
suoi romanzi senza un solido piano di lavoro, procedendo per
accumulazione, guidato dall’istinto e dal caos. Il che spiega forse
perché i suoi romanzi migliori, pur così eloquenti, abbiano la
naturalezza dell’improvvisazione jazz. Penso a Fima , a Conoscere una
donna , a Lo stesso mare . Non solo, questo chiarisce, qualora ce ne
fosse bisogno, come l’ombra, la tenebra siano per Oz un privilegiato,
ossessivo territorio di esplorazione. Tanto per fare un esempio, si
pensi all’ambiguità di un personaggio come Alec Gideon de La scatola
nera .
A questo punto non deve stupire che Oz abbia intitolato il
suo capolavoro Una storia di amore e di tenebra . Perché, ok, si tratta
di un’autobiografia, ma in realtà è molto di più e molto di meno: è una
radiografia che fa luce sul cuore della sua ispirazione e della sua
vocazione. Parliamoci chiaro: non tutte le biografie sono interessanti.
Anche per fare gli scrittori ci vuole un bel po’ di fortuna. Non basta
mica il talento, non basta l’ambizione, non bastano la cultura e il
lavoro. Devi essere nato nel posto giusto, al momento giusto, nella
famiglia giusta. Be’, è difficile immaginare un predestinato più
predestinato di Amos Oz. La sua infanzia, la sua adolescenza, la sua
giovinezza, nella loro tragicità, sono una specie di straordinaria
epifania sionista, un grido alle stupefacenti contraddizioni israeliane.
È il primo ad ammetterlo: «A Gerusalemme, in quell’epoca, quasi tutti
erano poeti o scrittori o studiosi o filosofi o letterati o
rivoluzionari». Era decisamente più difficile trovare un barbiere o un
idraulico come si deve. Tutti, intorno al piccolo Amos, erano émigré
poliglotti, geniali e idealisti.
Il ritratto del padre appare,
date le circostanze, particolarmente emblematico. Il suo amore per la
nuova patria era corroborato dall’odio per la terra natale che aveva
dovuto abbandonare. «Come molti ebrei sionisti suoi contemporanei, mio
padre era un po’ cananeo, sotto sotto: il borgo ebraico e tutto ciò che a
esso apparteneva, e financo i rappresentanti di questo mondo nella
nuova letteratura, Bialik e Agnon, lo imbarazzavano, se ne vergognava.
La sua ambizione è che tutti noi, rinascessimo da capo, fieri, robusti,
abbronzati, europei-ebrei, non più giudei-est-europei».
Ben
presto, tale scriteriato ottimismo progressista avrebbe dovuto fare i
conti con un evento inaudito, imponderabile, incomprensibile: il
suicidio della madre di Oz. «Per settimane e mesi dopo la morte di mia
madre non pensai nemmeno un istante alla sua sofferenza. Mi negai
categoricamente a quell’inaudito grido di soccorso che aveva lasciato
dietro di sé e che forse non aveva mai smesso di passare tra le stanze
di casa. Nemmeno una goccia di compassione, c’era in me. Nemmeno di
nostalgia. E nemmeno lutto per la dipartita di mia madre: ero così
offeso e in collera, che non rimaneva posto per nessun altro
sentimento». Eccola qui la tenebra, ecco l’amore nella sua forma più
crudele e spaventosa.