il manifesto 29.12.18
Il crepuscolo di un sogno comunitario
Amos
Oz. La scomparsa dello scrittore nato a Gerusalemme nel 1939. Nella sua
monumentale autobiografia «Una storia d'amore e di tenebra» aveva
narrato tre generazioni israeliane in cent'anni, un incrocio
inestricabile di esperienza personale e destini collettivi
di Massimo Raffaeli
Non
si può scrivere in Israele senza essere degli autori politici, per
etimologia, né si può essere scrittori in Israele senza sentire la
politica nel senso primordiale, fondativo, di un termine che abbraccia
sia una radice storica sia, nello stesso tempo, una coazione ormai così
protratta e dolorosa da somigliare a un destino.
Amos Oz,
pseudonimo dell’ebreo di origini ashkenazite Amos Klausner (nato a
Gerusalemme nel 1939 e mancato ieri nella sua città), è stato scrittore
politico nel senso pieno per un decorso familiare e poi per una scelta
che lo ha reso testimone di un mondo lacerato, presto diviso in due,
dentro e fuori di sé, dalla tragedia del popolo palestinese la cui
vicenda replicava e dilatava immensamente ai suoi occhi, nei termini
della esclusione e di una crudele persecuzione, gli incubi di una vita
domestica letteralmente esplosa dopo il suicidio di sua madre e il
tenace sanguinoso conflitto che subito lo divise da suo padre, un
intellettuale dell’estrema destra nazionalista.
OZ È UNO
PSEUDONIMO che significa «forza» e il termine dice molto di questo
giovane adottato la cui vera famiglia diviene il kibbutz di Hulda,
diretta filiazione del Partito laburista cui il futuro scrittore
aderisce appena quindicenne. Politica è dunque per lui non solo e non
tanto una esigenza di engagement quanto un fervore collettivo, un
progetto civile di edificazione dal basso e di riscatto dalla
persecuzione che rende fattiva, condivisa e alla fine si direbbe
«naturale» l’utopia del socialismo.
Oz dirà più volte, specie nel
romanzo autobiografico che lo ha universalmente consacrato, Una storia
di amore e di tenebra (2002), di essere negato al lavoro manuale ma di
avere appreso nel kibbutz le nozioni fondamentali dell’essere al mondo
e, prima ancora, dell’essere con gli altri nel mondo. Anche quando se ne
andrà dal kibbutz, non prima dei pieni anni ottanta, al crepuscolo del
socialismo israeliano e in un drammatico passaggio di fase che vede il
paese stravolto dalla aggressività sciovinista delle destre ascese al
potere, ne parlerà con nostalgia nei termini di un sedimento profondo e
di una definitiva immunizzazione.
Qui va detto che Amos Oz, benché
educato da bambino in una scuola religiosa (dove ebbe insegnante una
poetessa celeberrima in Israele, Zelda) non sarà mai un credente ma un
laico refrattario al credo dei padri come alle religioni secolarizzate
che nel Novecento a lungo sono state le ideologie politiche. Egli fu
semplicemente un socialista democratico ma nondimeno un radicale come
può esserlo chi crede in una elementare, inscalfibile, eguaglianza tra
gli esseri umani.
QUANTO A QUESTO, fra le decine di saggi e
romanzi che costellano la sua longeva e ricchissima bibliografia (da In
terra di Israele a Contro il fanatismo del 2004, da, circa la narrativa,
Michael mio a Il monte del cattivo consiglio, del ’76) spicca alla
maniera di un baricentro e di un retrospettivo romanzo di formazione Una
pace perfetta concepito nel 1970, redatto fra il ’76 e l’’81 e
pubblicato in patria solo nel 1982 (poi in Italia da Feltrinelli nel
2009).
L’opera risale appunto alla prima maturità di Oz, perciò
agli anni immediatamente successivi alla guerra dei Sei Giorni, e la
scrive il kibbutzim poco più che trentenne ma già anziano militante
laburista in fuga dalla sua cupa vicenda familiare. Una pace perfetta
anticipa la materia autobiografica di Una storia di amore e di tenebra e
appare se possibile un racconto ancora più compiuto, nel senso della
compattezza e di una ispirazione che non scende dal suo apice nonostante
la struttura comporti continui cambi della prospettiva e sbalzi
nell’assemblaggio linguistico-stilistico.
PROTAGONISTI non sono
individui singoli ma ancora una volta la comunità, il kibbutz, la cui
dinamica si estende dal Bildungsroman vero e proprio a un romanzo di
formazione collettivo, mentre il contrasto fra ideale e reale, tipico di
ogni romanzo, si traduce nella lotta fra la generazione dei pionieri
(la stessa di Ben Gurion e Golda Meir) e quella dei figli irrequieti e
perplessi ovvero fra i vecchi ebrei immigrati nella Palestina del
Mandamento inglese e i giovani cittadini israeliani che ormai portano
con orgoglio la divisa di Tzahal.
Il clima da catastrofe
incombente, un inverno rigido e eternamente piovoso schermano la matrice
solare e originaria del kibbutz, il suo ideale laico e pauperista.
Tale, e una volta per sempre, è comunque l’universo di Oz, uno spazio di
radure strappate al deserto in cui convivono operai e contadini, dove
si utilizzano macchine rudimentali ma non mancano una biblioteca e un
quintetto musicale, mentre non vi esistono né una sinagoga né un
rabbino, nonostante tutti sappiano citare a memoria la Bibbia.
LE
FIGURE CHE EMERGONO dal coro testimoniano di una nuda umanità ma
rigettano qualsiasi credo identitario: lo stesso ricordo della Shoah è
una terribile ipoteca che rimane per costoro sullo sfondo, è il finale
apocalittico di una vicenda chiusa non l’innesco di una storia
paradossalmente trionfale quale invece sarà per le classi dirigenti
successive alla guerra dei Sei Giorni, come rilevano, con sgomento e
d’accordo con Oz, i nuovi storici israeliani, da Idith Zertal a Tom
Segev, l’autore di Il settimo milione.
IN TUTTA LA SUA OPERA,
l’autore accompagna il ricordo della epopea del kibbutz nei modi di una
severa elegia dove si affacciano di volta in volta i miti, anonimi,
volti del sogno comunitario. Oz, scrittore la cui pagina allude alla
cadenza della riflessione, li osserva e dà loro la parola quasi con
sgomento, come scrivesse da un tempo irrimediabilmente postumo rispetto a
un presente viceversa armato fino ai denti dove la violenza è
acclamata, la protervia giustificata nel senso comune con stoltezza
temeraria. Diversamente da alcuni suoi pari (per esempio David Grossman e
Abraham Yehoshua, che volentieri ricorrono nei loro romanzi al mito e
persino al sostrato folclorico di Israele), Oz guarda da sempre nella
sua narrativa alla dinamica degli esseri più semplici, a individui
chiusi e talora imprigionati nel ciclo di vivere, lavorare e morire.
ELENA
LOEWENTHAL, traduttrice elettiva di Amos Oz, fedelissima alla polifonia
delle sue partiture originali, di lui ha parlato (in Scrivere di sé.
Identità ebraiche allo specchio, Einaudi 2007), come di «un incrocio
inestricabile di esperienza personale e collettiva» o meglio ancora di
una «immedesimazione fra i destini individuali e destino collettivo che
tracciò in quegli anni la nascita della coscienza nazionale».
Oggi
è molto triste rammentare che una simile epopea è da decenni
cancellata, in Israele: i politici di estrema destra e i rabbini bigotti
cui sono delegati il governo e la manutenzione dell’identità spirituale
del paese ritengono ovviamente che la storia del kibbutz sia il
prodotto di un’epoca nefasta, morta e sepolta con i suoi ideali di
uguaglianza fra gli esseri umani.