La Stampa 28.1.19
La rivolta dei prefetti
“Non deportiamo nessuno”
di Francesco Grignetti
C’è
un gran malumore, tra i prefetti italiani. Dapprima li hanno usati come
paracadute per piazzare i migranti che sbarcavano a decine di migliaia,
lasciandoli litigare con i sindaci e le comunità locali, e
nell’emergenza hanno fatto i salti mortali, pochi come sono. Ora però
stanno fioccando gli avvisi di garanzia perché quel centro di
accoglienza non era in regola o quell’altro truccava i conti. Sono
almeno quaranta i funzionari indagati in giro per l’Italia. Uno è
l’attuale prefetto di Venezia, Vittorio Zappalorto, che si è sfogato
così: «Noi eravamo la parte più debole del sistema. L’obbligatorietà
doveva essere stabilita per legge anche per i sindaci; invece la
politica ha preferito scaricare tutto sui prefetti».
I casi che
alimentano il malcontento dei prefetti sono diversi. Non ha fatto
piacere, per dire, sentirsi definire «deportatori» perché hanno
organizzato la redistribuzione dei richiedenti asilo che si trovavano a
Castelnuovo di Porto. Ha spiegato il prefetto Paola Basilone: «Era tutto
programmato. Il contratto di gestione, che è già stato prorogato cinque
volte, scade il 31 gennaio. Il centro andava chiuso e non c’era
possibilità di continuare».
L’ultima goccia, però, è collegata
alla svolta securitaria di questi mesi. Avvertono la critica di chi dà a
loro, ai prefetti, parte della colpa. «Beh, mi scoccia che i
prefettizi, che rappresento, siano visti solo come il braccio armato del
politico di turno», sbotta Antonio Giannelli, presidente del Sinpref,
il sindacato che rappresenta il personale del ministero dell’Interno.
Bruciano
le critiche di chi vede come le commissioni territoriali si siano
prontamente adeguate all’indirizzo politico e così siano quasi scomparsi
gli asili umanitari (dopo il decreto che li ha ridimensionati a pochi
casi specifici). «Non sono mai decisioni facili. Ci sono colleghi che
non ci dormono la notte. Non abbiamo mai trattato le persone come
numeri. La differenza è che prima c’era il massimo
dell’indeterminatezza, con pazzesche differenze a seconda delle sedi».
Ora
è venuto il coro di critiche dei magistrati all’inaugurazione dell’anno
giudiziario. Sentono invocare in giro la «disubbidienza civile» contro
la stretta di Salvini. E Giannelli diventa una pentola in ebollizione:
«Noi siamo prefetti - dice - e perciò tenuti all’obbedienza delle leggi.
Il magistrato può interpretarle, è una sua prerogativa. Noi, no. Noi
applichiamo e facciamo applicare».
Intanto su Salvini pende una
richiesta di autorizzazione a procedere per il caso Diciotti, che lascia
il Viminale in una situazione anomala, con il titolare indagato per un
reato gravissimo e sottoposto alla procedura dei reati ministeriali. «Io
- dice ancora - sono un cittadino di questa Repubblica prima che un
funzionario dello Stato. Mi sono formato nella ferma convinzione che
nessuno è superiore alla legge e che la Costituzione demanda alla
magistratura di giudicare in proposito. Dopodiché, la legge contempla
allo stato l’ultima forma di autorizzazione a procedere da parte in
questo caso del Senato della Repubblica».
Giannelli ha letto con
attenzione l’intervista del professor Giovanni Maria Filck a La Stampa
di qualche giorno fa: «Mi pare pertanto chiaro che sarà una valutazione
politica di tale consesso a stabilire se un ministro della Repubblica ha
agito “a tutela dell’interesse costituzionalmente rilevante” o “per il
perseguimento del preminente interesse nazionale”. In questo caso,
peraltro, ricordo che il ministro è anche Autorità nazionale di pubblica
sicurezza, come del resto sono poi i prefetti nei diversi ambiti
provinciali».