giovedì 24 gennaio 2019

La Stampa 24.1.19
La retata
di Mattia Feltri 


Dal centro rifugiati di Castelnuovo di Porto, Roma. Hatice, ragazza scappata dalla Turchia per persecuzione politica, due figli, Sigo di cinque anni, Arges di quattro, frequentano la scuola materna, studiano l’italiano nel doposcuola, saranno trasferiti. Blessing, nigeriana, venticinque anni, arrivata in Italia con la tratta delle prostitute, è poi riuscita a sottrarsi agli sfruttatori, accolta a Castelnuovo, ha un figlio di sette mesi, le hanno consegnato il foglio per la revoca dell’accoglienza, sarà allontanata dal centro, senza dimora. Oussama, egiziano, ventiquattro anni, idraulico fuggito dall’Egitto perché oppositore del governo, a Natale ha vinto il premio cittadinanza attiva per l’opera prestata al Comune, sarà trasferito.
Ansou Cissé, diciannove anni, senegalese, capocannoniere della squadra di calcio del paese, nella Squadra atletica vaticana, studente delle superiori, sarà trasferito. Traoré Abdoulbalah, ventisei anni, del Togo, studente delle superiori, impiegato nei lavori socialmente utili, gli hanno consegnato il foglio per la revoca dell’accoglienza, sarà allontanato dal centro, senza dimora. Pinar e Homer, coppia turca, fuggiti perché lui è curdo, rispediti a Castelnuovo dalla Svezia, due figli di cinque e due anni, il grande, Berat Ata, va in prima elementare, studia italiano nel doposcuola, saranno trasferiti. Flora Del Vivo, maestra elementare di Castelnuovo: «Non ho avuto neanche la possibilità di avvicinarmi ai miei alunni per salutarli. Il saluto è fondamentale per tutti gli esseri umani, ma specialmente per i bambini».

La Stampa 24.1.19
Migranti, Salvini prova a difendersi
“Non c’è nessuna deportazione”
Bufera contro il ministro. Lui: “Mi date del nazista? Fate un torto a chi ne fu vittima”
di Francesco Grignetti

Le parole sono quelle di sempre. Matteo Salvini al solito non indietreggia, ma attacca: «Mi date del nazista? Fate un torto a chi ne fu vittima. Non ci sono deportazioni. In questi giorni si ricorderà quello che accadde veramente di drammatico in passato; noi stiamo chiedendo il rispetto delle regole: diritti e doveri».
Eppure per la prima volta il ministro dell’Interno sembra sulla difensiva. Il blitz al centro di accoglienza di Castelnuovo di Porto, la redistribuzione in giro per l’Italia di tanti richiedenti asilo senza una parola di spiegazione, come anche il disinteresse per centinaia di disperati che scivoleranno fatalmente nella clandestinità, ha mostrato il volto più cattivo della sua amministrazione. E perciò Salvini convoca in fretta e furia i giornalisti per spiegare, precisare, annunciare. In sostanza, sente la necessità di riempire un vuoto d’informazione. «Mi ero impegnato a chiudere le megastrutture dell’accoglienza, dove ci sono sprechi e reati, come a Bagnoli, Castelnuovo di Porto, Mineo. E lo stiamo facendo».
In effetti era annunciato: oggi si chiude Castelnuovo di Porto, alle porte di Roma, domani accadrà a Mineo, vicino Catania. Ciò potrà lasciare senza parole (e senza lavoro) i 120 lavoratori della cooperativa Auxilium che gestiva il sito, ma la logica dei numeri è impietosa: «A Castelnuovo - dice - c’era il secondo più grande centro di migranti, era arrivato ad accogliere più di 1.000 persone. Lo Stato pagava 1 milione di affitto all’anno più 5 milioni per la gestione. Essendosi dimezzati gli immigrati ospiti di quel centro e liberati altri posti nel Lazio, è giusto chiudere quella struttura, risparmiare quelle risorse, liberando quella enorme struttura. Tutti gli ospiti che erano dentro con diritto saranno ospitati in altre strutture». Sottinteso, quelli che non avevano il diritto, ad esempio quelli a cui non è stato rinnovato il permesso umanitario, sono fuori. È l’effetto del suo decreto.
Poi, certo, nonostante la polemica furibonda da sinistra, con le storie delle famiglie sballottate in giro per l’Italia, e quelli messi alla porta, Salvini ci mette del suo: «Abbiamo fatto oggi quello che farebbe qualunque buon padre di famiglia». E a chi, come Laura Boldrini, denuncia che c’è «la disumanità al potere», il ministro reagisce da belva ferita: «Leggo tante parole al vento: deportazioni, nazismo. Si dovrebbero vergognare ad accostare uno dei più crudeli episodi della storia a una gestione dell’immigrazione basata sul rispetto».
Con gli occhi del Viminale, questo gennaio sta prendendo una piega positiva. «È il primo anno in cui in Italia si registrano più espulsioni che arrivi. A fronte di 155 arrivi, 221 rimpatri. A cui si possono aggiungere 368 respingimenti alla frontiera». Ossia quelli che non riescono a varcare la frontiera in uno scalo aereo o marittimo.
La stragrande maggioranza delle espulsioni restano però lettera morta. «Tornerò in Africa ai primi di marzo: sul fronte degli accordi di rimpatrio, con alcuni Paesi siamo in fase avanzata ma non anticipiamo nulla. Qualche problema in più c’è con Paesi asiatici come Bangladesh e Pakistan».
Si vanno riducendo anche i numeri dei richiedenti asilo: in un anno si è passati da 183mila a 133mila ospiti nelle strutture italiane. «Fate il calcolo, moltiplicando per 30 euro al giorno, di che tipo di risparmio quotidiano si tratti». Secondo il ministro, buona parte di questi 50.000 sarebbero già all’estero. E anche le domande di asilo «sono state analizzate con scrupolo e i dinieghi sono passati dal 57% al 78%».
Non manca infine l’occasione di un ennesimo attacco alle odiate Ong. «Abbiamo evidenze investigative su contatti telefonici tra esponenti delle Ong sulle navi e trafficanti a terra. Le passeremo all’autorità giudiziaria».

Corriere 24.1.19
La forza e l’azzardo di Salvini
I migranti e una strategia che non può funzionare
È necessario mettere le premesse affinché 375 milioni di giovani africani, che nei prossimi 15 anni saranno in età per lavorare, possano farlo senza scappare.
di Goffredo Buccini


L’ennesimo scontro sui migranti, stavolta generato dallo sgombero del Cara di Castelnuovo di Porto, aiuta a definire meglio l’approccio di Matteo Salvini e dei suoi avversari sulla questione più sensibile almeno per due italiani su tre.
Attorno al centro d’accoglienza alle porte di Roma le opposizioni stanno levando alte barricate ideologiche e, in un nuovo slancio autolesionista, da sinistra si è giunti a evocare il nazismo e i pogrom. Chi non è del tutto privo di memoria ricorderà però che la chiusura dei Cara era obiettivo dichiarato, benché mai colto, dei governi a trazione Pd. Per motivi ragionevoli. Troppo grandi, costosi e malgestiti, nati come snodo di passaggio verso gli Sprar (i centri di seconda accoglienza) ma sempre usati in modo improprio (i richiedenti asilo restano in attesa per anni, a Castelnuovo si narrava di una bambina egiziana che vi fece l’intero ciclo delle elementari), spesso fonti di scandalo: il Cara di Crotone è finito sotto la ‘ndrangheta, quello di Mineo è stato un volano di voti di scambio, su Castelnuovo aveva messo gli occhi persino Buzzi, pur non riuscendo a concludere. Si sostiene che il Cara romano fosse un modello di integrazione: con quasi seicento ospiti (e a tratti più di mille) è difficile crederlo.
La forza di Salvini sta dunque qui, nello strappo «barbarico» che lo spinge dove la sinistra non osa. Come con l’azzardo estremo della chiusura (nominale) dei porti, che ha svelato tanta ipocrisia europea e che però si sta riproponendo in queste ore con la nuova odissea di una nave Sea Watch e 47 profughi, così il vicepremier leghista strappa sui Cara. Solo che da qui cominciano i problemi. Perché chiudere Castelnuovo di botto, con un blitzkrieg , è un’avventura sciagurata in quanto, oltre a colpire diritti soggettivi, mette per strada almeno un quinto degli ospiti. La pattuglia degli Invisibili si ingrossa ulteriormente e le cose andranno peggio nei prossimi mesi con la cacciata progressiva dai centri di chi non ha più la protezione umanitaria ma non può essere rimpatriato in mancanza di accordi coi Paesi d’origine: a migliaia (130 mila in due anni secondo l’Ispi) finiranno nel limbo dei né espulsi e né accolti, in mano alla criminalità.
Dunque la forza di Salvini è anche la sua debolezza, la filosofia della guerra lampo lo imprigiona. Temendo di essere raggiunto da problemi insolubili prima di incassare il dividendo elettorale promesso dai sondaggi, il vicepremier procede per strattoni e fughe in avanti. Si tratta invece di cambiare paradigma: un problema che non riguarda solo lui o il suo governo ma noi europei nell’insieme. Lungimiranti come gattini ciechi, ci siamo ridotti in 500 milioni a litigare su chi apre o chiude i porti a qualche centinaio di profughi sulle navi Ong, mentre l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, ci spiegava che in tutto il pianeta 68,5 milioni di persone nel solo 2017 sono state in fuga da guerre e persecuzioni. La zona più critica di questo disordine mondiale è l’Africa: sono 29 gli Stati coinvolti in guerre o guerriglie e 259 le milizie dal Burkina-Faso al Sudan, dalla Nigeria al Congo alla Somalia e, ovviamente, alla Libia che, al momento, non è neppure più uno Stato (dunque non si capisce in base a quale finzione possa essere titolare di una zona Sars, Search and Rescue, dove infatti non si viene salvati ma condotti a morte). Il summit di Ouagadougou ha previsto che nel 2030, causa desertificazione, saranno 135 milioni i «profughi climatici» e di essi 60 milioni saliranno dall’Africa subsahariana al Nord Africa e (infine) all’Europa. Di fronte a questi dati enormi appaiono assai miopi due visioni.
La prima, della destra sovranista, riduce migrazioni bibliche a epifenomeno di un fenomeno criminale: il traffico di esseri umani degli scafisti con la «complicità» di alcune Ong. Sostenere che fermate le Ong si fermino i viaggi è contraddetto dalla realtà (arrivano tuttora boat people a Lampedusa): l’unico risultato è tornare a prima del 2013 e di Mare Nostrum, con più naufragi e morti. La seconda visione, tuttavia, è altrettanto fuorviante, ed è quella irenica della sinistra altermondista: mentre accogliamo tutti basta aprire relazioni amichevoli, insegnare mestieri sul posto e sarà fatta, gli africani si riscatteranno da soli. Non è così. E non solo perché, ovviamente, non possiamo accogliere tutti, pena conflitti sociali ingestibili. Il primo passo, perché questo sogno di riscatto sia reale, è garantire dalle varie Boko Haram, Ansar al-Shari’a e milizie criminali assortite i nostri tecnici, maestri, medici: significa essere disposti a combattere. Il secondo passo è evitare che gli investimenti umanitari finiscano nei conti offshore dei mille dittatorelli locali. Per questo le liti con i tedeschi sulla missione Sophia o coi francesi sul loro presunto neocolonialismo sono nocive per tutti: il piano Marshall africano di cui parla Antonio Tajani ha senso solo se siamo in grado di seguire e proteggere quei miliardi di euro; un esercito comune europeo, domani, ci sarebbe necessario almeno quanto una vera unione bancaria.
Nell’immediato i soccorsi sono doverosi. Ma più doveroso ancora, per governi europei degni di questo nome, sarebbe mettere adesso le premesse perché, domani, 375 milioni di giovani africani, che nei prossimi 15 anni saranno in età per lavorare, possano farlo senza scappare. Se non lo si usa come uno slogan diventa un impegno gravoso, forse troppo. E però la strada graduale è l’unica seria. Perché i blitzkrieg hanno un difetto esiziale: alla lunga vengono sopravanzati dalla realtà e dalla storia.

il manifesto 24.1.19
Guaidó giura da «presidente», Venezuela verso il disastro
Prove di golpe. Prova di forza in piazza del leader dell’Assemblea nazionale. Sponsor Usa e Colombia
di Roberto Livi


L'AVANA Giornata di grande tensione ieri a Caracas nelle cui strade governo e opposizione sono tornati a misurare le proprie forze in un ambiente surriscaldato nei giorni scorsi da una breve sollevazione di 40 militari, seguita da due atti di sabotaggio contro la presidenza di Nicolás Maduro e da manifestazioni violente – guarimbas – avvenute nella notte di martedì nella periferia nord della capitale e in alcune città che, secondo l’opposizione, hanno causato quattro morti.
LA MARCIA ANTIGOVERNATIVA è stata convocata dal neopresidente dell’Assemblea nazionale (An) – controllata dall’opposizione e da due anni inabilitata politicamente dal Tribunale superiore, che ieri ha accusato An di azioni «anticostituzionali» – Juan Guaidó. Il quale ha incitato militanti e militari a una manifestazione apertamente isurrezionale: «Abbiamo un appuntamento storico col nostro paese… militari, abbiamo un appuntamento storico con il popolo», ha scritto nel suo appello alla mobilitazione nell’anniversario della caduta (nel 1958) della dittatura di Marcos Pérez per «conquistare Caracas».
Ieri mattina migliaia di manifestanti sono scesi nelle strade nella capitale e in altre città del paese al grido di Este gobierno va a caer (Questo governo cadrà). Concentrazioni a favore del governo Maduro erano invece in corso nel centro di Caracas e in tutto il paese mentre le forze di sicurezza erano schierate e in allerta.
Guaidó si era rifiutato di riconoscere la validità del secondo mandato presidenziale di Maduro lo scorso 10 gennaio e ha formato un governo alternativo a quello bolivariano, subito riconosciuto dagli Usa, dal gruppo di Lima -12 paesi latinoamericani meno il Messico che ha preso le distanze – e da Canada e Ecuador (dove da giorni sono in corso manifestazioni xenofobe contro immigrati venezuelani). Ma ieri è andato oltre: nel corso della manifestazione ha prestato giuramento come «presidente incaricato» della Repubblica bolivariana del Venezuela. E dalla Casa bianca, sempre via Twitter, il presidente Donald Trump si è apprestato a riconoscerlo «presidente ad interim», incurante del rischio di innescare una guerra civile nel paese.
È LA TERZA VOLTA negli ultimi due anni che l’An dichiara di non riconoscere la legalità delll’investitura presidenziale e chiama alla mobilitazione per abbattere con la forza il governo eletto. La ripetizione della storia in questo quadro non genera una farsa, ma prepara il terreno per una nuova tragedia: il tentativo insurrezionale avviene infatti in un quadro internazionale nel quale da mesi è stata ventilata la possibilità di un intervento militare «umanitario» esterno «per restaurare la democrazia». O di un colpo di stato che avrebbe – sempre per ragioni «umanitarie» – l’appoggio degli Usa e dei governi di destra latinoamericani.
CON L’INSEDIAMENTO IN BRASILE – il primo gennaio- del presidente Jair Bolsonaro era prevedibile un attacco concentrato contro il Venezuela bolivariano, ormai circondato ai suoi confini da governi di destra radicale, Brasile e Colombia, e dall’ostile Guyana.
Uno scenario questo preparato dal segretario di Stato Usa, James Mattis, nel corso di una delicata missione in America latina nell’agosto dell’anno passato con il compito di riconquistare degli Stati uniti. In Brasile Mattis ha posto le basi perché il gigante sudamericano recuperi il ruolo di potenza subimperialista (secondo la famosa tesi di Ruy Mauro Marini, o di «satellite privilegiato» degli Usa, come più pragmaticamente lo definì Henry Kissinger), con il compito di «combattere il comunismo» e imporre un’economia neoliberista. Compito che fu svolto egregiamente dal Brasile durante la dittatura militare (1964-85).
In Colombia invece, nel corso della visita di Mattis, fu ventilata la possibilità di un intervento armato «umanitario» per «ristabilire democrazia e libertà» in Venezuela. Intervento addirittura reclamato pochi giorni dopo dal segretario dell’Organizzazione degli stati americani (Oea), Luis Almagro in visita a una zona di confine col Venezuela.
A livello internazionale il pericolo maggiore viene dalla Colombia. Il presidente Iván Duque – e il suo patron politico, l’ex presidente Alvaro Uribe – sembra disposto a cavalcare un’escalation col Venezuela per fare marcia indietro rispetto agli accordi di pace siglati dal suo predecessore con l’ex guerriglia delle Farc e mai approvati dall’estrema destra di Uribe.
Da mesi è stata costruita una narrazione – ripresa da politici e media dell’opposizione in Venezuela – sulle protezioni che Maduro garantirebbe in territorio venezuelano a gruppi armati colombiani e sono state denunciate supposte incursioni militari dal lato venezuelano.
L’ATTENTATO contro la scuola di polizia a Bogotà (21 morti) attuato la scorsa settimana dal movimento guevarista guerrigliero Esercito di liberazione nazionale (Eln) è stata la classica provocazione attesa dal governo di Duque per dare drammaticità ai suoi piani. E per coinvolgere anche Cuba in una situazione di pericolosa tensione con le destre al governo in America latina e soprattutto con i falchi dell’Amministrazione Trump. Il presidente colombiano non solo ha accusato Maduro di proteggere «i terroristi» dell’Eln, ma ha ingiunto al governo dell’Avana di consegnargli i membri delle delegazione dell’Eln che da più di un anno sono a Cuba impegnati in trattative per un accordo di pace col governo colombiano. Trattative che sono state congelate – per non dire rotte – dallo stesso Duque subito dopo aver assunto la presidenza lo scorso luglio.
IL GOVERNO CUBANO si è dichiarato contrario a «qualsiasi atto di terrorismo», ma ha sostenuto che rispetterà le clausole stabilite dai protocolli in caso di rottura delle trattative di pace, che non prevedono la consegna a Bogotà dei dieci membri della delegazione dell’Eln.

Corriere 24.1.19
Venezuela, «giuramento» in piazza. L’appoggio degli Usa. Morti a Caracas
Guaidó: «Sono io il presidente»
Ma Maduro: il popolo mi sostiene
di Rocco Cotroneo


RIO DE JANEIRO Mano sulla Costituzione, poi sul petto. Il gesto coraggioso del giovane leader dell’opposizione cambia il corso della crisi in Venezuela. Juan Guaidó, 35 anni, si è autoproclamato «presidente incaricato» al posto di Nicolás Maduro, definito «usurpatore», con l’obiettivo di formare un governo di transizione e indire libere elezioni. Nel giro di minuti è arrivato il riconoscimento degli Stati Uniti, un gesto altrettanto clamoroso. «Il popolo venezuelano ha già sofferto abbastanza», ha scritto Donald Trump, convinto rapidamente dallo storico senatore latino della Florida, Marco Rubio, a forzare i tempi. Ancora più esplicito il segretario di Stato Mike Pompeo: «Maduro si faccia subito da parte, a favore di un leader legittimo che rappresenta la volontà dei venezuelani». Altri riconoscimenti formali sono giunti nella stessa giornata di ieri, primo tra tutti dal Brasile di Jair Bolsonaro e poi dalla vicina Colombia, mentre dalla Russia sono arrivate critiche alla mossa Usa. Dopo la grande marcia a Caracas e il comizio finale di Guaidó, manifestazioni e scontri con la polizia sono andati avanti per tutta la notte nella capitale e in altre città del Paese. Le proteste sono state duramente represse e ci sarebbero almeno nove morti e decine di feriti tra gli oppositori.
Ora dunque il Venezuela — il quale ha già due Parlamenti e due Corti supreme — si ritrova con una doppia Presidenza. Ma fino a quando? Ieri a Caracas circolava con insistenza la voce di un mandato di arresto pronto per Guaidó, con un pretesto simile a quello usato per altri oppositori. Mancherebbe solo l’ordine di Maduro alla polizia politica, il Sebin, che già la settimana scorsa aveva spaventato l’oppositore e la sua famiglia con un sequestro lampo.
Un’altra possibilità è che Guaidó cerchi rifugio in una ambasciata straniera a Caracas, quella colombiana per esempio, e da lì diriga il suo governo in esilio. La prima reazione del regime è stata di convocare i fedelissimi in una manifestazione attorno al palazzo presidenziale. A prendere le redini della situazione è stato prima il numero due, Diosdado Cabello: siamo di fronte ad una palese violazione della Costituzione, ha detto. «Non ci importa quello che decide l’Impero. La rivoluzione bolivariana non ha data di scadenza!». Poi Maduro è apparso al balcone del palazzo presidenziale: «Da qui non ci muoviamo perché siamo stati eletti dal popolo. Solo così si diventa presidente!» Poi ha annunciato la rottura delle relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti, dando 72 ore affinché tutto il personale diplomatico lasci il Paese.
Ci sarà una nuova ondata di repressione? Il mentore politico di Guaidó, Leopoldo López, venne arrestato cinque anni fa in una situazione simile a quella di ieri: una sorta di autoproclamazione al termine di una grande marcia per le strade di Caracas. Ma stavolta la posta in gioco è assai più alta, per via dei riconoscimenti internazionali, il collasso ormai totale dell’economia e i fermenti nelle forze armate. L’autoproclamazione di Guaidó, spiegano nell’opposizione, trova un appoggio legale in tre articoli della Costituzione, che danno potere di intervento al presidente dell’Assemblea nazionale, il Parlamento, in caso di necessità e vuoto di potere.
La crisi del chavismo, un regime in fase terminale, è dovuta in primo luogo all’aggravamento della crisi economica e umanitaria, ma la svolta politica è l’inizio formale del secondo mandato di Nicolás Maduro. La decisione del Parlamento di cambiare leadership e scegliere il giovane Guaidó è stata un’altra mossa decisiva. Organismi internazionali come la Oas e il Parlamento europeo sono stati i primi, di fatto, a riconoscere la legittimità di un governo ombra.

il manifesto 24.1.19
Senza testimoni, scompare un gommone
Mediterraneo. L’imbarcazione, probabilmente inabissata, trasportava 95 migranti. E sono ancora in balia del mare i 47 salvati dalla Ong Sea Watch sei giorni fa, mentre si annuncia una tempesta
di Adriana Pollice


Un gommone con 95 persone sarebbe scomparso nel Mediterraneo, probabilmente inabissato. Quasi tutti eritrei, a bordo c’erano anche 20 donne e 5 bambini, sono salpati dalla costa di Zuwara, a ovest di Tripoli, il 21 dicembre. «Di questa imbarcazione non si sa più nulla», ha denunciato ieri Alberto Mallardo, operatore del programma Mediterranean Hope della Federazione delle chiese evangeliche. «Parenti e amici – prosegue – stanno conducendo ricerche disperate. I superstiti, i familiari gli operatori non hanno un interlocutore che dia risposte certe. La Libia non è un luogo sicuro». Riccardo Gatti, capo missione Open Arms (bloccata in porto dalle autorità spagnole), commenta: «Fermare le Ong significa lasciarli morire senza testimoni».
Le vittime accertate nella scorsa settimana sono state 170: 117 sono annegate al largo della Libia, 53 hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere la Spagna.
Sono ancora in balia del mare i 47 (8 i minori non accompagnati) salvati dalla Ong Sea Watch sei giorni fa: «È prevista tempesta – raccontavano ieri da bordo – e non sappiamo dove andare. Tutti sotto coperta non possono stare perché non c’è spazio a sufficienza, qualcuno sarà costretto a rimanere sul ponte circondato dalle onde. Fa freddo e il tetto della tenda a poppa sta perdendo». Sul ponte la tempesta fa paura ma sottocoperta il mal di mare non lascia scampo.
Martedì la nave Sea Watch 3 si è avvicinata a Lampedusa, il porto più vicino al luogo del salvataggio. Dal Centro di coordinamento dei soccorsi di Roma non è arrivato nessun supporto. Ieri si sono spostati verso Malta. «I migranti sono preoccupati – raccontano -. Sanno che non li riporteremo mai in Libia, è la prima cosa che mettiamo in chiaro quando li soccorriamo, ma l’incertezza li fa stare male. Non sapere cosa accadrà e le condizioni di navigazione difficili mettono a dura prova la loro tenuta psicologica».
Uno dei membri dell’equipaggio, Brendan, ieri ha raccontato sui social: «Quando ho mostrato alle persone a bordo le foto del salvataggio, mi hanno chiesto di vederle ancora e ancora. Mi hanno parlato del loro panico quando siamo arrivati perché pensavano che fossimo la Guardia costiera libica». E ancora: «Un ragazzino mi ha detto di avere 15 anni. Il suo amico dice che sta solo fingendo di essere più vecchio perché non vuole affrontare la sua vita da adolescente. Ha 12 o 13 anni. Gli ho chiesto dove voleva andare, ha risposto “Marsiglia, mio padre vive lì”. Questo piccolo ragazzo attraversa da solo il confine più mortale del mondo per vedere suo padre, aprite i porti». Il vicepremier Salvini commenta: «È necessario che Malta accolga Sea Watch, mentre l’Olanda (nazionalità di bandiera della nave, ndr) sia pronta a collaborare con La Valletta per gestire l’accoglienza con la regia di Bruxelles».

Il Fatto 24.1.19
Indagine sulla Sinistra “scomparsa”
Da oggi su Loft - Padellaro e Truzzi intervistano Occhetto, D’Alema, Bertinotti e Bersani
di Nanni Delbecchi


Esiste ancora la sinistra in Italia? E se sì, dove è andata a nascondersi? Parte da questa domanda, all’apparenza piuttosto retorica dopo le elezioni del 4 marzo, C’ero una volta… la Sinistra, il nuovo programma realizzato da Loft Produzioni, in onda da oggi su www.iloft.it e app Loft, la piattaforma tv della Società Editoriale Il Fatto (Seif).
Nessuna sfera di cristallo, nessun ennesimo esercizio di fantapolitica oggi più in voga del fantacalcio, nessun banco degli imputati, nessuna arena, nessun pubblico plaudente. Per capire se la sinistra ha un futuro forse è il caso di farla stendere sul lettino dello psicanalista, volgere lo sguardo al passato e riavvolgere il film degli ultimi 35 anni, quelli che hanno visto la lenta ma inesorabile disgregazione del più forte partito comunista dell’Occidente. Con questo spirito Silvia Truzzi e Antonio Padellaro incontrano a cadenza settimanale quattro leader storici della sinistra italiana (Achille Occhetto, Fausto Bertinotti, Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani) in un salotto dall’atmosfera vintage, arredato con le memorabilia della lotta di classe che fu; i ritratti di Gramsci e Che Guevara, il busto di Lenin, il pugno chiuso, le note di Bandiera rossa e dell’Internazionale…
Partenza obbligata, l’incontro con Achille Occhetto, il segretario di Botteghe Oscure che con la svolta della Bolognina e il successivo congresso nazionale di Rimini (1991) decise di cambiare nome e simbolo del Pci. Per la sinistra italiana, un autentico big bang: lotta, governo, le sirene del neoliberismo, la nostalgia della rivoluzione… tante anime mai più ricomposte daranno vita a una serie di scissioni a catena, di cui a tutt’oggi non si vede la fine. Con Occhetto, che ha appena pubblicato un saggio dal titolo La lunga eclissi della sinistra (Marsilio), si affronta anche il tema della “gioiosa macchina da guerra” che nel ’94 perse i pezzi scontrandosi con il debuttante Berlusconi.
Non mancheranno i retroscena: con Occhetto e con i tre successivi ospiti, lo storico segretario di Rifondazione comunista Fausto Bertinotti, Massimo D’Alema, unico ex comunista a diventare presidente del Consiglio, e Pier Luigi Bersani, tuttora eletto alla Camera nelle liste di Liberi e Uguali, si parlerà anche di correnti, complotti, tradimenti, malattie croniche della sinistra connesse alla attuale carenza di leadership.
Nato da un’idea di Alessandro Garramone e Antonio Padellaro, scritto da Matteo Billi con la collaborazione di Simone Rota, Silvia Truzzi e dall’autore di questo articolo, C’ero una volta – la Sinistra ha il taglio di un “anti talk show”, un’analisi da camera in cui si cerca di separare gli idoli infranti dagli ideali ancora vivi.
Cos’è la destra, cos’è la sinistra? cantava Giorgio Gaber, quando era ancora possibile cantarci su. Oggi non è più così. Sempre più spesso ci si chiede se sinistra e destra, affermatesi nel Novecento come ferree linee guida, esistano ancora nella società liquida, e soprattutto quanti elettori continuino a credere nella loro vitalità. Una forte domanda di sinistra c’è ancora, è l’opinione di Padellaro, a mancare sono le risposte. Per quattro settimane su Loft ci si interrogherà su quelle domande, e su quali risposte.

Il Fatto 24.1.19
Attacca il reddito chi ignora la Carta
La dignità della persona
di Lorenza Carlassare


Che i nostri politici si siano sempre attivati poco per attuare la Costituzione è noto e tuttavia stupisce l’aggressività stizzosa contro un modesto tentativo di realizzarne una parte essenziale; e tanto più stupisce il silenzio, se non l’ostilità, di quella che dovrebbe essere la sinistra. Critiche e dileggio al reddito di cittadinanza, come da alcuni leghisti: “Fannulloni, seduti sul divano, sud d’Italia”; quasi che i poveri, tanto più se meridionali, lo siano per colpa loro; forse per questo la Confindustria teme che il reddito di cittadinanza sia un disincentivo al lavoro? E c’è chi, come Maria Elena Boschi del Pd e altri esponenti della sinistra che fu, parla allegramente di “vita in vacanza”.
Le reazioni sdegnate però confortano: l’umanità non è del tutto scomparsa. Ci saremmo aspettati, insieme a critiche costruttive, un sostegno efficace per rendere migliore la legge contro i tanti nemici di ogni misura sociale: restano invece isolate le voci di chi ammette almeno che “la finalità è giusta” e “chi è in difficoltà va aiutato” (Orlando): meno male, sono passati settant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione col suo diritto a vivere dignitosamente!
La dignità della persona è al centro: i Costituenti volevano costruire una società umana in cui tutti potessero vivere dignitosamente, concorrere alle decisioni comuni, essere parte consapevole. Un grande Costituente, Costantino Mortati, ricordava che eliminare le pesanti fratture esistenti nel corpo sociale è essenziale per la democrazia. La stessa “governabilità”, più che da leggi elettorali distorsive della rappresentanza, è favorita dall’omogeneità sociale: e in vista di questa fu scritto l’articolo 3 che impone alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, “limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini”, impediscono il pieno sviluppo della persona e l’effettiva partecipazione “di tutti” alla vita politica, economica e sociale.
Miseria, ignoranza, malattia sono gli ostacoli più gravi. Eppure, dopo settant’anni, i poveri assoluti sono oltre 5 milioni, l’ignoranza aumenta, l’istruzione è trascurata, la sanità a rischio. Apprendiamo ora dal Rapporto Oxfam che in Italia il 5% più ricco detiene la stessa quota di ricchezza posseduta dal 90% più povero della popolazione.
I tre primi articoli della Costituzione dettano un programma coerente: la sovranità “appartiene” al popolo, e non ad altri (articolo 1); i diritti inviolabili stanno insieme ai “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (articolo 2); oltre all’eguaglianza di fronte alla legge va realizzata l’eguaglianza sostanziale rimuovendo gli ostacoli di fatto (articolo 3). È un programma in gran parte ignorato. Ignorata è la solidarietà che (articolo 38) garantisce al cittadino inabile al lavoro e sprovvisto di mezzi per vivere il “diritto al mantenimento e all’assistenza sociale” e ai lavoratori “mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”.
Il disoccupato dunque – se non lo è per sua volontà – avrebbe diritto non a elemosine, ma a mezzi adeguati alle sue esigenze di vita, famiglia compresa. I resoconti delle sedute della terza Sottocommissione (10 e 11 settembre 1946) sono illuminanti: “Ogni essere che (…) si trovi nell’impossibilità di lavorare ha diritto di ottenere dalla collettività mezzi adeguati di assistenza”, Giuseppe Togni, Dc; “Lo Stato ha il compito di assicurare a tutti i cittadini il minimo necessario all’esistenza, in particolare dovrà provvedere all’esistenza di chi è disoccupato senza sua colpa e incapace di lavorare per età o invalidità”, Lina Merlin, socialista; l’assistenza “va data anche a tutte le persone che non godono della previdenza”, Teresa Noce, comunista.
Ne uscì, alla fine, l’articolo 38, che fornisce una copertura completa: nel primo comma a chi sia inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere, nel secondo al lavoratore involontariamente disoccupato, malato o infortunato o invalido.
A tutti, insomma, purché abbiano voglia di lavorare e non possano farlo.
Il principio di solidarietà, posto tra i valori fondanti dell’ordinamento giuridico insieme ai diritti fondamentali e inviolabili dell’uomo, è “riconosciuto e garantito dall’articolo 2 come base della convivenza sociale normativamente prefigurata dal costituente”, dice la Corte costituzionale (sentenze n. 409 del 1989 e n. 75 del 1992). Il sistema intero deve dunque conformarsi a quel principio, indissolubilmente legato alla dignità della persona, un valore costituzionale che appartiene a tutti senza distinzione alcuna: “A ciascuno è riconosciuto il diritto a che la sua dignità sia preservata” (sentenza n. 13/1994). Ma, senza il necessario per vivere (che i Costituenti volevano assicurare a tutti) possiamo dire che la dignità è preservata?

il manifesto 24.1.19
Landini, la lunga battaglia per un sindacato da rinnovare
di Massimo Franchi


BARI Solo fino a pochi mesi fa pareva impossibile. Maurizio Landini oggi sarà eletto segretario generale della Cgil. L’ultimo a fare il passaggio dalla Fiom alla confederazione fu Bruno Trentin nel 1988 e basterebbe questo a farlo entrare nella storia di questo sindacato.
Nelle settimane che sono passate fra la proposta di Susanna Camusso e ieri, l’accusa che gli è stata più rivolta è quella di essere «un movimentista» vicino al M5S. A smentirla basterebbe il fatto che Landini non ha mai avuto alcun rapporto con qualsivoglia esponente cinquestelle e i suoi giudizi sul governo sono stati duri fin dal principio: «Per la prima volta abbiamo un governo che è basato su un contratto privato e non discute con nessuno».
I preconcetti di tanti suoi detrattori sono già stati spazzati via nell’anno e mezzo passato in segreteria confederale. Chiamato da Camusso dopo la firma del contratto dei metalmeccanici su richiesta di quei pensionati dello Spi che ora capeggiavano i riformisti contrari alla sua successione, Landini ha subito conquistato la stima di tutti i componenti della segreteria per capacità di lavoro comune, rispetto delle competenze e collegialità.
Ha lavorato su deleghe simili e comuni con il suo avversario fino a ieri notte, Vincenzo Colla, avendo uffici vicini a Corso d’Italia. Si conoscono da tanti anni, entrambi sono emiliani ma con storie differenti. Se Colla, piacentino, è sempre stato vicino al Pd, Landini, reggiano testardo, non ha tessere di partito dai tempi del Pci: «In tasca ho solo quella della Cgil e dell’Anpi», ricorda sempre.
La battaglia per i diritti partita a Pomigliano nel 2010 e vinta in Corte costituzionale nel 2015 contro la Fca di Marchionne lo ha fatto diventare un personaggio e il simbolo del riscatto dei deboli. Ai tempi della fallita Coalizione sociale tutti pensavano puntasse a diventare un leader politico – lo pensò soprattutto il Fatto – e invece fin da quel giorno il suo obiettivo era prettamente sindacale: diventare segretario della Cgil per cambiarla e avvicinarla ai giovani e ai lavoratori autonomi.
Recentemente applaudito fino a spellarsi le mani dai delegati Cisl e Uil a un attivo della Ricerca, ieri Landini ha fatto le prime foto da segretario coi suoi compagni della Fiom. A Ivano e Angelo che scherzosamente gli dicevano: «Goditi oggi perché da domani ti attacchiamo», ha risposto: «Sì, sì, sì: voi dovete fare la Fiom».

Il Fatto 24.1.19
Landini segretario della Cgil: sarà una “variabile” politica
di Salvatore Cannavò

Il segretario della Cgil sarà Maurizio Landini. E la novità costituisce una variabile che potrebbe animare il dibattito politico. La notizia, che circola ormai da mesi, ha trovato ieri la sua sanzione in un accordo al vertice del sindacato di Corso d’Italia.
Allo sfidante, Vincenzo Colla, viene infatti offerta la carica di vice-segretario in tandem con Gianna Fracassi, aretina, abilitata come avvocato, ma sindacalista da sempre e già interna alla segreteria confederale con Susanna Camusso. Era da molto tempo che nella Cgil non veniva ricoperta la carica di vicesegretario, in questo caso due, da quando questa modalità di organizzazione regolava i rapporti tra la componente comunista e quella socialista. Fu poi riesumata per la vicesegreteria di Guglielmo Epifani nella gestione Cofferati. Torna oggi per dare unità a una vicenda che sembrava scappare di mano.
La notizia dell’accordo circola al mattino, ma potrà essere ufficializzata solo verso le 12, per via di dissensi di dettaglio. Oltre alla vicesegreteria, infatti, l’accordo prevede che le componenti a sostegno di Colla avranno tre posti nella futura segreteria (oggi sono due) con il previsto ingresso del segretario dei Chimici, Emilio Miceli. Ma ieri sera su questo punto non c’era ancora pieno accordo. Altro tassello, la composizione del direttivo nazionale (179 componenti), il parlamentino sindacale e dell’Assemblea nazionale (302 componenti) a cui spetta, per statuto, l’elezione del segretario generale. Per i due organismi, che saranno votati oggi (la votazione di ieri sera è slittata per i problemi di composizione delle liste) si stabilisce una quota del 60-40 a favore dell’area di Landini.
Tutti vincitori, dunque. Colla ottiene una visibilità che prima non aveva: “Non potevamo spaccare la Cgil in un momento così delicato per il Paese”, dichiara alla stampa subito dopo il raggiungimento dell’accordo. Vince ovviamente Landini che sarà eletto con circa il 90% dei voti e che ottiene un risultato a cui nessuno pensava fino ad alcuni mesi fa. Si troverà in una segreteria in totale continuità con quella precedente, ma del resto la sua elezione sarà il frutto di un accordo politico con Camusso sull’autonomia del sindacato dalla politica e sulla centralità dei temi del lavoro. Ruolo riconosciuto dall’attuale segretaria della Fiom, Francesca Re David, che ha dato a Camusso “prova di grande coraggio, anche nel voler cambiare”. Susanna Camusso tra l’altro, potrebbe rimanere in segreteria – scelta inedita e inusuale– con l’incarico delle relazioni internazionali.
Ma Landini non è Camusso e il suo ruolo mediatico e di influenza dell’opinione pubblica si farà sentire. I messaggi di attenzione che sta ricevendo in queste ore non provengono solo dai lavoratori e dagli iscritti, ma anche dal mondo confindustriale e dal mondo politico, compreso il M5S. Sono messaggi riservati. Il governo ha preferito non presentarsi al congresso, ma ci sono.
Come segretario farà il suo debutto il 9 febbraio nella manifestazione unitaria organizzata con Cisl e Uil contro la manovra di Bilancio. Quindi contro il governo. Un ruolo che ha già ricoperto, ma che non sarà scontato. Quando fu eletto alla segreteria della Fiom stilò delle proposte concrete e chiese incontri a tutti i partiti e alle forze sociali. È prevedibile che faccia lo stesso anche adesso, magari chiedendo un faccia a faccia anche a M5S e Lega – che due estati fa lo voleva alla sua scuola-quadri – oltre che ai partiti della sinistra. Il personaggio ha una idea della Cgil che lavora a tutto campo per ottenere i risultati e che stabilisce un rapporto stretto e diretto con la base e con i lavoratori. La variabile Landini, quindi, potrebbe produrre queste novità: una figura pubblica e un tema, il lavoro, che irrompono nel dibattito costringendo gli altri, a partire dalla politica, a pronunciarsi. Chi lo conosce ricorda che Landini è “post-ideologico” e che al fondo delle sue scelte prevale il merito. E chi lo osserva con un occhio ai consensi elettorali sa che tra gli iscritti alla Cgil c’è una cospicua fetta di elettori del M5S e della Lega. Mondi che si sovrappongono in modo diverso da prima.

La Stampa 24.1.19
La Cgil di Landini: più unitaria più progressista e più anti-governo
di Fabio Martini


Alla Fiera del Levante di Bari si è appena conclusa una lunga notte di trattative e di psicodrammi, l’accordo è stato raggiunto - Maurizio Landini farà il segretario della Cgil e Vincenzo Colla sarà il suo vice - e in un corridoio si incontrano casualmente i due ex operai emiliani che dovevano scontrarsi e che hanno fatto la pace in zona Cesarini. Landini - che è di Reggio e ha un anno in più del piacentino Colla - si rivolge al suo futuro vice, gli dice «grazie per aver cercato un’intesa» e lo abbraccia. In quel momento non c’è nessuno a scattare la foto della famiglia ritrovata e oggi il patto tra il nuovo segretario e il suo vice sarà suggellato da un abbraccio in pubblico, in occasione dell’intervento al congresso di Colla.
Un happy-end che sta dentro le corde di un sindacato, la Cgil, che per oltre un secolo è stata la casa comune della sinistra italiana e che ha sempre vissuto la divisione interna come un male assoluto. Ma ora che la sinistra politica è al minimo storico, frammentata come mai, il segnale più potente che arriva da Bari al Pd e agli altri segmenti è proprio questo: la Cgil resta un modello di unità.
Che Cgil sarà? Lo comincerà a dire questa mattina Maurizio Landini nell’intervento nel quale annuncerà ai delegati di essere l’unico candidato alla segreteria. Un discorso attesissimo, anzitutto perché negli ultimi mesi l’ex leader dei metalmeccanici si è letteralmente inabissato: negli ultimi mesi ha rilasciato due sole interviste, una strategia del silenzio, volta a stemperare il ricordo del Landini movimentista e che si è rivelata vincente.
Per anni capo della opposizione e di sinistra a Susanna Camusso (non l’aveva neppure votata come segretaria), dopo aver caldeggiato una «coalizione sociale» coagulo di tutti i segmenti a sinistra del Pd, da due anni - con l’appossimarsi del congresso Cgil - Landini si è via via «normalizzato», a cominciare dalla firma nel 2016 del contratto dei metalmeccanici, assieme a Fim-Cisl e Uilm-Uil, evento che non accadeva da sei anni. Non ha più indossato la felpa della Fiom, ha diradato le presenze nei talk show. Ma non devono essersi esaurite le caratteristiche che gli avevano fatto scalare le classifiche della popolarità: la grinta, la spontaneità popolare del suo eloquio e un carisma speciale nel raccogliere e canalizzare il dissenso
E in queste ore, al congresso di Bari, tra i suoi sostenitori meno movimentisti, circola una speranza; che anche Landini possa essere attraversato da quella «grazia di Stato» che ha letteralmente trasformato alcuni dei più grandi leader della Cgil. Quei milioni di lavoratori alle spalle hanno spinto il comunista Giuseppe Di Vittorio (pur isolato dal Pci) a condannare l’invasione sovietica dell’Ungheria, un altro comunista come Bruno Trentin a firmare per senso di responsabilità le dure intese del 1992 e il «destro» Sergio Cofferati a promuovere la più grande manifestazione di sinistra del Dopoguerra.
La Cgil di Landini si preannuncia più «progressista» (tra i grandi elettori dell’ultima ora del nuovo leader ci sono i pensionati, la categoria politicamente più tradizionalista): si annuncia più unitaria con Cisl e Uil (lo ha preannunciato Camusso) e più anti-governativa di quella degli ultimi mesi. Lo ha detto Landini stesso in una intervista di pochi giorni fa e anche su questo l’apripista è stato lo sfidante Colla. Ma con una riserva mentale. Subito dopo le elezioni del 4 marzo 2018, la Cgil si era posta in stand-by rispetto al governo anche sulla scorta di una ricerca tra gli iscritti: tra i tesserati il Pd è ancora il primo partito (lo ha votato il 35%), a LeU è andato il 10%, Cinque Stelle (33%) e Lega (10%) sommano una percentuale del 43%..

Repubblica 24.1.19
Le prossime mosse
Ora la sfida sarà tenere uniti stabili e precari
di Paolo Griseri


L’avversario
Con Sergio Marchionne, ad di Fca, Landini ha avuto diversi momenti d’attrito culminati nella vertenza di Pomigliano
La cravatta rossa
Maurizio Landini ha indossato la cravatta una sola volta, nel 2015, quando andò a buon fine la trattativacon Whirlpool
Il bacio
In passato la Fiom di Landini ebbe rapporti burrascosi con Susanna Camusso, un bacio nel 2015 suggellò la pace

BARI Una delle frasi più ripetute durante i lunghi mesi del congresso della Cgil è che "l’incarico di segretario generale cambia le scelte delle persone". E’ presto per dire se Maurizio Landini rispetterà questa regola. Certo, da quando è entrato nella segreteria generale della Cgil, ha ridotto le sue uscite pubbliche e le sue radicali prese di posizione. E’ vero che da leader della Fiom era più naturale andare all’attacco. Domani il nuovo segretario farà il discorso programmatico e si definiranno meglio le linee della sua azione sindacale. Ci sono fin da oggi alcuni punti fermi.
Il referendum sugli accordi
Il primo è quello del rapporto con i lavoratori negli uffici e nelle fabbriche. C’è da giurare che Landini sarà coerente con uno dei mantra della sua azione sindacale: la validazione degli accordi da parte di tutti i lavoratori coinvolti e non solo degli iscritti ai sindacati che firmano l’intesa. Una linea che il Landini metalmeccanico ha sempre mantenuto. Con una vistosa eccezione: Fca. Nei referendum di Pomigliano e Mirafiori le indicazioni della Fiom sono state battute. Ma in quel caso, era la tesi, non si trattava di una consultazione libera perché l’azienda aveva subordinato gli investimenti e la garanzia dei posti di lavoro all’approvazione degli accordi.
Il rapporto con Cisl e Uil
Il secondo punto sarà inevitabilmente il rapporto unitario con Cisl e Uil. E anche qui la sua biografia sindacale, fatta di aspre rotture con Fim e Uilm, sembrerebbe remare contro. Ma sul suo tavolo di segretario generale Maurizio Landini troverà in eredità il dossier della prima manifestazione unitaria contro il governo, il 9 febbraio. Un appuntamento importante per verificare l’esistenza di una opposizione sociale al governo Salvini-Di Maio, presupposto indispensabile per una opposizione politica. Se Landini saprà tenere un rapporto con gli altri due sindacati confederali, potrà arrivare un giorno a far approvare quella legge sulla rappresentanza che garantirebbe anche a sindacati come la Fiom la piena agibilità sui luoghi di lavoro sulla sola base del consenso tra i lavoratori e a prescindere dalla loro linea nei confronti delle aziende.
Il mondo dei precari
Per l’ex saldatore da oggi numero uno della Cgil il punto più difficile da realizzare sarà comunque il terzo: tenere unito il mondo del lavoro dei precari con quello di chi ha il posto fisso. Un’impresa su cui si sono cimentati negli ultimi anni molti sindacalisti, compresa Susanna Camusso. Combattere la separazione dei lavori, dei contratti e delle garanzie è in fondo la più grande scommessa che oggi ha di fronte chi fa sindacato.
Le anime della Cgil
Sul fronte interno solo i prossimi mesi diranno come si saranno adattate le diverse anime della Cgil al cambio di guida. Il congresso ha consegnato al nuovo segretario generale una Cgil meno monocratica, più pluralista di com’era nel passato recente. Ma gli schieramenti interni al più grande sindacato italiano sono mutevoli. Come dimostra la stessa alleanza, fino a qualche anno fa impensabile, tra Susanna Camusso e Maurizio Landini.

Repubblica 24.1.19
Landini e la Cgil
Da Rìribelle a leader
di Roberto Mania


La Cgil ha un leader, la sinistra no. Eppure Maurizio Landini non era predestinato alla guida del sindacato di Corso d’Italia. Aveva il physique du rôle per fare altro: l’eterno oppositore, il ribelle, il massimalista, il movimentista, l’estremista, l’operaista, l’arringapopolo corteggiato dai radical chic. Era l’anti-Marchionne, Landini. L’uomo delle battaglie identitarie, degli scioperi di testimonianza e delle eroiche sconfitte. Tanta politica ( quella delle piazze piene e delle urne vuote) e poco sindacato. Ma il suo progetto di Coalizione sociale, nel quale avrebbe voluto mischiare la Fiom con l’associazionismo, i precari con gli ambientalisti, il lavoro autonomo con quello dipendente, è rimasto nella culla. L’idea di rompere gli steccati all’insegna della civile partecipazione democratica fuori dai partiti e, in qualche modo, anche dai sindacati, si è rivelato velleitarismo puro. Che però gli ha permesso di modificare rapidamente rotta e di puntare, da una posizione di minoranza, alla scalata della Cgil, il grande sindacato rosso. Un sindacato sì in declino di rappresentatività, imbottito di iscritti- pensionati che parlano del passato più che del futuro, accerchiato dalla profonda frantumazione del lavoro e dalla globalizzazione dei processi di produzione, ma pur sempre la più folta organizzazione sociale del Paese con cinque milioni e mezzo di tessere. Unico luogo ( ancora) di convivenza di tutte le nuove e vecchie anime politiche e culturali (mai abiurate, in questo caso) della sinistra, orfana dei partiti di massa del secolo passato; radicato nel territorio, presente nelle sedi del lavoro tradizionale, dalle fabbriche agli uffici, e in grande affanno, invece, nel rincorrere i lavoratori della gig economy, i contrattisti a tempo, i forzati della logistica, i precari dei centri commerciali, ma pure i disoccupati di lunga durata. Un sindacato declinante, come in tutto il mondo del capitalismo finanziario dove i tassi di sindacalizzazione si comprimono anno dopo anno, accanto al dilagare dei populismi, del rancore sociale coltivato nella solitudine della rete virtuale e non nelle comunità, e delle nuove povertà spesso associate al lavoro.
Landini ha prima firmato, con pragmatismo, il contratto dei metalmeccanici, dopo due tornate nelle quali la Fiom si era tirata indietro. Accordo contrastato dall’interno della stessa Cgil ma approvato dal referendum tra i lavoratori. Poi è stato eletto nella segreteria confederale. E così ha cominciato la sua lunga marcia. Profilo basso, apparizioni televisive centellinate dopo le esagerazioni della stagione fiommina. Ha cercato la connessione sentimentale con tutta la Cgil, non più solo con i metalmeccanici.
Per la sua successione Susanna Camusso avrebbe voluto un ricambio generazionale, un segretario (o segreteria) più giovane. L’operazione non è riuscita per mancanza di candidati all’altezza del ruolo. Così ha ripiegato su quello che era stato il suo più netto oppositore. Ma anche il più carismatico e popolare sindacalista in campo. Mossa coraggiosa che infatti non è piaciuta a una parte della Cgil.
Ora spetta a Landini fare quel che aveva sempre detto: cambiare il sindacato, come ha saputo cambiare se stesso. Rompere l’asfissiante potere delle nomenklature interne, rinnovare le logiche per la selezione dei gruppi dirigenti, riportare in basso la militanza sindacale, contrastare il conservatorismo endemico che è anche della sua organizzazione, accettare la sfida delle nuove tecnologie che bruciano il lavoro ma che nello stesso tempo creano inedite opportunità. Rendere, infine, totalmente trasparenti i meccanismi di finanziamento della confederazione. Nella stagione della disintermediazione la Cgil ha trovato un nuovo leader. È il momento per la sua Bad Godesberg. Servirà anche alla sinistra.

La Stampa 24.1.19
La Baviera commemora la Shoah
I deputati AfD abbandonano l’aula
La destra lascia il Parlamento durante l’intervento della sopravvissuta Charlotte Knobloch
di Walter Rauhe

Hanno abbandonato in gruppo la cerimonia commemorativa in ricordo delle vittime dell’Olocausto e sono tornati in aula solo al termine dell’evento. La destra populista dell’Alternative für Deutschland torna a far parlare di sé con un gesto a dir poco provocatorio e di cattivo gusto. È accaduto ieri nel parlamento regionale della Baviera, in occasione della tradizionale seduta dei deputati per la Giornata della memoria in onore delle vittime della Shoah.
A parlare ai deputati è, per l’occasione, la sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti e presidente della comunità ebraica dell’Alta Baviera, Charlotte Knobloch, che senza tergiversare si rivolge direttamente ai deputati dell’ultra-destra populista, invitandoli a rispettare gli articoli elencati sulle pagine della Costituzione tedesca, il testo sul quale hanno prestato giuramento nel momento del loro ingresso nel Parlamento.
Knobloch critica aspramente le posizioni negazioniste assunte da diversi esponenti del partito, la loro minimizzazione dei crimini commessi dalla Germania di Adolf Hitler, le loro visite organizzate all’interno dei campi nazisti, nel corso delle quali diversi deputati dell’AfD hanno messo in discussione l’esistenza stessa delle camere a gas.
Democrazia in pericolo
«Simili partiti calpestano con i piedi i valori della nostra Costituzione e della nostra società civile», ha dichiarato Charlotte Knobloch nel suo discorso, sostenendo che alcune frange del Partito rappresenterebbero un pericolo per la stessa democrazia. A questo punto, gran parte dei deputati del partito si è alzato in piedi e ha lasciato in segno di dimostrazione e chiassosamente l’aula parlamentare per protestare contro il discorso della presidente della comunità ebraica. Un’azione a dir poco provocatoria, mirata a disturbare la solenne cerimonia dando precedenza al proprio orgoglio ferito, piuttosto che al rispetto dei milioni di vittime del nazionalsocialismo.
Ombre di neonazismo
I rappresentanti di tutti gli altri partiti hanno risposto all’azione dell’ultra-destra alzandosi in piedi e applaudendo in segno di solidarietà a Charlotte Knobloch.
Ma è probabilmente anche a causa di simili comportamenti che i servizi segreti interni del Bundesverfassungsschutz hanno deciso la settimana scorsa di prendere in esame più attentamente le attività del partito populista e i discorsi di alcuni suoi esponenti più radicali. Secondo l’intelligence tedesca, alcune frange del partito e la sua federazione giovanile Junge Alternative avrebbero mostrato tendenze estremiste e sovversive, e sarebbero in stretto contatto anche con gli ambienti dell’estrema destra neonazista. In seguito alla drastica misura annunciata dai servizi segreti, il partito ha perso diversi punti scendendo nei sondaggi a quota 13%, il risultato più basso da un anno a questa parte.
Negli ultimi mesi, inoltre, il partito è finito nell’occhio del ciclone anche a causa di tutta una serie di scandali attorno a finanziamenti illeciti provenienti dalla Svizzera e mai dichiarati pubblicamente, come prescritto dalla legge sul finanziamento dei partiti.

Corriere 24.1.19
Tre anni dopo
Il delitto Regeni senza risposte e il muro d’Egitto
di Giovanni Bianconi


Tre anni fa l’omicidio di Giulio Regeni. Il Cairo continua a fare muro. I magistrati italiani sono al capolinea. Per proseguire servirebbe una collaborazione delle autorità egiziane giudiziarie. Ora tocca alla politica fare luce e dare giustizia al giovane ricercatore italiano sequestrato il 25 gennaio 2016 e ritrovato morto una settimana dopo sul ciglio della Desert road per Alessandria d’Egitto.
ROMA Tre anni, cinque nomi. Di più non si è riusciti a ottenere. E viste le premesse, se non succede qualcosa che al momento nessuno sa immaginare, sarà difficile andare oltre. Gli inquirenti e gli investigatori italiani hanno fatto il massimo che era consentito loro dalla situazione, dalle relazioni internazionali e dalle leggi. Ora tocca ad altri.
Giulio Regeni fu sequestrato al Cairo la sera del 25 gennaio 2016, tre anni fa. Una settimana più tardi lo fecero ritrovare cadavere sul ciglio della Desert road per Alessandria d’Egitto. L’autopsia svolta in Italia ha permesso di stabilire che venne tenuto in vita fino all’1 febbraio, subendo torture in momenti diversi, fino all’esecuzione avvenuta con una «separata e violenta azione contusiva sull’osso del collo». Su questo orrendo crimine la Procura di Roma ha aperto un’indagine che s’è potuta basare esclusivamente su ciò che i magistrati egiziani hanno acconsentito di condividere, attraverso incontri e comunicazioni fondate su buona volontà e spirito d’iniziativa, giacché tra i due Paesi non esistono trattati di cooperazione giudiziaria.
La conclusione del procuratore Giuseppe Pignatone e del sostituto Sergio Colaiocco è stata raggiunta nel dicembre scorso, quando hanno iscritto sul registro degli indagati i nomi di cinque militari egiziani: un generale, due colonnelli, un maggiore e un assistente. Sulla base di un rapporto elaborato dai poliziotti del Servizio centrale operativo e dai carabinieri del Ros dov’è riassunto «quanto si è raccolto sul conto del generale Tabiq Sabir, del maggiore Magdi Ibrahim Abdel Sharif, del colonnello Uhsam Helmi e dell’assistente Mahmoud Najem, espressioni della National Security del Cairo, e del colonnello Athar Kamal Mohamed Ibrahim, all’epoca capo delle Investigazioni giudiziarie della capitale». Nei loro confronti, «in concorso con altri soggetti rimasti ignoti», ci sono «elementi che ne evidenziano il coinvolgimento nel sequestro di persona di Giulio Regeni».
A vario titolo sono le cinque persone che hanno indagato su Regeni fino alla vigilia della sua scomparsa, a partire dalle denunce del sindacalista-finto amico di Giulio, Mohamed Abdallah, arruolato dalla National security . Di qui la decisione di inquisirli formalmente per il rapimento del ricercatore italiano.
La scorsa settimana, Pignatone e Colaiocco sono andati al Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, a spiegare, in seduta segreta, che più in là la magistratura italiana non è in grado di andare. Normalmente l’iscrizione sul registro degli indagati è l’inizio di un’indagine, ma in questo caso rischia di essere la fine. Per proseguire servirebbe una collaborazione delle autorità egiziane, giudiziarie e non solo, ben maggiore di quella accordata finora (consentire di assistere agli interrogatori e porre le domande giuste, per dirne una), senza la quale l’inchiesta romana è destinata all’archiviazione. In alternativa dovrebbe essere la Procura del Cairo a perseguire in patria le persone che ragionevolmente si possono ritenere responsabili della scomparsa di Giulio, ma non sembra averne l’intenzione.
Dunque, per provare a ottenere «verità e giustizia» per Giulio Regeni resta aperta l’altra strada, quella politico-diplomatica. Pressione e stimolo non più solo dei magistrati. Il ritorno dell’ambasciatore italiano in Egitto deciso a ferragosto del 2017 (dopo il richiamo ad aprile 2016) non ha prodotto i risultati sperati. E nemmeno le ripetute missioni dei rappresentanti del governo di Roma al Cairo. Il premier Conte e i suoi due vice, Di Maio e Salvini, hanno ottenuto molte promesse dal presidente Al Sisi, che però non hanno avuto seguito. Come quelle più recenti dell’ambasciatore egiziano al ministro degli Esteri Moavero.
Ad agosto Di Maio raccontò che Al Sisi gli disse addirittura «Regeni è uno di noi», poi a novembre 2018 dettò una sorta di ultimatum al Cairo: se non arriveranno risposte entro l’anno, affermò il vicepremier grillino, «ne trarremo le conclusioni, tutto ne risentirà». Il 2018 è finito da quasi un mese: le risposte non sono arrivate, e nessuno ne ha tratto le conseguenze.
Ieri Salvini ha spiegato di essere ancora ottimista: «Continuiamo e continueremo a chiedere giustizia, non mi sono sentito preso in giro da Al Sisi, sono fiducioso». Aggiungendo: «Non fatemi fare il magistrato, conto sul buon lavoro dei magistrati italiani e di quelli egiziani». Solo che, come spiegato da loro stessi al Parlamento, il lavoro dei magistrati italiani è sostanzialmente finito, mentre quello degli egiziani è fermo da tempo. Dopo tre anni e cinque nomi.

Repubblica 24.1.19
India
Priyanka, l’ultima dei Gandhi in campo per salvare un sogno
Nipote di Indira, figlia di Sonia, sorella di Rahul, finora non si era esposta direttamente. È il segno della crisi del Congresso
di Raimondo Bultrini


Da bimba a donna
Priyanka, 47 anni, la più giovane dei 2 figli di Sonia e Rajiv Gandhi. Nella foto qui accanto è piccola seduta a terra: alle sue spalle la mamma, al centro la nonna Indira e a sinistra il padre Rajiv: nonna e padre furono uccisi dagli estremisti

Già da diversi anni la più giovane rampolla della dinastia indiana dei Gandhi dava una mano durante le campagne elettorali prima per conto di mamma Sonia e poi per sostenere il fratello Rahul. Ma alla vigilia di un voto delicato dopo la sonora sconfitta del partito dinastico nel 2014, la 47enne Priyanka ha accettato di guidare formalmente con l’incarico di segretaria generale il Congresso nello Stato dell’Uttar Pradesh orientale, il più popoloso del Continente indiano.
Madre di due bambini che di cognome fanno Vadra, Priyanka ha preso la storica decisione in un momento delicatissimo che vede moltiplicarsi i nemici della famiglia: Rahul è andato appositamente a New York dove si trovava per convincerla a usare il carisma di cui gode tra la base dei militanti. Segretario generale del partito dal dicembre 2017 e fino a pochi anni fa a sua volta riluttante a entrare in politica, Rahul ha sempre avuto un legame speciale con la sorella di appena due anni più giovane, compagna di giochi e confidente con la quale ha attraversato i difficili giorni della morte di nonna Indira e di papà Rajiv, entrambi uccisi da fondamentalisti.
Priyanka condividerà con un altro leader del partito, Jyotiraditya Scindia, la responsabilità delle strategie elettorali e della scelta dei candidati nello Stato che era stato tradizionalmente il feudo dei Gandhi, ma che nelle ultime elezioni ha votato massicciamente per il partito religioso del Bjp di Narendra Modi voltando le spalle alla potente dinastia " fondata" da Jawaharlal Nehru, il primo premier dell’India, padre di Indira e bisnonno di questi due nuovi protagonisti della politica indiana.
La portata della sfida alle urne prevista a maggio è di quelle che potrebbero lasciare il segno per lungo tempo a venire.
Il Congresso non dovrà infatti vedersela solo con il partito religioso del Bjp che con il premier Narendra Modi ha stravinto le elezioni di cinque anni fa e oggi guida sia il governo nazionale che quello statale, ma anche con due formazioni oggi alleate e guidate da ex potenti ministri come la celebre " regina dei dalit" Mayawati Kumari e il capo del Samajwadi Party Akhilesh Yadav.
E’ stato il sodalizio tra questi ex nemici a convincere Priyanka della necessità di dare una mano alla famiglia per evitare una nuova disfatta.
Abile oratrice ma anche esperta organizzatrice - secondo le parole dello stesso fratello - potrebbe perfino candidarsi in uno dei due storici collegi elettorali di Amethi ( dove venne eletto Rahul) e di Rae Bareli tradizionalmente affidato a sua madre Sonia che lo ereditò dal marito Rajiv e dalla suocera Indira. Di lei Priyanka è considerata dalla base una sorta di "reincarnazione" per le affinità di carattere e temperamento politico.
Grazie a lei il Congresso potrebbe coprire con dei candidati quasi tutti sotto i 50 anni gran parte degli 80 seggi in lizza, nella speranza – secondo alcuni eccessivamente ottimistica – di aggiudicarsene 30. Prima dell’annuncio della sua discesa formale in campo le proiezioni del partito non superavano i 10 seggi anche se competevano nello stesso Stato sia Rahul che Sonia, ormai sempre più ritirata dalla politica attiva.
L’unico tallone d’Achille di Priyanka potrebbe essere il marito, l’uomo d’affari Robert Vadra più volte sospettato di illeciti immobiliari negli stati di Haryana e Rajasthan dove è ancora sotto inchiesta.

Repubblica 24.1.19
Il personaggio
Leyla, curda, senza cibo da 77 giorni
di Marco Ansaldo


"Mamma non lasciarmi": con queste parole e questa foto la figlia di Leyla Guven, Sabiha, lancia l’allarme in Rete sulle condizioni della madre

C’è una deputata curda, democraticamente eletta nel Parlamento di Ankara, in sciopero della fame da quasi 80 giorni in un lontano carcere turco. E c’è fuori, nel mondo, una massa sempre più imponente di persone, qualche centinaio, dagli Stati Uniti al Brasile, dall’Europa al Medio Oriente, che si uniscono a lei nella protesta. Che si riassume nella richiesta di far terminare il regime di isolamento a cui è sottoposto, da 20 anni, il leader del Pkk, Abdullah Ocalan, unico detenuto rinchiuso dal febbraio 1999 nella prigione di Imrali, sperduto atollo nel Mare di Marmara.
Lei si chiama Leyla Guven, ha 55 anni, condannata a 31 anni di prigione. Ma ne deve affrontare un totale di circa 100 per avere criticato l’occupazione della città siriana di Afrin da parte dell’esercito turco, oltre che di far parte – sostiene Ankara – del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk). In realtà Guven è una parlamentare del filo-curdo Partito democratico dei popoli, oltre che co-leader del Congresso della società democratica, un’assemblea che nelle zone del sud est dell’Anatolia riunisce esponenti della società civile, avvocati, organismi sindacali, attivisti per i diritti umani, considerata però dalla Turchia affiliata al Pkk.
In America la protesta di Leyla ha raccolto un testimonial importante, quell’Angela Davis, storica attivista dei diritti degli afroamericani, che l’altro giorno sul New York Times le ha dedicato una lettera: « Guven è di enorme ispirazione a chi crede alla giustizia e alla liberazione » . Ancora prima erano arrivare le parole di Leila Khaled, combattente e icona del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina: « Un modello per tutte le donne del mondo».
Anche in Italia molti si stanno attivando. Silvia Baraldini, che fu prigioniera politica italiana negli Usa, ha scritto una lettera di solidarietà. E un appassionato appello è stato lanciato dall’Iniziativa internazionale delle donne a Consiglio d’Europa, Osce e Ue.
Molto preoccupata è la figlia della deputata curda, Sabiha Temizkan, che ha postato un commovente tweet (" Mamma, non lasciarmi!"), con la foto in cui le stampa un bacio sulla guancia. La situazione della donna ha raggiunto una fase critica: nausea, afasia, sensibilità a suono e luce, confusione di coscienza, e un tumore al cervello che richiede farmaci

Repubblica 24.1.19
La legale Irène Terrel
L’avvocata dei latitanti "Pronti a dare battaglia se Macron cede all’Italia"
di Anais Ginori


PARIGI La Francia non può rinnegare la parola data ai tanti italiani accolti». Irène Terrel, sessantotto anni, è lo storico avvocato dei latitanti che sono scappati Oltralpe all’inizio degli anni Ottanta. Insieme al marito Jean-Jacques De Felice, legale di origini italiane morto nel 2008, ha difeso quasi tutti i fuoriusciti dalla lotta armata, dalle ex brigatiste Marina Petrella e Roberta Cavalli a Cesare Battisti.
Quanti latitanti italiani sono ancora suoi clienti?
«Con mio marito ne abbiamo difeso alcune decine, non ho mai tenuto il conto. La maggior parte sono passati da questo studio legale diventato un riferimento non solo giuridico ma anche umano».
Perché ha preso così a cuore questa causa?
«Mi sono sempre occupata di diritto degli stranieri. I primi italiani vennero da me dopo che mi occupai del caso Hypérion (legato al rapimento Moro, ndr), insieme all’Abbé Pierre. Oggi comunque non sto parlando come avvocato di nessuno».
In che senso?
«Al momento la Francia non ha ricevuto nessuna richiesta di estradizione dall’Italia. Spero di non dover più tornare a difendere nessuno dei miei ex clienti, lo spero più che altro per loro».
L’hanno chiamata in questi giorni?
"Certo, sentire di nuovo i loro nomi e le loro fotografie apparire sui giornali è come uno tsunami. Sono persone ormai anziane, con figli e nipotini, italiani che hanno vissuto più tempo in Francia che in patria, e vi garantisco non è stato un esilio dorato».
Un esilio "con lo champagne" ha detto Salvini...
«Queste persone sono dovute ripartire da zero. Alcuni hanno aperto ristoranti, altri sono diventati psicologi, architetti, per molti la situazione è rimasta sempre precaria. E comunque tutti hanno vissuto in balìa di qualche tranello che potesse far precipitare la loro normalità».
Per questo molti latitanti sono rimasti nell’anonimato?
«È l’indicazione che abbiamo suggerito per facilitare l’integrazione, con un risultato positivo. Nessuno di loro ha mai più avuto rapporti con la lotta armata, né commesso qualsiasi reato».
Una regola di discrezione che Battisti non ha rispettato.
«Di lui non voglio parlare. L’ho difeso nel 1991, riuscendo a bloccare l’estradizione, e poi la seconda volta nel 2004 fino a quando ha deciso di scappare dalla Francia e cambiare avvocato».
Come chiama questi latitanti: ex terroristi, rifugiati?
«La parola "terroristi" è generica, si presta a strumentalizzazioni. Non li chiamo rifugiati perché la loro condizione non è quella prevista dalla convenzione di Ginevra.
L’Italia è una democrazia. Per me sono persone che hanno trovato asilo in Francia».
Visto che l’Italia è una democrazia perché non tornare e regolare i conti con la Giustizia?
«All’epoca François Mitterrand aveva scelto l’accoglienza seguendo convinzioni personali ma anche perché c’era un implicito accordo con i dirigenti italiani dell’epoca. E comunque oggi non possiamo più discutere della bontà della scelta di Mitterrand».
Perché no?
«È un dibattito che aveva senso negli anni Ottanta o Novanta. Oggi sono passati quarant’anni dai fatti, la prescrizione non è solo un concetto giuridico ma anche filosofico e morale. In Francia abbiamo una tradizione di amnistia utilizzata per chiudere gli orrori della guerra d’Algeria o le persecuzioni in Nuova Caledonia».
Non ha mai un pensiero per i parenti delle vittime?
«Sì certo ma ripeto: esiste un momento in cui lo sguardo storico deve prendere il sopravvento su quello repressivo e giudiziario.
Oggi tra l’altro non vediamo una richiesta di giustizia».
Perché?
«Il governo sembra assetato di vendetta. Che senso ha esibire Battisti come una bestia in gabbia? È un comportamento inaccettabile per delle istituzioni democratiche».
Convinta che Macron non estraderà nessuno?
«Mi sono confrontata con governi di destra e sinistra, con Presidenti molto diversi. Tutti hanno sempre rispettato la parola data da Mitterrand. L’unico caso di estradizione è quello di Persichetti per ragioni anti-giuridiche».
Se ci sarà bisogno, è pronta a ricominciare la battaglia legale?
«Spero davvero non succeda.
L’ultima volta, nel 2008, è stato molto difficile. Marina Petrella è arrivata a pesare quaranta chili in carcere e alla fine il decreto di estradizione è stato annullato per ragioni umanitarie».

Repubblica 24.1.19
La vita segreta delle Sorelle Tempestose
Le tre Brontë (in ordine di età Charlotte, Emily e Anne) hanno lasciato il segno nella letteratura dell’Ottocento, non solo inglese. Soprattutto la secondogenita: come dimostra il suo capolavoro, variazione sul tema del Male
di Pietro Citati


A fine settembre 1850, Charlotte Brontë scrisse qualche riga su Cime tempestose (Bompiani, Rizzoli), il romanzo che la sorella Emily aveva scritto qualche anno prima, morendo. Charlotte era piena di riserve: «La forza di Cime tempestose mi colma di rinnovata ammirazione, tuttavia sono oppressa: al lettore non viene quasi mai concesso di gustare il piacere puro, ogni raggio di sole si fa largo tra nere sbarre di nubi minacciose, ogni pagina è sovraccarica di una specie di elettricità morale, o la scrittrice ne era inconsapevole — nulla poteva fargliene prendere coscienza».
Dunque, il romanzo più intenso, drammatico e fantastico dell’ottocento inglese (probabilmente europeo) non dava alcun piacere alla sorella, che aveva scritto la modesta Jane Eyre. Per fortuna Chesterton aggiunse « Cime tempestose avrebbe potuto essere scritto da un’aquila: la sopravvissuta di una specie di uomini-uccelli completamente scomparsi». La storia di Emily, morta il 19 dicembre 1848, a trent’anni, è ricchissima di particolari fantastici. Si passa velocemente dalla malattia alla morte: si attraversa, per così dire, una serie di morti reali e immaginarie, malattie selvagge, come se l’esistenza, in quei trent’anni, non potesse sopravvivere. Tutto è sotto il segno dell’Apocalisse: il grande libro della fantasia e della visione. Ma non c’è nessuna traccia di Gesù Cristo, sembra che Emily cancelli tutto ciò che è propriamente evangelico.
Il paesaggio di Cime tempestose anticipa, con potere molto maggiore, quello di Thomas Hardy: rispetto a Cime tempestose, Tess dei d’Uberville
impallidisce e perde qualsiasi rilievo. Chi troverà, in Hardy, questi cani e maiali barbarici e queste rocce scoscese e queste strade interminabili e queste furibonde tempeste e queste brughiere, e questa violenza che sembra emergere, chissà come, dal cuore stesso della terra. Lì Emily visse, penetrandosi di nevi e piogge e fanghi e ululati e moltitudine di api. La violenza della natura si lega stranamente alla violenza della stregoneria, a una moltitudine di fantasmi, che vengono persino incisi sulle rocce. Tutto è stregoneria, delirio, bestemmia, e servi che appartengono al mondo dell’odio e dell’inferno. Tutto è morte. I personaggi umani diventano spettri: minuscoli, inverosimili spettri.
Obbedendo alla tradizione del tardo settecento, Emily Brontë costruisce un grande personaggio demoniaco, Heathcliff: freddo, malvagio, odioso, indifferente, sprezzato e sprezzatore, ironico, vigile, cupo, vendicativo: fustigatore e fustigato, con gli occhi iniettati di sangue. «Rimarrò — disse — sporco quanto mi pare, mi piace essere sporco e sporco voglio essere». Ispirava ripugnanza e amava ispirare questo istinto di tigre e di serpente. Heathcliff dice: «Sono la sola creatura che preferisca essere costretto a vivere per sempre nell’inferno, piuttosto che passare una sola notte sotto il tetto di Cime tempestose ».
Tutto lascia credere che Emily Brontë volesse rappresentare in Heatchliff il male assoluto, senza limiti e senza misure. «Ho quasi raggiunto il mio paradiso — egli disse — e quello degli altri non ha nessun valore per me e non lo desidero affatto». La forza con cui Emily rappresenta il Male è di una intensità spaventosa. Male. Male.
Nient’altro che Male. Catherine è il parallelo di Heatchliff: come se, al mondo, non ci fosse che Tenebra, Tenebra delle Tenebre. Catherine ripete: «Sposerò Heathcliff così si saprà quanto lo amo. Lui è più me di me stessa». C’è bellezza: moltissima, affascinante bellezza: ma essa non cancella né adombra il Male, anzi la bellezza fa crescere il Male, e lo rende più spaventoso.
Emily Brontë nacque il 30 luglio 1818, nello Yorkshire. Quando aveva tre anni, la madre morì e la zia si prese cura di lei.
Adorava Walter Scott, la cui mente fosca dava prova, secondo lei, di una meravigliosa conoscenza della natura umana. Lesse Shelley e Byron. Da giovane scrisse duecento poesie. Desiderò aprire una scuola ad Haworth, poi andò ad insegnare a Bruxelles. Nel 1846 pubblicò insieme alle sorelle delle poesie, di cui vendette due copie. Nel 1847 uscivano Jane Eyre di Charlotte Brontë e Cime tempestose di Emily, che molti critici giudicarono stupido e perverso. La sorella Anne morì a ventinove anni. Emily viveva chiusa in casa o passeggiava sulle colline o visitava le chiese, sebbene la sua fede fosse dubbiosa e problematica.
A fine ottobre 1848, il raffreddore di Emily non accennava a diminuire: le mancava il respiro ad ogni minimo movimento un po’ brusco. Era magrissima e pallidissima. Nascose la sua malattia ed evitò ad ogni costo qualsiasi cura o intervento medico. La sorella, Charlotte, scrisse a suo nome. «Conosco i miei sentimenti, perché sono legati alla mia anima, ma le menti del resto degli uomini e delle donne sono, per me, come valori sigillati e scritti a geroglifico che non riesco a decifrare». Se le rivolgevano la parola, non rispondeva.
Charlotte cuciva nella sala da pranzo. Al piano di sopra, Emily stirava. La terza sorella, Anne, stava seduta davanti al camino.
Quando le chiesero se si sentisse a suo agio, rispose gentilmente: «Non sei tu che puoi sollevarmi, ma presto tutto andrà bene in onore e nome del nostro Redentore » . Era rassegnata, felice di « liberarsi da questa vita di sofferenza » . La sua fede e la sua speranza non declinarono mai. Ma Charlotte protestava: « Io sono ribelle! » « Se potessi fare a meno del mio letto, non lo cercherei mai » . « Ma che ne è delle interminabili ore di angosce, quando soffro terribilmente? » L’indole di Emily non era socievole: stava chiusa nella sua stanza, tra i suoi libri. Un martedì di dicembre si alzò e si vestì come di consueto, facendo ogni cosa da sola, tentò di riprendere il proprio lavoro, parlava con voce rotta, le domestiche non la persero di vista: avevano compreso cosa annunciasse quel respiro rauco sempre più affannoso e gli occhi che si facevano vitrei.
« Emily — scrisse Charlotte — si va indebolendo di giorno in giorno. Ha rifiutato di prendere alcune medicine. Non ha la minima indulgenza verso se stessa. Non ho mai conosciuto ore buie come queste » . « È ormai troppo tardi — Emily disse alla sorella: se vuoi far venire un dottore, ora puoi riceverlo! » Il 2 dicembre Charlotte scrisse: « Emily non soffre più di dolore e di debolezza, ormai. Non soffrirà mai più in questo mondo. È morta dopo una breve lotta. Pensavamo che le fosse possibile vivere con noi per qualche settimana ancora; e poche ore dopo, era già nell’eternità. Sì, non c’è più Emily nel tempo, sulla terra, ormai. Ieri abbiamo deposto quietamente le sue povere spoglie terrene sotto il pavimento della chiesa. Siamo molto calmi. Perché dovrebbe essere altrimenti? L’angoscia di vederla soffrire è passata.
Lo spettacolo delle pene della morte è finito. Il funerale è alle nostre spalle.
Sentiamo che è in pace. Non è più necessario tremare per il gelo e per il vento pungente.
Emily non li sente più » . Il cane, Keeper, entrò in chiesa e vi rimase per tutto il tempo del sermone funebre. Tornato a casa, si accucciò davanti alla porta della camera di Emily, e per molti giorni ululò lugubremente. Charlotte aggiunse: « Il giorno della morte di Emily è diventato per me un’idea fissa, cupa ed ostile » .
« Mi torna alla mente quello che avevo sentito dire sui morti, come si agitino nelle tombe se i loro ultimi desideri non sono esauditi » .

Corriere 24.1.19
Brizzi e le molestie sessuali, caso archiviato
Roma, il gip definisce «evanescenti» le accuse al regista. Lui:«Di questa storia non voglio più saperne»
di Alessandra Arachi


ROMA Non ha stappato champagne ieri Fausto Brizzi. Davanti al suo legale che gli riferiva la notizia ha invece alzato le spalle: «Di questa storia non voglio sapere più niente, sto lavorando al mio film in uscita».
Il gip di Roma Alessandro Arturi ieri ha archiviato le accuse contro il regista romano, roba pesante, roba di violenza sessuale, roba che aveva trasformato Fausto Brizzi da un allegro regista di gran successo in uno stupratore, e per di più seriale.
Ma nel suo dispositivo il giudice ieri non ha esitato a definire «evanescenti», queste accuse e anche di più. Ha respinto l’atto di querela di una ragazza, perché «non consente di individuare neppure in astratto elementi fattuali qualificanti l’assunta violenza sessuale».
Per quasi un anno e mezzo Fausto Brizzi è stato dipinto come il mostro di San Lorenzo. Tutto per quei servizi alle Iene di Dino Giarrusso, che ha intervistato diverse ragazze che accusavano Brizzi di violenza e molestie sessuali e lo ha fatto quasi sempre coprendo il loro volto e camuffando la loro voce.
Ma il giudice non ha trovato riscontri a queste violenze, anzi ha trovato «un’estrema problematicità a riconoscere in una tale tipologia di approccio una reale potenzialità costrittiva della volontà della pretesa vittima».
In quattordici mesi il successo di Fausto Brizzi si è letteralmente capovolto. Dentro la sua famiglia, nella sua casa di produzione, per i suoi film milionari dove all’improvviso non volevano più che ci fosse la sua firma in calce.
I servizi delle Iene
La trasmissione che ha aperto il caso ora rilancia: per noi
non è affatto finita qui
Claudia Zanella la sua bella moglie attrice, gli è stata vicina, finché ha potuto. Quando è esploso lo scandalo, nel novembre 2017, ha scritto al Corriere una lettera dove chiedeva rispetto, soprattutto per la loro bimba allora piccolissima, ma anche per sé stessa: «Se mio marito ha avuto rapporti con altre donne nel corso del nostro matrimonio, voglio parlarne da sola con lui, nel nostro privato».
Ma Claudia, pur volendo confrontarsi con il marito lontano dal clamore, mai ha pensato fosse un violentatore.
I servizi di Dino Giarrusso su Fausto Brizzi hanno continuato ad andare in onda e adesso, dalla trasmissione di Mediaset, rivendicano le loro ragioni anche dopo la sentenza del giudice: «Per noi delle Iene non è affatto finita qui. Perché per due delle tre donne che hanno querelato Brizzi l’archiviazione c’è stata perché secondo la legge era passato troppo tempo. Brizzi ci denunci». Ma per il gip Arturi le querele tardive sono soltanto un aspetto del problema, visto che nel suo dispositivo scrive che permangono «fondate riserve sulla rintracciabilità degli estremi del delitto di violenza sessuale».
«Qualcuno da stasera deve chiedere scusa a Fausto Brizzi», ha scritto su Twitter l’ex premier Matteo Renzi che tante volte volle il regista alla sua Leopolda.
Qualcuno aveva già fatto molto di più che chiedere scusa a Fausto Brizzi. Mentre tutti lo tenevano da parte, Luca Barbareschi gli ha prodotto un film, «Modalità aereo», una commedia alla Brizzi che uscirà tra poco, il 21 febbraio.

Corriere 24.1.19
Archeologia
Egitto, ritrovate venti tombe anche precedenti all’età dei faraoni


L’Egitto ha fatto sapere che una missione di archeologi ha scoperto 20 tombe antiche, delle quali alcune risalenti al Periodo predinastico, precedente a quello faraonico (prima del 3000 a.C.). La notizia è stata diffusa sul sito del ministero delle Antichità egiziano (dove sono state pubblicate alcune immagini) e sulla relativa pagina Facebook: la scoperta sarebbe avvenuta nel sito di Kom al-Kholgan, a circa 140 chilometri a Nord del Cairo. Le tombe custodiscono fossili di animali, oggetti in pietra, vasi, frammenti di ceramica, simulacri di scarabei, che potrebbero risalire anche ad epoche successive. I reperti non si sono preservati in buono stato. (c. br.)

https://spogli.blogspot.com/2019/01/la-stampa-24.html